Le opere scientifiche di Goethe (32)

L

Continueremo stasera a occuparci del quinto paragrafo (del nono capitolo), riprendendo la lettura qualche riga prima del punto in cui ci eravamo interrotti l’ultima volta.

Scrive Steiner: “Se l’agire dell’uomo non ha da essere altro che la realizzazione del suo proprio contenuto di idee, è naturale che un tale contenuto debba risiedere in lui. Il suo spirito deve operare produttivamente. Infatti, che cosa dovrebbe suscitare in lui l’impulso a compiere qualche cosa, se non un’idea che vada aprendosi il varco dal fondo del suo spirito? Tale idea si dimostrerà tanto più feconda, quanto più sorgerà nel suo spirito in contorni ben determinati e con un contenuto definitivo. Poiché soltanto qualcosa che nel suo contenuto sia pienamente determinato potrà spingerci con ogni forza alla sua realizzazione. Un ideale indistinto, solo oscuramente rappresentato non è atto a spingere all’azione. Come mai potrebbe infiammarci, se il suo contenuto non è chiaro e palese alla luce del sole?” (p. 143).

Queste due ultime affermazioni meritano particolare attenzione.
Magari rinunciassimo ad agire, quando non abbiamo le idee chiare! Agiamo invece ugualmente, senza renderci minimamente conto che un altro spirito (dal momento che un “ideale” è – secondo quanto abbiamo visto – uno “spirito” o un’idea viva), approfittando del fatto che il nostro “ideale, indistinto, solo oscuramente rappresentato non è atto a spingere all’azione”, ha immesso in quella vaga forma la sua forza, portandoci così ad agire apparentemente in nome del nostro ideale, ma in realtà in vista dei suoi in-umani o dis-umani interessi.
Pensiamo, ad esempio, alla tragica (e per molti ancora inspiegabile) differenza che la storia ci ha dato modo purtroppo di osservare tra il socialismo “ideale” e il socialismo “reale”. Non è forse in qualche modo analoga alla differenza tra il Cristianesimo “ideale” e quello “reale” o, volendo dirla proprio tutta, a quella che si può non di rado constatare (seppure a tutt’altro livello) tra l’antroposofia “ideale” e quella “reale”?
Vi sarà ad esempio capitato, a questo proposito, d’imbattervi in qualcuno che, dopo aver letto alcuni libri di Steiner (relativi, soprattutto, ai vari campi di applicazione dell’antroposofia) si senta in dovere di dire: “Queste cose vanno messe in pratica, non devono rimanere teoriche”. Giustissimo! Ma chi è che dovrebbe metterle in pratica? Forse l’ego? No, perché l’ego, scambiando il “sapere” per il “conoscere” (“Il noto in genere, – dice Hegel – appunto perché noto non è conosciuto” – Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1996, p. 18), non potrebbe far altro, mettendole in pratica, che imitare o scimmiottare l’Io.
“Il male – osserva appunto Scaligero – è l’idea che si finge attuata”; è “l’attivismo che sostituisce l’attività del pensiero” (Perché un’associazione spirituale viva in Dell’amore immortale – Tilopa, Roma 1982, p. 316).
La prima cosa da “mettere in pratica” è infatti l’Io. “Cercate piuttosto il regno di Dio, – si legge in Luca – e queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc 12,31).
Il contrasto tra la teoria e la pratica, così come quello tra il pensare e il volere, o tra il soggetto e l’oggetto, non è frutto, del resto, che della coscienza egoica o rappresentativa; ed è appunto per questo che la scienza dello spirito si propone, per così dire, come una “teoria pratica” o una “pratica teorica”. Che cos’è, ad esempio, il “pensiero vivente”, se non appunto un “pensiero volente” o una “volontà pensante”?
Ma è dall’ego – si dirà – che bisogna comunque partire. Certo, ma una cosa è partire dall’ego per trasformare se stessi, sino ad arrivare all’Io, altra è partire dall’ego per tentare di trasformare direttamente gli altri, le cose o il mondo, rimanendo così gli stessi. (Chissà se è pensando a questa eventualità che uno slogan del ’68 recitava: “Non liberatemi, so farlo da solo!”).
Dobbiamo dunque trasformare noi stessi, cominciando col cambiare la qualità del nostro pensiero ordinario (che fa da stampella all’ego); trasformando noi stessi, cominciamo però a cambiare il mondo, perché siamo parte del mondo.

Risposta a una domanda
Vede, l’anima può essere “infiammata” dal calore di un ideale, ma anche da quello delle passioni o delle brame, e quindi tanto dall’alto che dal basso. Ricorderà che Scaligero oppone appunto la (soave) “flamma non urens” dello spirito a quella (ardente) “flamma urens” della cupiditas che caratterizza la nostra inferiore natura (gli “inferi”).
Occorre dunque, come sempre, essere svegli, così da poter distinguere una “flamma” dall’altra. A tal fine, converrà tenere presente che l’ideale, come il Sole, illumina e riscalda. Ovunque ci sia calore, ma non luce (giustappunto un “ideale indistinto” o “solo oscuramente rappresentato”), si può essere pertanto sicuri che c’è la natura, e non lo spirito.

Continua Steiner: “Gli impulsi alla nostra azione devono sempre manifestarsi nella forma di intenti individuali. Tutto quello che l’uomo compie di fecondo deve la sua origine a tali impulsi individuali. Leggi morali generali, norme etiche e simili, che dovrebbero valere per tutti gli uomini, si dimostrano totalmente prive di valore (…) Non tutte le azioni sono ugualmente degne d’esser compiute da chiunque, bensì questa è adatta per l’uno, quella per l’altro, a seconda della vocazione che ciascuno sente in sé” (p.143).

Qui si comprende bene il perché vi abbia proposto, tempo fa, di distinguere l’individualità spirituale tanto dalla soggettività animica (o psichica) quanto dalla singolarità corporea. Equivocheremmo, infatti, quanto dice qui Steiner, ove scambiassimo gli “intenti individuali”, che discendono dall’Io o dallo spirito, con quelli che risalgono invece dalla psiche o dal corpo.
Per distinguere ciò che, in noi, è espressione dell’Io da ciò che non lo è, occorrono però onestà e coraggio. Un conto, infatti, è avere dei pensieri che – come si dice – “ci frullano per la testa” (e con i quali siamo soliti identificarci), altro è sforzarsi di pensare i pensieri che “ci frullano per la testa” (disidentificandoci da essi), o darsi scientemente dei pensieri (come si fa con la concentrazione e con la meditazione).
Fatto si è che come “non è tutto oro quel che riluce”, così non è “tutta idea quel che si pensa”. Nella forma di una idea reale vive infatti (quale essenza) la forza (dell’essere) dell’Io, mentre nella forma o nel guscio vuoto di una idea apparente vive la forza (karmicamente determinata) della nostra personale natura (facile preda degli “ostacolatori”).
Sarà bene ricordare che tale natura, se stenica (o isterica), tende a renderci dei “disobbedienti” o dei “ribelli”; se astenica (o nevrastenica) degli “obbedienti” o dei “gregari” (Fromm). Nel primo caso, si sarà dunque insofferenti delle norme e delle regole, e quindi attratti dalla libertà, mentre nel secondo si ricaverà sicurezza dall’osservarle, e si avrà quindi timore della libertà (il libro di Erich Fromm è non a caso intitolato: Fuga dalla libertà – Mondadori, Milano 1994).
Anche in questo caso, sarà perciò bene imparare a distinguere la libertà che nasce dall’amore per l’Io (per l’uomo) da quella pseudo-libertà o, per meglio dire, da quell’arbitrio che nasce dall’insofferenza, se non addirittura dall’odio, per le norme e le regole.
La prima è infatti una realtà spirituale, mentre la seconda è un mero fatto psichico. Dice Goethe: “Il dovere: quando si ama ciò che si comanda a noi stessi” (Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 179). Ebbene, i tipi o i caratteri stenici “amano” (senza rendersene conto), non ciò che comandano a se stessi, bensì ciò che visceralmente li comanda, e di cui sono perciò schiavi (dice ancora Goethe: “Nessuno è più schiavo di colui che si tiene libero senza esserlo” – Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 38). I tipi “disobbedienti” o “ribelli” sono insomma schiavi della natura (direbbe Freud, dell’”Es”), mentre i tipi “obbedienti” o “gregari” sono schiavi della cultura (direbbe sempre Freud, del “Super-io”).

Scrive Steiner: “Queste considerazioni gettano luce sulle questioni che un’etica generale ha da risolvere. Sovente si considera questa come una somma di regole che dovrebbero dirigere l’azione umana. Da questo punto di vista si contrappone l’etica alla scienza naturale e in genere alla scienza dell’esistente. Mentre quest’ultima ha da trasmetterci le leggi di ciò che sussiste, che è, l’etica sarebbe chiamata a insegnarci quelle di ciò che dovrebbe essere. Sarebbe un codice di tutti gli ideali dell’uomo, una risposta esauriente alla domanda: Che cosa è bene? Ma una scienza tale è impossibile; non può esserci una risposta generale a tale domanda. Infatti l’agire morale è un prodotto di ciò che opera nell’individuo; è sempre dato in singoli casi, non mai in generale. Non esistono leggi generali su ciò che si deve o non si deve fare” (p. 144).

Eccoci dunque al cospetto – come abbiamo detto la volta scorsa – della contrapposizione tra l’essere e il dover-essere: ovvero, tra la scienza (il pensare) e l’etica (il volere).
Sarà opportuno comunque ricordare che la morale eteronoma ha aiutato (sul piano dell’evoluzione collettiva), e tuttora aiuta (su quello dell’evoluzione individuale), l’intelletto e l’ego a formarsi o strutturarsi (è significativo, ad esempio, che, tra i “Dieci comandamenti”, il settimo: “Non rubare”, il nono: “Non desiderare la donna d’altri”, e il decimo: “Non desiderare la roba d’altri”, si fondino appunto sulla distinzione tra l’ego e il “tu”, e quindi tra il “mio” e il “tuo”).
Tale morale non aiuta però l’ego ad andare oltre se stesso e a divenire un Io (un “Sé spirituale”): lo ha aiutato e lo aiuta, dunque, a liberarsi della natura, ma non a liberarsi di se stesso, per ritrovarsi nello spirito.
Fatto sta che l’ego, per potersi liberare di se stesso, deve liberarsi della morte. Com’è infatti riuscito a liberarsi della natura? Facendola appunto morire in quella parte del corpo (la testa) di cui si serve per avere coscienza (riflessa) del mondo e di sé: ossia, in quella parte del corpo che si contrappone, in qualità di “natura morta”, al restante organismo, in qualità di “natura viva”.
Ma come la morte ci ha liberati della natura, così lo spirito (il Logos) deve liberarci dalla morte, permettendoci così, al pari di Lazzaro, di risorgere. Non è significativo che Golgota significhi proprio “luogo del cranio”?
Spero sia chiaro, comunque, che portarsi al di là dell’ego non significa eliminare l’ego, così come portarsi, poniamo, al di là dei piedi non significherebbe eliminare i piedi, bensì sviluppare anche le gambe, il torace, le braccia e la testa.
Verrà del resto un giorno (se lo vorremo) in cui la coscienza intellettuale, che rappresenta oggi il grado più elevato di coscienza (più elevato di quelli della coscienza di sogno e di sonno), rappresenterà invece il grado più basso e, per così dire, “strumentale”.

Tutte le questioni sollevate dall’etica, scrive Steiner, “si possono comprendere in una: Fino a che punto l’uomo è un essere morale? Ma ciò non ha altro scopo che di conoscere la natura morale dell’uomo; non si chiede che cosa l’uomo debba fare o non fare, bensì che cosa sia, nella sua intima essenza, quello ch’egli fa. Con ciò crolla la parete che divide tutta la scienza in due sfere: la dottrina di ciò che è e la dottrina di ciò che ha da essere. L’etica è, come tutte le altre scienze, una dottrina di ciò che è” (p. 145).

Il problema, dunque, non è essere o non essere “morali”, quanto piuttosto essere o non essere “uomini”, poiché la moralità è l’essere stesso dell’uomo (recita appunto un versetto del Pater noster dato da Steiner: “La Tua volontà sia attuata, quale Tu l’hai posta nella nostra intima essenza”). Eliminando l’uomo dal mondo, si eliminerebbe quindi la moralità.

Ma se la realtà etica coincide con quella ontologica, vuol dire allora che l’essere immorale dell’uomo coincide con il suo non essere uomo. Cosa pretenderebbe dunque la morale normativa? Che l’uomo, pur non essendo uomo, si comportasse da uomo, colmando così il vuoto del suo essere con il dover-essere.
Il che, come abbiamo già osservato, sarebbe pure legittimo, ove il suo dover-essere servisse, nel corso della “prima metà della vita” (Jung) a prepararlo a ricercare e realizzare, nel corso della “seconda”, il proprio essere (e quindi una morale “autonoma”). Non è però così, in quanto la validità della morale eteronoma viene posta come assoluta, e non come relativa a una particolare fase evolutiva della coscienza umana.
Superfluo aggiungere che le difficoltà che s’incontrano nell’ascendere dalla morale codificata e scolpita nella pietra a quella vivente sono le medesime che s’incontrano nell’ascendere dal pensiero riflesso a quello vivente (nota Goethe: “L’errore sta alla virtù come il sonno sta alla veglia. Ho notato che uscendo dall’errore si torna come temprati alla verità” – Massime e riflessioni, p. 88).

Continua Steiner: “Ora l’uomo non appartiene soltanto a se stesso, ma è membro di due complessi superiori. Anzi tutto è membro del suo popolo, al quale lo uniscono usi e costumi, cultura, linguaggio e modi di vedere comuni. Inoltre egli è anche cittadino della storia, singolo membro nel grande processo storico dell’evoluzione umana. Da questa duplice appartenenza a un tutto, il suo libero agire sembra infirmato” (p. 145).

Il libero agire dell’uomo sembrerebbe dunque “infirmato” vuoi dalla sua appartenenza a un determinato spazio, vuoi dalla sua appartenenza a un determinato tempo.
Sembrerebbe, ma non è così. L’Io non appartiene infatti né allo spazio né al tempo, e può quindi metterli entrambi al proprio servizio.
Pensate, ad esempio, a un giocatore di poker. Una cosa sono le carte che gli vengono date, altra il modo in cui le giocherà. Si sa, infatti, che un cattivo giocatore, anche con delle buone carte, può vincere poco, se non addirittura perdere, mentre un buon giocatore, anche con delle cattive carte, può perdere poco, se non addirittura vincere.
Per “giocarci” bene lo spazio e il tempo, dobbiamo però conoscerli e oggettivarli, e non identificarci con essi. I cosiddetti “campanilisti” o “sciovinisti”, ad esempio, s’identificano con il loro spazio, mentre quanti si vantano di essere à la page o trendy s’identificano con il loro tempo.
Per divenire l’Io che si è, bisogna pertanto aprirsi faticosamente un varco nella giungla (fisica, eterica e astrale) delle false e illusorie identità (la più diffusa delle quali è oggi quella dell’”io corporeo”).
In ogni caso, l’Io porta con sé il proprio spazio come corpo fisico e il proprio tempo come corpo eterico. Ma che cos’è questo tempo? E’ quello che intercorre tra la nascita e la morte di una vita terrena.
Considerate, tanto per dirne una, quell’Io che ha ricevuto il nome di Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Vi sembra che il suo “libero agire” sia stato “infirmato” dalla sua appartenenza a un determinato spazio e a un determinato tempo? O non vi sembra, piuttosto, che sia stato il suo “libero agire” a improntare sia l’uno che l’altro? Ricordate quanto dice il Manzoni di Napoleone? “…Chiniam la fronte al Massimo/ Fattor, che volle in lui/ del creator suo spirito/ più vasta orma stampar”.

Osserva infatti Steiner: “La storia mi assegna un posto per svolgervi la mia azione. Io sono dipendente dall’epoca di cultura nella quale sono nato; sono figlio del mio tempo. Ma se si considera l’uomo come un essere conoscente, al tempo stesso che agente, tale contraddizione si risolve. Grazie alle sue facoltà conoscitive l’uomo penetra il carattere della propria individualità etnica; si rende conto di dove siano avviati i propri compatrioti. Ciò che sembra determinarlo, egli lo supera, e lo accoglie in sé come rappresentazione pienamente riconosciuta; diventa quindi individuale in lui, e assume totalmente il carattere personale ch’è proprio all’azione libera. Lo stesso avviene riguardo all’evoluzione storica entro la quale l’uomo vive. Egli s’innalza alla conoscenza delle idee direttive, delle forze etiche che vi regnano; allora esse non agiscono più come impulsi coercitivi, ma diventano in lui forze individuali”; non deve, insomma, “essere condotto, ma condurre se stesso”: non deve, cioè, “lasciarsi trascinare dal progresso della civiltà, ma deve far sue le idee del suo tempo. Per ciò occorre anzi tutto che l’uomo comprenda il suo tempo” (pp.145-146).

Parafrasando l’antico detto: “Ducunt volentem fata, nolentem trahunt” (“Chi è consenziente, il fato lo conduce, chi non lo è, lo trascina”), potremmo dunque affermare che chi comprende il suo spazio e il suo tempo li conduce, mentre chi non li comprende viene da essi trascinato; e viene da essi trascinato, poiché, in quanto “nolentem”, assegna a essi, inconsciamente, il ruolo che sarebbe proprio invece dell’Io.

Fatto si è che il nostro spazio e il nostro tempo sono parte del nostro karma; e questo – come sapete – dovrebbe, non pigramente trascinarci, bensì stimolarci ad accrescere la nostra conoscenza, così da poter motivare in modo sempre più consapevole e responsabile le nostre azioni.
Il karma, in definitiva, è un po’ come la “prima materia” degli alchimisti: vale a dire, quel “piombo” della necessità che dovremmo imparare a trasmutare, grazie all’”Ars magna” (Raimondo Lullo), nell’”oro” della libertà.

Roma, 8 maggio 2001

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Di Lucio Russo
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