Come abbiamo visto la volta scorsa, Steiner afferma che “il pensiero è chiamato a risolvere l’enigma che la percezione ci ha posto”; la percezione ci dà infatti un contenuto (il percetto) che s’impone, in quanto pre-esistente, alla nostra esperienza, mentre il pensiero ci dà un contenuto (il concetto) che siamo noi a dover ricercare e porre.
Volendo, si potrebbe paragonare il percetto a uno di quegli aerei che durante la guerra sorvolavano le città. La contraerea ne avvertiva la presenza dal rombo dei motori, ma, per poterlo individuare, doveva proiettare verso il cielo un fascio di luce (il pensare); solo dopo averlo illuminato, poteva infatti identificarlo (concettualizzarlo), e riconoscerlo quindi come amico o come nemico, come innocuo o come minaccioso.
L’immagine è grossolana, ma pertinente. Certo, una cosa è investire di luce un aereo, altra investire di luce un’idea: in questo caso, infatti, la natura del mezzo di ricerca non è dissimile da quella dell’oggetto ricercato, poiché è appunto la luce del pensare umano a intercettare la luce dell’idea cosmica.
Allorché udremo Steiner dire, tra breve, che l’idea è “costruita su se stessa” e “fortemente fondata in sé” (appunto come un astro che brilla di luce propria), sarà bene pertanto ricordare che la luce, mentre illumina (concepisce) l’illuminabile (il concepibile), illumina (concepisce) anche se stessa: ovvero, che l’illuminante è sempre illuminato, mentre l’illuminato non sempre è illuminante.
Ma riprendiamo da dove ci eravamo interrotti.
Scrive Steiner: “Se parliamo dell’essenza d’un oggetto o in generale dell’essenza del mondo, non può dunque trattarsi d’altro che di afferrare la realtà quale pensiero, quale idea” (pp. 113-114).
Ecco il realismo! Lo abbiamo detto e ripetuto: il cosiddetto “realismo ingenuo” ha il torto, non di essere “realismo”, ma di essere appunto “ingenuo”, “primitivo” o “dogmatico”: ha il torto, ossia, di essere un realismo acritico delle cose (di quanto percepiamo in virtù dei sensi fisici), e non un realismo critico delle idee (di quanto percepiamo in virtù dei sensi spirituali).
Per conquistare quest’ultimo, portandosi perciò al di là, sia del realismo (ingenuo), sia dell’anti-realismo (nell’accezione di J.Searle), è tuttavia necessario cessare di proiettare la luminosa realtà delle idee sulla materia (come i realisti ingenui), sull’energia (come i realisti metafisici) o sull’informazione (come i realisti informatici).
Si tratta, in altri termini, di superare il “nominalismo” (base del materialismo), non regredendo al realismo medioevale, ossia al realismo dell’anima razionale o affettiva, bensì avanzando dal realismo delle cose, che caratterizza (quale pendant del nominalismo) la prima fase di sviluppo (scientifico-naturale) dell’anima cosciente, al realismo delle idee, che ne caratterizza la seconda (scientifico-spirituale).
Prosegue Steiner: “Nell’idea riconosciamo quel quid da cui dobbiamo derivare tutto il resto: il principio delle cose. Ciò che i filosofi chiamano l’assoluto, l’essere eterno, il fondamento del mondo, ciò che le religioni chiamano Dio, noi, sulla base della nostra disamina teorico-conoscitiva, lo chiamiamo: l’idea (…) Nessun’altra forma dell’esistenza può appagarci, eccetto quella che deriva dall’idea. Nulla può rimanere escluso, tutto deve diventare una parte del grande intero che l’idea abbraccia. Essa invece non domanda affatto d’essere trascesa. E’ l’entità costruita su se stessa, fortemente fondata in sé” (p. 114).
Pensate ai tempi in cui gli uomini, per avere risposta alle loro più importanti domande, usavano interrogare gli oracoli. Ebbene, anche il pensiero è una sorta di oracolo, in quanto ogni volta che percepiamo un qualcosa (una X) finiamo (più o meno avvertitamente) con l’interrogarlo (“Che cos’è questo?”; “Che cos’è quello?”; “Che significa questo?”; “Che significa quello?”; ecc.), aspettandoci che prima o poi ci risponda e ci “sveli l’arcano”.
Già il semplice affermare, che so: “Ho fame”, oppure: “Ho sete”, equivale a determinare (concettualmente) l’indeterminata percezione di un nostro stato di bisogno o di disagio. Non rimuoverebbe infatti tale stato chi, avendo noi fame, ci desse da bere o chi, avendo noi sete, ci desse da mangiare.
D’altronde, quando andiamo dal medico, lamentando un qualche malessere, non ci aspettiamo forse una diagnosi? E che cos’è una “diagnosi”, se non la determinazione (concettuale) di ciò che, per noi, è soltanto una percezione o una sensazione dolorosa?
Per capire ciò di cui necessitano il corpo e l’anima, dobbiamo dunque interrogare il pensiero (lo spirito), mentre il pensiero, per risponderci, non deve interrogare che se stesso.
Proprio oggi mi è capitato, dal giornalaio, di leggere sulla copertina di un settimanale questo titolo: Nel fegato, c’è un cervello. Ma non è che nel fegato “ci sia un cervello”: è che il fegato, il cuore, i polmoni, i reni e tutti gli altri organi del corpo, sono “cervello”, poiché sono intelligenza o, più precisamente, esseri intelligenti.
La cosa ci parrà meno strana se terremo presente che gli intelligibili (così Aristotele chiama gli “enti”, nel De anima) in tanto sono tali in quanto sono intelligenti, e che dietro ogni intelligenza c’è un soggetto intelligente: ad esempio, quel soggetto (collettivo) che siamo soliti chiamare “specie”.
Abbiamo detto, l’ultima volta, che per mezzo del concetto di ”informazione” si mira a oscurare quelli del pensare, del concetto stesso e dell’Io. Per Boncinelli, ad esempio, gli esseri viventi, nutrendosi più d’informazione che di energia, sarebbero dei “veri e propri informivori” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 53).
Già, ma per potersi nutrire d’informazione, e per poter quindi essere un “informivoro”, è necessario informarsi: ovvero, è necessario svolgere un’attività che sta all’informazione come quella metabolica sta agli alimenti. Ma quale altra attività (del soggetto) potrebbe metabolizzare degli alimenti extrasensibili (le informazioni), se non quella del pensare?
Fatto si è che certe verità premono a tal punto, al fine di essere accolte e riconosciute dalla coscienza moderna, che l’attuale scienza materialistica, non riuscendo più a respingerle, non può far altro che de-formarle o camuffarle, per non vedersi costretta a mutare se stessa.
Ma torniamo a noi.
Scrive Steiner: “Pare che ciò contraddica a quanto si è detto più sopra, cioè che l’idea ci appare in una forma per noi soddisfacente perché noi cooperiamo attivamente al suo prodursi. Ma questo fatto non deriva dall’organizzazione della nostra coscienza. Se l’idea non fosse un’entità fondata in se stessa, una tale coscienza non si potrebbe nemmeno avere. Se una cosa non ha in sé, ma fuori di sé, il centro da cui scaturisce, io non posso, quando essa mi si presenta, dichiararmene pago, ma devo andare oltre la cosa, devo, appunto, arrivare a quel centro. Solo se m’imbatto in un quid che non mi conduca oltre se stesso, raggiungo la coscienza di stare ora nel centro, e di potermici fermare. La mia consapevolezza di star dentro una cosa, è solo la conseguenza della sua qualità obiettiva di portare con sé il proprio principio. Impadronendoci dell’idea, noi giungiamo al nucleo del mondo. Qui afferriamo quello da cui tutto scaturisce. Diventiamo un’unità con questo principio; perciò l’idea, ch’è il quid più obiettivo, ci appare al tempo stesso come il più soggettivo” (p. 114).
Tuttavia, ritenere contraddittorio l’affermare che l’idea è un essere a sé, ma che si presenta alla coscienza (come idea) soltanto ove il soggetto la pensi, è un po’ come ritenere contraddittorio l’affermare, poniamo, che l’attore è un essere a sé, ma che si presenta sulla scena (come attore) soltanto ove il pubblico lo desideri.
Si provi comunque a riflettere sul rapporto vigente tra i cosiddetti “elementi”. Non è forse l’”aria” a trasformarsi in “acqua”? E non è forse l’“acqua” a trasformarsi in “terra”? Ebbene, se si ha presente che l’idea è in relazione con l’elemento “aria”, e che il pensare è in relazione con l’elemento “acqua”, che cosa si deve concludere? E’ semplice: che come l’acqua è una metamorfosi discendente dell’aria, e l’aria una metamorfosi ascendente dell’acqua, così il pensare è una metamorfosi discendente dell’idea, e l’idea una metamorfosi ascendente del pensare.
Il pensare e l’idea sono dunque due realtà omogenee o, per meglio dire, due diversi stati, gradi, livelli o momenti del manifestarsi o del divenire dell’Io.
Si può avere infatti l’autoesperienza (immaginativa) dell’Io nella forza del pensare, così come si può avere, a un superiore livello, l’autoesperienza (ispirativa) dell’Io nella forma dell’idea.
“Le idee – dice Steiner – sono per l’antroposofia i recipienti d’amore” (Formazione di comunità – Antroposofica, Milano 1992, p. 12). In quanto appunto “recipienti” (vasi o coppe) si colmano infatti della forza d’amore dell’Io, conferendole ora la forma A, ora quella B, ora quella C, e così via. Colmandole, l’Io le feconda, permettendo così loro di generare. E’ appunto per questo che Goethe, nel Faust, parla del regno delle idee come del “regno delle Madri”.
Il mondo delle forme è il mondo delle essenze o – come ama dire Florenskij – il “mondo noumenico”; e ciò che conta “per la conoscenza – osserva appunto Steiner – è che si afferri la forma, perché è la forma, non la materia, quella che dà l’essenziale alle cose” (Filosofia e Antroposofia – Antroposofica, Milano 1980, p. 22).
Per colmare, saturare e fecondare le forme, l’Io deve naturalmente uscire da se stesso (dal proprio essere-potenza) e attuarsi: ed è in grado di farlo perché va concepito tanto come “essere”, ovvero come soggetto in quiete, quanto come “divenire”, ovvero come soggetto in movimento.
Nell’idea si manifesta la luce dell’amore. “L’occhio – osserva però Goethe – deve la sua esistenza alla luce. Da organi animali sussidiari indifferenti, la luce chiama in vita un organo che le diventi affine; l’occhio si forma alla luce per la luce, affinché la luce interna muova incontro all’esterna” (La teoria dei colori in Opere – Sansoni, Firenze 1961, vol. V, p. 298).
Dunque, senza l’occhio non avremmo la luce, ma senza la luce non avremmo l’occhio. Ciò vale, tuttavia (e a maggior ragione), anche per il rapporto del pensare con l’idea, e dell’idea con l’Io; parafrasando, potremmo perciò dire: “Il pensare si forma all’idea per l’idea, così come l’idea si forma all’Io per l’Io”.
Scrive Steiner: “La realtà sensibile ci appare tanto enigmatica appunto perché non troviamo in essa il suo centro; e cessa di essere enigmatica quando riconosciamo ch’essa ha un centro che è lo stesso centro del mondo del pensiero che si manifesta in noi” (pp. 114-115).
Osservate ad esempio le mie mani, messe una di fronte all’altra. Ove attribuissimo alla destra il ruolo del soggetto (dell’uomo), e alla sinistra quello dell’oggetto (del mondo), non sarebbe difficile immaginare che la prima, percependola, giudicherebbe la seconda altro da sé, prendendo magari a domandarsi quale sia il fondamento di un siffatto “non-io”.
Ebbene, la mano destra, ove volesse davvero rispondere a un simile interrogativo, non dovrebbe fermarsi alle apparenze, ma penetrare nella mano sinistra e, risalendo lungo il braccio, scoprire nel tronco (nel cuore) tale fondamento. Ma che cosa scoprirebbe, se poi si domandasse quale sia il suo stesso fondamento, e, per rispondersi, risalisse, attraverso il braccio, fino al tronco (al cuore)? Scoprirebbe la stessa cosa: scoprirebbe, cioè, che il fondamento del soggetto (dell’uomo) coincide con quello dell’oggetto (del mondo) .
Allorché congiungiamo, pregando, le mani è come perciò se saldassimo (simbolicamente) quell’anello dell’essere (naturale) che si è spezzato al fine di far nascere la coscienza. Perché questa potesse sorgere, l’essere (dell’uomo) si è dovuto infatti dividere dall’essere (del mondo): ovvero, si è dovuta creare una frattura o un’opposizione tale da consentire a una parte dell’essere (quella dell’uomo) d’incontrare l’altra (quella del mondo) fuori di sé, così da non poterla immediatamente riconoscere (percependola) come parte di sé.
Allo stesso modo in cui, nel Parsifal, la ferita di Amfortas può essere risanata solo dalla lancia che l’ha prodotta, così la ferita della coscienza può essere risanata solo dalla coscienza che l’ha prodotta. La coscienza spirituale è chiamata infatti a risanare quella materiale, saldando l’anello dell’essere, e restituendo così il mondo all’uomo e l’uomo al mondo.
Continua Steiner: “L’idea è una e identica in tutti i luoghi del mondo, in tutte le coscienze (…) Il contenuto ideale del mondo è fondato in se stesso e in sé perfetto. Noi non lo generiamo, cerchiamo solo d’afferrarlo. Il pensiero non lo produce, lo percepisce. Infatti il nostro pensiero non è produttore, ma organo di percezione. Come diversi occhi vedono uno stesso oggetto, così diverse coscienze pensano uno stesso contenuto di pensiero. Le molte coscienze pensano la stessa cosa, ma vi si avvicinano da diversi lati; perciò essa appare loro variamente modificata (…) La diversità delle opinioni umane è spiegabile allo stesso modo della diversità che un paesaggio presenta a due osservatori situati in luoghi diversi” (p. 115).
Come un albero è un albero, e tale resta anche quando venga osservato da punti di vista diversi, così un’idea è un’idea, e tale resta anche quando se ne abbiano opinioni diverse. Crediamo infatti (ingenuamente) di avere opinioni diverse sulle cose, ma abbiamo invece opinioni diverse sulle idee. Che una cosa sia l’idea, altra la coscienza dell’idea non dobbiamo però crederlo, ma esperirlo o realizzarlo: dobbiamo cioè accorgercene o prenderne coscienza.
Con la realtà, d’altro canto, non si può fare che questo. Diceva (se non ricordo male) Bertrand Russel (1872-1970) che nessuno potrebbe, con la logica, convincere gli altri dell’esistenza delle balene. E’ vero: l’unica cosa da fare, infatti, sarebbe portarli a vederle.
Ma come si fa ad andare a vedere le balene se nessuno ne parla, né indica la strada da seguire per arrivare là dove vivono? E’ chiaro, infatti, che andando, che so, nel Sahara, sarà improbabile vedere delle balene. Purtuttavia, quanti vogliono convincere gli altri che le balene non esistono danno proprio questo consiglio: di andare cioè nel Sahara per constatare che non vi si trova neppure una balena.
Parlando di balene, stiamo parlando ovviamente delle idee. Non possiamo, con la logica, convincere nessuno della loro esistenza, ma possiamo aiutare chiunque ne abbia voglia – con lo studio e la pratica della scienza dello spirito – a cercarle e scoprirle.
Ma chi scopre la realtà dell’idea, scopre pure che una sola idea (oggettiva) può dar luogo a una serie infinita di rappresentazioni (soggettive).
Se non esistesse, ad esempio, l’idea della “giustizia”, nessuno potrebbe, cogliendone un qualche aspetto particolare, farsene un’opinione. Un conto, però, è avere coscienza di ciò, altro credere che esistano solo le opinioni sulla “giustizia”, e non l’idea della “giustizia”.
Scrive Steiner: “Purché si sia capaci di penetrare sino al mondo delle idee, si può esser sicuri che, alla fine, si avrà un mondo d’idee comune a tutti gli uomini” (p. 115).
Badate, avere “un mondo d’idee comune” non significa pensarla tutti allo stesso modo: ove così fosse, non si darebbe infatti unità, fraternità o moralità, bensì uniformità, conformità o conformismo.
Come abbiamo appena detto, è piuttosto un bene che ciascuno accolga la propria “parte d’idea”, come parte della propria missione o del proprio destino. Volendo, potremmo paragonare tale “parte d’idea” a uno degli strumenti che compongono un’orchestra. Gli strumenti sono tanti e diversi, ma è appunto svolgendo ciascuno la propria parte, che concorrono, sotto la guida di un direttore (nella fattispecie dell’idea), a realizzare un’armonia. E’ dunque un bene che, di una stessa idea, il soggetto A abbia la parte a, il soggetto B la parte b, il soggetto C la parte c, ecc., perché l’armonia (la fraternitas) nasce, sì, dal concorso di elementi diversi, ma di elementi che vengano al contempo riconosciuti come parti di un tutto che li unifica e trascende. Ove sia però rimosso o negato, tale tutto (l’idea) viene allora proiettato sulla propria parte (sulla propria opinione), ponendola per ciò stesso in conflitto con le altre. La parte a, che creda di essere un “tutto”, comincerà ad esempio a negare alla parte b il suo diritto di esistere, o viceversa.
Ricordo, a questo proposito, un mio conoscente marxista, che una sera mi disse: “Sai, comincio a pensare che tutto dipenda dalla sessualità, e non dall’economia”. Il che sta a significare che il tutto che proiettava prima sull’economia stava cominciando adesso a proiettarlo sulla sessualità: che non stava insomma ritirando tale proiezione, bensì mutandone semplicemente l’oggetto. Non è infatti che la sessualità o l’economia siano il tutto, ma è che nel tutto ci sono e la sessualità e l’economia, e che bisognerebbe pertanto scoprire quale parte (come peraltro tutte le altre attività umane) vi svolgono.
E’ così, in ogni caso, che comincia quella che Steiner chiama “la guerra di tutti contro tutti”: vale a dire, la guerra degli ego contro gli ego.
Chi mai, infatti, non riuscendo a scoprire, al di là dell’opinione, l’idea, potrebbe scoprire, al di là dell’ego, l’Io, e, all’interno dell’Io, il Logos (ovvero, l’essere o il “rappresentante” dell’intera umanità)?
Dice Steiner: “Purché si sia capaci di penetrare sino al mondo delle idee”. Orbene, nell’epoca dell’anima razionale o affettiva veniva considerata scientia scientiarum la “filosofia”, mentre nell’epoca dell’anima cosciente va considerata tale la “gnoseologia”. A patto, tuttavia, che questa sia non solo teoretica, ma anche sperimentale. Come abbiamo già detto, non possiamo però considerare “sperimentale” una gnoseologia che, anziché indagare la vita del pensiero, indaghi – come fanno le odierne neuroscienze – quella del cervello.
Che cosa dovrebbe infatti darci una scientia scientiarum? E’ presto detto: la possibilità di approdare a un punto di vista che armonizzi, in quanto superiore, quanto si trova a un livello inferiore, permettendoci così di apprezzarne la molteplicità e varietà.
Scrive appunto Steiner: “Quale compito ha dunque assolto la teoria della conoscenza in confronto alle altre scienze? Essa ci ha illuminati sullo scopo e sul compito di tutta la scienza; ci ha mostrato quale importanza abbia il contenuto delle singole scienze. La nostra teoria della conoscenza è la scienza della determinazione di tutte le altre scienze. Ci ha rivelato come quello che si é conquistato nelle singole scienze sia il fondamento obiettivo dell’esistenza universale (…) Così la teoria della conoscenza è, al tempo stesso, la dottrina del significato e della missione dell’uomo (…) Il nostro spirito ha il compito di educare se stesso in modo da mettersi in grado di ricavare da tutta la realtà che gli è data, quell’aspetto di essa che risulti scaturire dall’idea” (pp. 116 e 117).
Poche righe dopo questi passi, Steiner ricorda che Goethe parlava del suo “operare interiore” come di una “euristica vivente”.
Ma una “euristica vivente” non è in fondo che una “spiegazione vivente”. Perché possa darsi una “spiegazione vivente”, occorre dunque vivere. Ma come – secondo quanto recita l’adagio – “chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane”, così – secondo quanto detta l’esperienza – chi vive non riflette e chi riflette non vive. Viviamo infatti sognando (nel sentire) e dormendo (nel volere) e moriamo invece riflettendo (a-posteriori, nel pensare riflesso o rappresentativo).
Se ieri, poniamo, fossi caduto in preda alla collera, oggi, riflettendo, ne sarei sicuramente pentito. Ed è giusto così. Ma non sarebbe stato ancor meglio se fossi stato in grado di riflettere nel momento stesso in cui la collera era sul punto d’invadermi l’anima? Cosa è invece accaduto? Che ieri, quando era in me la collera, ero fuori di me, mentre oggi, che sono in me, è fuori di me la collera. E come fare allora a conoscerla e a trasformarla se quando è presente lei sono assente io, e se quando sono presente io è assente lei? (Si veda, al riguardo, La missione della collera in R.Steiner: Metamorfosi della vita dell’anima – Tilopa, Roma 1984).
Ciò vuol dunque dire, da un punto di vista generale, che si può disporre di una “euristica vivente” solo se si dispone di un pensiero vivente: ossia, di un pensiero che sia all’altezza della vita, e non, come quello ordinario, soltanto della morte.
Roma, 20 febbraio 2001