Le opere scientifiche di Goethe (28)

L

La scorsa settimana, abbiamo ultimato l’esame del secondo paragrafo del nono capitolo; stasera, ci occuperemo pertanto del terzo, intitolato: Sistema della scienza.

Scrive Steiner: “Quale forma ha la scienza compiuta, alla luce del modo di pensare goethiano? Anzi tutto dobbiamo ricordare che il contenuto complessivo della scienza è un dato; dato, in parte, quale mondo sensibile dall’esterno, in parte, quale mondo di idee, dall’interno. Dunque tutta la nostra attività scientifica consisterà nel superare la forma in cui questo contenuto complessivo del dato ci viene incontro, per raggiungerne un’altra atta ad appagarci. Questo è necessario, dato che l’intima unità del dato ci resta occulta, nella prima forma in cui ci si presenta quando ci appare solo la sua superficie esteriore. Ora tale attività metodica, che stabilisce il nesso accennato, si svolge diversamente, a seconda del campo di fenomeni che prendiamo a studiare” (p. 130).

Che cosa vuol dire che “il contenuto complessivo della scienza è un dato”? Vuol dire che la scienza si occupa di ciò che esiste, non creando perciò l’esistente, bensì la coscienza dell’esistente.
Dal momento, tuttavia, che l’esistente si dà a vari livelli (ad esempio, minerale, vegetale, animale e umano), la sua ”attività metodica” deve assumere necessariamente forme diverse.
Ma qui si pone un problema: se il “metodo scientifico” è uno (come per lo più si dice), come può essere adeguato ai diversi livelli di esistenza? E se non è uno, come può essere garantita la scientificità dei diversi metodi?
Si potrebbe rispondere che il metodo scientifico è una sorta di “metodo-madre” in grado di partorire tanti “metodi-figli” quanti sono i livelli di realtà. Ma se fosse così, quale forma avrebbe allora tale “metodo-madre”? E ne avrebbe poi una? Dal momento che le forme dei “metodi-figli” riflettono le diverse qualità dei livelli di realtà cui si applicano, non dovrebbe essere infatti privo di forma un metodo che partorisce, sì, gli altri, ma che non si applica, di per sé, ad alcuna realtà?
Ed è proprio così, poiché il “metodo-madre”, in quanto universale, sta ai “metodi-figli”, in quanto particolari, così come il concetto (universale) sta alle sue rappresentazioni (particolari). Come da un solo concetto, che è forma, ma non ha forma, possono derivare più rappresentazioni che hanno forma, così da un solo metodo universale possono appunto derivare più metodi particolari.
Un metodo “universale”, più che un “metodo”, è però un concetto, un’essenza, e quindi uno spirito.
Ciò dimostra dunque ch’è lo “spirito” scientifico, e non il “metodo”, a essere uno, e ch’è appunto questo spirito a farsi garante della scientificità dei metodi in cui s’invera per adeguarsi alle varie esigenze della realtà.
Ma che cosa succede quando non si riconosce la scienza come “spirito”? E’ presto detto: si proietta l’universale (di cui si è incoscienti) sul particolare (di cui si è coscienti). Universalizzando quanto è particolare, o assolutizzando quanto è relativo, si tradisce però lo spirito scientifico, e si approda (volenti o nolenti) a quello dogmatico.
Fatto si è che come “il sabato – secondo quanto afferma il Cristo – è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mr 2,27), così il metodo è stato fatto per lo spirito e non lo spirito per il metodo; ch’è come dire, in altri termini, che è lo spirito scientifico a dover garantire il metodo, e non viceversa.
La scienza attuale (che dichiara “scientifico” solo il metodo atto a indagare il mondo inorganico) fa dunque, sul piano noetico, quello che l’Antico Testamento fa, sul piano etico. Infatti, come la moralità sarebbe garantita, stando al secondo, dall’osservanza della “Legge”, così la scientificità sarebbe garantita, stando alla prima, dall’osservanza del “Metodo” (o dei vari “protocolli”).
La “Legge” del Nuovo Testamento è però lo Spirito della libertà e dell’amore (“Non pensate – si legge appunto in Matteo (5,17) – che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento”): ovvero, lo Spirito di quella libertà di pensiero e di quell’amore per la realtà che soli possono garantire alla scienza una costante, umile e devota aderenza ai fenomeni.
Pensate ad esempio al sogno. Non è forse un fenomeno? Ebbene, provate ad affrontarlo con lo stesso metodo o con la stessa logica con cui si affrontano i fenomeni meccanici, e ben presto vi accorgerete che vi risulterà incomprensibile.
D’altro canto, come per dominare il mondo meccanico occorre disporre, nella coscienza, di una logica meccanica, così per dominare quello dei sogni occorre disporre, nella coscienza, di una logica “onirica”: di una logica, ossia, immaginativa e ispirativa.
Ma è forse importante “dominare” il mondo dei sogni? Certo che lo è! E’ ben poco probabile, infatti, che chi non sa dominare (almeno in parte) tale mondo, sappia davvero dominare se stesso, ed essere quindi (e in pari misura) libero. “Il sogno – afferma appunto Steiner – è una manifestazione, che si esplica in una successione di immagini sensibili, di ciò che l’uomo è veramente (…) Se viene riferito giustamente non al mondo inferiore (materiale – nda), ma a quello superiore (morale – nda)” può dunque “servire assolutamente d’indirizzo alla vita umana” (Conoscenza iniziatica – Istituto Tipografico Editoriale, Milano 1938, vol. I, pp. 189 e 191).
Ma torniamo a noi.
Dopo aver detto che l’attività metodica della scienza “si svolge diversamente, a seconda del campo di fenomeni che prendiamo a studiare”, Steiner (avendo soprattutto in vista la differenza tra il campo dei fenomeni inorganici e quello dei fenomeni organici) così prosegue:

“Il primo caso è il seguente. Abbiamo dinanzi a noi una molteplicità di elementi dati ai sensi, che stanno tra loro in reciprocità di azione. Tale reciprocità ci si chiarisce quando ci approfondiamo idealmente nella cosa. In tal caso uno di quegli elementi ci appare più o meno determinato nell’uno o nell’altro modo dagli altri. Noi deduciamo un fenomeno dall’altro: deduciamo il fenomeno della pietra riscaldata, quale effetto, dal raggio solare quale causa. In questo caso spieghiamo quel che percepiamo in un oggetto, deducendolo da un altro oggetto ugualmente percepibile” (p. 130).

Detto A il fenomeno sensibile del raggio solare e B il fenomeno sensibile della pietra riscaldata, chiariamo (idealmente) la loro “reciprocità di azione”, nel momento stesso in cui deduciamo B, quale effetto, da A, quale causa.
Sembrerebbe facile, ma non è così. Il celebre antropologo Bronislaw Malinowski (1884-1942) riferisce, ad esempio, che alcuni indigeni, osservando che le donne, durante la gravidanza, non hanno le mestruazioni, si mostravano convinti che l’amenorrea fosse la causa della gravidanza, e non – come ormai tutti sanno – il suo effetto.

Continua Steiner: “Vediamo in qual modo si presenti in questo campo la legge ideale; essa abbraccia gli oggetti del mondo sensibile, sta sopra di essi; determina il modo di agire di un oggetto secondo date leggi, riconoscendolo come condizionato da parte di un altro oggetto” (p. 130).

Possiamo dire “sopra” di essi, ma anche “fuori” di essi. Abbiamo già paragonato l’oggetto minerale a una salma: ma quand’è che un corpo si trasforma in una salma? Quando l’Io, il corpo astrale e il corpo eterico ne vengono appunto fuori.
Rammenterete che, a suo tempo, abbiamo anche paragonato la legge che governa il fenomeno inorganico a un burattinaio che governa il burattino dall’esterno, al contrario di un attore che governa se stesso dall’interno.

Prosegue Steiner: “Qui abbiamo il compito di disporre la serie dei fenomeni in modo che l’uno proceda per necessità dall’altro, e che insieme formino un tutto compenetrato da leggi. L’ordine dei fenomeni ch’è spiegabile in questo modo è la natura inorganica” (p. 130).

Dati il fenomeno A e il fenomeno B, si tratta dunque di ordinarli, disponendoli “in modo che l’uno proceda per necessità dall’altro”: in modo, cioè, che il fenomeno B segua necessariamente, nel tempo, il fenomeno A; si tratta di ordinarli, in altre parole, secondo una relazione di causa-effetto.
Bisogna fare però attenzione perché se la relazione di causa-effetto è sempre una relazione tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo nel tempo, non sempre, invece, la relazione tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo nel tempo è una relazione di causa-effetto (non sempre cioè il post hoc vale come propter hoc). Ciò dipende appunto dal fatto che il rapporto di causa-effetto – come ormai sappiamo – è un rapporto “qualitativo” (e quindi “necessario”), e non meramente cronologico.

Scrive infatti Steiner: “Ora, nell’esperienza, i singoli fenomeni non ci si presentano affatto in modo che i più vicini nello spazio e nel tempo siano i più vicini anche riguardo alla loro intima essenza. Bisogna prima passare dalla vicinanza spaziale e temporale alla vicinanza concettuale. Di fronte a un fenomeno dobbiamo cercare quelli che ad esso si connettono immediatamente riguardo alla loro essenza. Dobbiamo mirare ad accostare tra loro una serie di fatti che si completino, si sorreggano, si portino a vicenda. Da ciò otteniamo un gruppo di elementi sensibili della realtà che agiscono uno sull’altro; e il fenomeno che si svolge dinanzi a noi consegue immediatamente dai relativi fattori, in modo chiaro e trasparente. Un tale fenomeno noi lo chiamiamo, con Goethe, fenomeno-tipo o fatto fondamentale. Tale fenomeno-tipo è identico alla legge obiettiva di natura” (pp. 130-131).

Immaginiamo, tanto per fare un banalissimo esempio, che crolli un ponte dipinto di rosso; è possibile che abbia a che vedere con il crollo del ponte il fatto che sia di quel colore? E’ decisamente improbabile.
Si tratta infatti di uno dei tanti elementi accidentali che la scienza è chiamata a eliminare per poter portare alla luce gli elementi essenziali (la legge) del fenomeno.
Che cosa è dunque il “fenomeno-tipo”? E’ il fenomeno puro, e per ciò stesso privo di tutto ciò che ha carattere fortuito o contingente.
Scrive appunto Goethe: “Come mi accade spesso di notare soprattutto nel campo in cui lavoro, sono molti i frammenti empirici che è necessario scartare prima di ottenere un fenomeno puro e costante (…) L’osservatore non vede mai con gli occhi il fenomeno puro”. Egli lo distingue, perciò, sia dal fenomeno “empirico” che da quello “scientifico” (sperimentale), dal momento che è “il risultato ultimo di tutte le esperienze e di tutti gli esperimenti”; che “non può mai essere isolato, ma si mostra in una serie costante di fenomeni”; e che “per rappresentarlo, lo spirito umano determina l’empiricamente oscillante, esclude il casuale, isola l’impuro, sviluppa l’incerto, e scopre l’ignoto” (Esperienza e scienza in Opere – Sansoni, Firenze 1961, vol. V, pp. 42 e 43).
Dice Steiner che “dobbiamo mirare ad accostare tra loro una serie di fatti che si completino, si sorreggano, si portino a vicenda”. Possono fornircene un esempio la velocità V, il tempo T e lo spazio S. Si può infatti ricavare V dividendo S per T, così come si può ricavare T dividendo S per V, oppure S moltiplicando V per T.
Come si vede, si tratta di tre fenomeni che per l’appunto si completano, si sorreggono e si portano a vicenda.

Prosegue Steiner: “Il suindicato ravvicinamento di fatti può farsi semplicemente nel pensiero (…) Oppure io posso anche portare realmente a contatto i singoli fattori e poi attendere il fenomeno che segue dalla loro reciproca azione. Questo è il caso nell’esperimento. Mentre un fenomeno del mondo esterno ci è oscuro perché conosciamo soltanto il condizionato (fenomeno) e non la condizione, il fenomeno fornito dall’esperimento ci è invece chiaro perché noi stessi abbiamo messo insieme i fattori condizionati. Questa è la via dell’indagine della natura: ch’essa parta dall’esperienza per vedere che cosa è reale; proceda poi all’osservazione per vedere perché ciò sia reale, e salga poi all’esperimento per vedere che cosa possa essere reale (p. 131).

Raccomando, per rendere più chiaro questo passo, di correggere (nella sesta riga) il termine “condizionati” con “condizionanti” (bedingenden Faktoren).
Ritorniamo comunque all’esempio del raggio di sole e della pietra riscaldata. Mi siedo sulla pietra e sento che è calda. Questa prima esperienza è quella del condizionato. Se poi, meravigliato (“Il primo impulso alla scienza – scrive Goethe – nasce dallo stupore” – Trentasei anni dopo il saggio sull’”osso intermascellare” , in Opere, p. 222), mi interrogassi sulla ragione di tale temperatura, dovrei, partendo dall’esperienza del condizionato (della pietra riscaldata), andare alla ricerca del condizionante (del raggio di sole).
Per fare un esperimento, invece, dovrei partire da quello che penso possa essere il condizionante (la causa), per verificare se sia in effetti in grado di determinare quel condizionato (quell’effetto).
Che cosa vuol dire, dunque, che il primo passo sulla via dell’indagine della natura consiste nel partire “dall’esperienza per vedere che cosa è reale”? Che si deve prendere anzitutto atto di ciò che effettivamente esiste (il fatto). E che cosa vuol dire che il secondo passo consiste nel “vedere perché ciò sia reale”? Che si deve poi trovare la legge che spiega l’esistenza del fatto. E che cosa vuol dire, poi, che il terzo passo consiste nel “salire” all’esperimento “per vedere che cosa possa essere reale”? Che si deve in ultimo scoprire, partendo dalla legge che spiega quella particolare esistenza, quant’altre potrebbero darsene.
Si deve prima risalire, quindi, dal piano fenomenico del condizionato a quello noumenico del condizionante, e poi ridiscendere, da questo, a quello fenomenico del condizionabile.

Continua Steiner: “Goethe distingue tre metodi d’indagine scientifico-naturale, poggianti su tre diverse interpretazioni dei fenomeni. Il primo metodo è l’empirismo comune, che non oltrepassa il fenomeno empirico, l’immediato dato di fatto (…) Il gradino immediatamente superiore all’empirismo comune è il razionalismo. Questo mira al fenomeno scientifico; non si ferma più alla semplice descrizione dei fenomeni, ma cerca di spiegarli scoprendone le cause, erigendo ipotesi, ecc. E’ il gradino al quale l’intelletto deduce dai fenomeni le loro cause e i relativi nessi. Tanto il primo metodo, quanto il secondo, sono da Goethe dichiarati unilaterali. L’empirismo comune è la rozza non-scienza, in quanto non si solleva mai dalla mera apprensione della casualità. Invece il razionalismo interpreta il mondo dei fenomeni, apponendovi cause e nessi che non vi sono contenuti. Il primo non sa elevarsi dalla folla dei fenomeni al libero pensare, il secondo la perde di vista, e con essa perde il sicuro terreno sotto i piedi, cadendo nell’arbitrio della fantasia e delle opinioni soggettive (…) “Le teorie [dice ad esempio, nei Detti in prosa] sono generalmente avventatezza d’un intelletto impaziente, che vorrebbe liberarsi dai fenomeni, e perciò intromette al loro posto immagini, concetti, e spesso soltanto parole”” (pp. 132-133).

Eccoci dunque, di nuovo, al cospetto di due metodi d’indagine resi “unilaterali” dall’ipoteca delle forze ostacolatrici. L’empirismo comune, infatti, “non sa elevarsi dalla folla dei fenomeni al libero pensare” a causa della “gravità” arimanica, mentre il razionalismo se ne discosta tanto da “perderla di vista” e da cadere “nell’arbitrio della fantasia e delle opinioni soggettive” a causa della “insostenibile leggerezza” (Kundera) luciferica.
Ricordate che cosa abbiamo detto l’ultima volta? Che rendersi “degni” del concetto (o dell’idea) significa “conoscerlo, amarlo e disporsi quindi ad accoglierlo, tacitando con fermezza “l’uomo del sottosuolo” (Dostoevskij): ossia, quella bassa e rumoreggiante legione di brame e pregiudizi che abitualmente l’oscurano o respingono”.
Ebbene, quanto vale per il concetto vale pure per i fenomeni. Ogni teoria che sia frutto – come dice Goethe – della “avventatezza d’un intelletto impaziente, che vorrebbe liberarsi dai fenomeni, e perciò intromette al loro posto immagini, concetti, e spesso soltanto parole”, non è dunque che un parto dell’”uomo del sottosuolo”.

Scrive ancora Steiner: “Tutte e due queste vie, l’empirismo comune e il razionalismo, sono per Goethe stazioni di passaggio verso il metodo scientifico più alto, ma appunto solo tappe che vanno oltrepassate. A questo superamento conduce l’empirismo razionale che si occupa del fenomeno puro, il quale è identico all’obiettiva legge di natura” (p. 133).

Dell’empirismo razionale, quale terzo e più alto metodo scientifico, parleremo però la prossima volta.

Roma, 4 aprile 2001

Avvertenza: il 29° incontro verrà pubblicato il prossimo 7 agosto.

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Di Lucio Russo
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