Ci occuperemo stasera del secondo paragrafo del nono capitolo: Metodo dogmatico e metodo immanente.
Notiamo, per cominciare, che un metodo “dogmatico” che sia in contrasto con uno “immanente” deve essere di necessità “trascendente”.
Per esso – scrive infatti Steiner – “l’essere obiettivo che determina le mie asserzioni si trova in un mondo a me sconosciuto; nel mio mondo sta soltanto la mia asserzione, con le sue ragioni formali (assenza di contraddizioni, appoggio su diversi assiomi, ecc.). Una scienza che si fonda su tale opinione, è dogmatica. E’ tale la filosofia teologizzante che poggia sulla fede nella rivelazione, come pure la moderna scienza sperimentale; poiché non esiste solo un dogma della rivelazione, ma anche un dogma dell’esperienza (…) Un tempo, la scienza era retta dal dogma della rivelazione, oggi lo è da quello dell’esperienza. Una volta appariva presunzione scrutare le ragioni delle verità rivelate; oggi è ritenuta un’impossibilità di sapere altro all’infuori di ciò che enunciano i fatti. “Perché essi parlino così e non altrimenti” è ritenuto non sperimentabile e perciò irraggiungibile” (pp. 124-125).
Il fondamento dell’essere viene posto, dal “dogma della rivelazione”, nel soggetto in sé (in Dio), dal “dogma dell’esperienza”, nell’oggetto in sé (nella “cosa in sé”): ossia, in un soggetto e in un oggetto irraggiungibili dall’ordinario non-essere del pensiero umano.
Per entrambi i “dogmi”, l’idea, non avendo un proprio contenuto (in quanto non-essere), non si reggerebbe dunque su di sé, ma su altro da sé: ossia, su un contenuto (extraideale) del quale non può essere che “immagine”.
Osserva però Steiner: “Purché ne abbiamo la capacità, vediamo che l’idea ha in sé tutto quanto la costituisce, e che in essa si ha tutto quanto si può chiedere. Tutto il fondamento dell’essere si è riversato nell’idea, per intero, senza riserve, sì che fuori di essa non possiamo cercarlo in nessun luogo. Nell’idea non si ha dunque un’immagine di ciò che cerchiamo nelle cose, ma il cercato stesso” (p. 125).
E che cos’è il “cercato stesso”? E’ l’essenza, “l’essere – direbbe Hegel – come un apparire in sé stesso” (Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 123): ovvero, realtà o sostanza, e non immagine o apparenza.
Scrive ancora Steiner: “Voler spiegare il mondo per mezzo d’un reale che non sia idea, è una tale contraddizione, che non si riesce nemmeno a capire come mai sia stato possibile sostenerla” (p. 126).
Ciò conferma – come mi capita talvolta di dire – che l’“oscuroveggenza” è ben più misteriosa della “chiaroveggenza”. Che cosa c’è infatti di misterioso nel vederci “chiaro”? Sul piano fisico, non è forse l’occhio malato, e non quello sano, a costituire appunto un problema?
Ma in che cosa consiste, nel nostro caso, l’”oscuroveggenza”? Nel non avvedersi che il pensiero non pensa cose, ma pensieri. Le “cose” infatti non si “pensano”, si percepiscono.
Sentiamo dunque reali le cose perché, percependole, le incontriamo in modo vivo e diretto, mentre sentiamo irreali (astratte) le idee perché, pensandole (con la coscienza ordinaria), le incontriamo riflesse dallo specchio cerebrale.
E non è in effetti ben diversa l’osservazione, poniamo, di una mucca viva da quella di una mucca rispecchiata, dipinta o fotografata?
Il nostro sentire reali o irreali le idee non dipende dunque che dal modo in cui le pensiamo o dal livello di coscienza con cui andiamo loro incontro.
E’ contraddittorio – dice Steiner – “voler spiegare il mondo per mezzo d’un reale che non sia idea”. E’ tuttavia comprensibile che chi, andando incontro all’idea con la coscienza ordinaria, la sperimenta come irreale (come un non-essere), voglia poi “spiegare il mondo per mezzo d’un reale che non sia idea”: che finisca, cioè, col proiettare altrove, quella realtà o quell’essere dell’idea di cui non è cosciente.
Osserva appunto Steiner: “Solo perché l’uomo non è, spesso, in grado di comprendere che l’essere dell’idea è immensamente più alto e più pieno di quello della realtà percepita, egli va in cerca d’una realtà ancora superiore. Ritiene l’essere dell’idea come un che di chimerico, mancante di saturazione reale, e non se ne appaga; non è capace di afferrare l’idea nella sua positività; la possiede solo come astrazione, senza intravederne la perfezione interiore e la solidità” (pp. 127-128).
Qual è dunque l’equivoco? Che l’unica “realtà ancora superiore” a quella dell’idea astratta è quella dell’idea concreta. E’ giusto, perciò, andare in cerca di qualcosa che non sia “chimerico” o “mancante di saturazione reale”, ma è sbagliato ricercarlo fuori dal pensiero o dall’idea.
D’altronde, delle due, l’una: o non si è coscienti dei limiti dell’intelletto, e si approda allora al titanismo intellettualistico (esoterico o essoterico); o se ne è coscienti, e si approda allora alla convinzione che al di là di tali limiti ci sia altro dal pensiero, e non altro pensiero. “Altro pensiero” ch’è poi il vero pensiero, del quale quello ordinario – secondo quanto abbiamo detto e ripetuto – è solo il riflesso, se non addirittura la spoglia.
Il che vale, naturalmente, anche per le idee. Che cos’è infatti una idea nella sua “positività”, nella sua “perfezione interiore” e nella sua “solidità”? Nientemeno che un’entità spirituale; volendo esprimerci in modo davvero appropriato, dovremmo infatti domandare, non: “Che cos’è un’idea?”, bensì: “Chi è un’idea?”.
Abbiamo dunque le idee, ma non ancora una coscienza all’altezza della loro realtà (spirituale): è questa (la Sophia) che siamo chiamati pertanto a sviluppare. Converrete, infatti, che una cosa è portare avanti la nostra vita, credendo che il concetto (o l’idea) sia un nome (flatus vocis), altra portarla avanti, sapendo ch’è un’entità spirituale.
Per passare in modo lucido e critico dall’una all’altra convinzione, evitando possibili derive di ordine fideistico o misticheggiante, è tuttavia necessario – come indica la scienza dello spirito – attraversare delle esperienze intermedie.
Spiega infatti Steiner: “L’uomo ha veramente, come uomo terrestre, alcunché di ciò che vi ha di più basso, e d’altra parte ha un’immagine riflessa di quanto v’ha di più alto, che è soltanto raggiungibile nell’intuizione. Gli mancano completamente, come uomo terrestre, appunto i campi intermedi. Egli si deve conquistare immaginazione e ispirazione” (Conoscenza iniziatica – Istituto Tipografico Editoriale, Milano 1938, p. 67).
Teniamo comunque presente che non si può avere esperienza della realtà del concetto o dell’idea, se non si ha prima quella della realtà (eterica) del pensare. Tra il “pensato” (la rappresentazione) e il concetto o l’idea, c’è infatti il “pensare”: ovvero, quella viva forza che possiamo sperimentare in modo diretto grazie all’esercizio della concentrazione.
Scrive Steiner: “Alla cultura si deve richiedere ch’essa lavori fino a innalzarsi a quel punto di vista superiore dove viene considerato come reale anche un essere che non si veda con gli occhi e non si tocchi con le mani, ma si afferri con la ragione. Noi abbiamo dunque veramente fondato un idealismo che è al tempo stesso realismo” (p. 128).
Questo “idealismo ch’è al tempo stesso realismo” è appunto quello che abbiamo chiamato “realismo delle idee”, contrapponendolo tanto al “realismo ingenuo” (delle cose) quanto alle varie forme di quello che John Searle denomina “antirealismo”.
Scrive ancora Steiner: “Ci differenziamo dal realismo per la nostra piena consapevolezza d’avere soltanto nell’idea il mezzo per spiegare il mondo. Anche il realismo ha solo questo mezzo, ma non lo sa. Esso deduce il mondo delle idee, ma crede di dedurlo da qualche altra realtà. Il leibniziano mondo delle monadi non è se non un mondo di idee; ma Leibniz crede di possedere in esso una realtà superiore a quella ideale. Tutti i realisti commettono lo stesso errore: escogitano degli esseri e non si avvedono di non uscir fuori dall’idea” (p. 128).
Il realismo (ingenuo) pensa, ma non sa di pensare o – come dice Steiner – ha “soltanto nell’idea il mezzo per spiegare il mondo”, “ma non lo sa”: non ne è, vale a dire, cosciente. E che cosa accade allora? Che l’inconscia realtà dell’idea viene proiettata su qualche altro contenuto, più o meno “escogitato”.
Converrà ricordare, a questo proposito, che del processo di proiezione parla non solo la psicoanalisi, ma anche Steiner: “Una facoltà umana di cui l’uomo nulla sapesse – dice appunto – non verrebbe da lui riconosciuta come sua, ma attribuita a un ente a lui estraneo” (Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, pp. 103-104).
La realtà delle idee viene infatti attribuita, da Leibniz, a delle ipotetiche “monadi”, così come viene attribuita (per venire ai giorni nostri), da C.G. Jung, a degli ipotetici “archetipi in sé”, da J.Eccles, a degli ipotetici “psiconi” e, da E.Boncinelli, a degli ipotetici “psicostati”. (Per gli “archetipi in sé”, si veda J.Jacobi: Complesso, archetipo, simbolo – Boringhieri – Torino 1971; per gli “psiconi”, J.Eccles: Come l’io controlla il suo cervello – Rizzoli, Milano 1994; per gli “psicostati”, E.Boncinelli: Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000).
Ci è dato dunque osservare, ancora una volta, che la scienza dello spirito non formula alcuna nuova “teoria”, bensì propone un metodo in grado di portare gradualmente alla coscienza quanto vive e opera di norma nell’incoscienza.
Abbiamo respinto il realismo (ingenuo), – scrive Steiner – “poiché s’inganna riguardo all’essenza ideale del suo fondamento del mondo; ma abbiamo anche respinto quel falso idealismo il quale ritiene che, non potendo noi trascendere l’idea, non possiamo nemmeno trascendere la nostra coscienza, e che quindi tutte le rappresentazioni a noi date, e il mondo intero, non siano altro che soggettiva apparenza, un sogno che la nostra coscienza sogna (Fichte). Questi idealisti, a loro volta, non comprendono che, sebbene noi non possiamo andar oltre l’idea, pure nell’idea abbiamo quell’elemento oggettivo che è fondato in se stesso e non nel soggetto. Essi non considerano che, sebbene non si possa uscire dall’unità del pensiero, pure col pensiero ragionante penetriamo proprio nella piena oggettività. I realisti non comprendono che l’oggettivo è l’idea, e gli idealisti non comprendono che l’idea è oggettiva” (p. 128).
Fatto si è che non si tratta di “trascendere” o “andar oltre” l’idea, bensì di trascendere o andar oltre la coscienza rappresentativa dell’idea.
Che i realisti non comprendano che l’oggettivo è l’idea, e che gli idealisti non comprendano che l’idea è oggettiva, è peraltro conseguenza dell’azione delle forze “ostacolatrici”. La concezione dei realisti (ingenui) è infatti ipotecata dalle forze arimaniche, quella degli idealisti dalle forze luciferiche.
Il che vuol dire, tuttavia, che tanto i primi che i secondi hanno in parte ragione. Sarebbe bene perciò esercitarsi a osservare quale sia la parte di ragione (e di torto) degli uni e degli altri, perché, così facendo, si arriverebbe di fatto ad assumere quella prospettiva centrale dell’Io (e del Logos) che, quale terza, li comprende e li supera (“E’ cosa certa quanto strana – osserva al riguardo Goethe – che verità ed errore sgorgano dalla stessa fonte; perciò spesso non bisogna danneggiare l’errore, perché allo stesso tempo si danneggia la verità – Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 59).
Teniamo comunque presente che una cosa è l’individualità (spirituale), altra la soggettività (psichica). Lucifero mira infatti a psicologizzare le idee (soggettivizzandole o relativizzandole), mentre Arimane mira a reificarle o imbalsamarle (trasformandole materialisticamente in “cose” o dottrinariamente in “dogmi”).
Continua Steiner: “Dobbiamo ancora occuparci dei puri empiristi che ritengono un’illecita deduzione filosofica ogni spiegazione del reale per mezzo dell’idea ed esigono che ci si attenga al sensibilmente percepibile. Contro questo punto di vista possiamo dire semplicemente che la sua esigenza può essere unicamente formale, di metodo. Il dire che ci si debba arrestare al dato significa solo che dobbiamo appropriarci di quel che ci viene incontro. Sull’essenza del dato, può decidere meno di ogni altro questo punto di vista; poiché quell’essenza gli deve appunto venire incontro dal dato stesso. Ci è affatto incomprensibile come si possa associare all’esigenza dell’esperienza pura, quella di non trascendere il mondo sensibile, posto che l’idea può, ad ugual titolo, soddisfare l’esigenza dell’esser data. Il principio positivistico dell’esperienza deve lasciare del tutto aperta la questione di che cosa sia il dato; quindi si accorda benissimo con un risultato idealistico dell’indagine. Allora però tale esigenza coincide anche con la nostra. E nella nostra concezione si riuniscono tutti i punti di vista in quanto sono giustificati. Il nostro punto di vista è idealismo, perché vede nell’idea il fondamento del mondo; è realismo, perché qualifica l’idea come il reale; ed è positivismo o empirismo, perché non vuol giungere al contenuto dell’idea per mezzo d’una costruzione aprioristica, ma come a un dato” (pp. 128-129).
In effetti, la scienza dello spirito si attiene non solo al dato sensibile, ma anche a quello spirituale. Insieme al percetto considera infatti il concetto, riconoscendo che l’uomo, per potersi avvalere della sua facoltà conoscitiva, deve prima dividerli (percependo) e poi riunirli (giudicando).
L’empirismo ha dunque ragione nel rivendicare i diritti del dato, ma ha torto nel rivendicarli solamente per il dato sensibile.
Va bene affermare – scrive al riguardo Hegel – “che ciò che è vero, deve essere nella realtà ed esservi per la percezione”, ma bisogna anche osservare “che in ciò che si chiama esperienza ed è da distinguere dalla semplice percezione singola di fatti singoli, si trovano due elementi: – l’uno, che è la materia per sé isolata e infinitamente varia; – l’altro, la forma, i caratteri dell’universalità e della necessità” (Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 48 e 49).
Dice Steiner ch’è “incomprensibile come si possa associare all’esigenza dell’esperienza pura, quella di non trascendere il mondo sensibile”. Come dargli torto? Chi volesse davvero non trascenderlo dovrebbe infatti guardarsi, nei suoi riguardi, dal concepire anche un solo pensiero o dal formulare anche una sola parola: dovrebbe cioè guardarsi dal fare proprio quanto fanno invece (e non certo con parsimonia) i vari teorici dell’empirismo o del positivismo.
Non verrebbe dunque voglia di dire, col Cristo: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”? (Lc 23,34).
Risposta a una domanda
Tra il dato sensibile (il percetto) e il dato spirituale (il concetto) c’è in effetti un’importante differenza: il primo ci raggiunge anche se ne siamo (animicamente) “indegni”; il secondo ci raggiunge solo se ne siamo (animicamente) “degni” o, per meglio dire, se ce ne siamo resi tali (“Beati i puri di cuore, – dice infatti il Vangelo – perché vedranno Dio” – Mt 5,8).
Ma che cosa vuol dire rendersi “degni” del concetto (o dell’idea)? Vuol dire conoscerlo, amarlo e disporsi quindi ad accoglierlo, tacitando con fermezza “l’uomo del sottosuolo” (Dostoevskij): ossia, quella bassa e rumoreggiante legione di brame e pregiudizi che abitualmente l’oscurano o respingono.
Chi conosce la psicoanalisi sa bene, ad esempio, che i pazienti hanno, nei confronti della terapia, un atteggiamento “ambivalente”: da un lato, si dicono infatti disposti (in buona fede) a fare tutto il necessario per ottenere la guarigione; dall’altro le oppongono invece un’inconscia “resistenza”.
Orbene, ciò vale, in larga misura, anche per coloro che cercano la verità: da un lato si dicono infatti disposti (in buona fede) a fare tutto il necessario per trovarla; dall’altro le oppongono invece un’inconscia “resistenza”. In tanto però gliela oppongono in quanto avvertono, più o meno oscuramente, che per trovare la verità del mondo occorre trovare la verità di se stessi, e che per trovare la verità di se stessi occorre trasformarsi o – per dirla con Goethe – “perire e divenire”.
“Ciò che si chiama paura dell’errore – osserva appunto Hegel – si fa invece piuttosto conoscere come paura della verità” (Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1996, p. 49).
Roma, 27 marzo 2001