La settimana scorsa, ci siamo occupati di Kant, di Schiller, di Fichte, di Schelling e di Hegel; stasera, continuando il decimo capitolo, ci occuperemo in breve di Schopenhauer e più diffusamente di Eduard von Hartmann.
Scrive Steiner: “Schopenhauer si appoggia in parecchi punti al poeta, da lui sommamente apprezzato. Parleremo in un capitolo successivo della sua apologia della Teoria dei colori. Quel che importa qui è il rapporto generale della teoria di Schopenhauer con Goethe. In un punto il filosofo di Francoforte si accosta a Goethe, e cioè dove Schopenhauer respinge ogni derivazione da cause esteriori dei fenomeni a noi dati e ammette unicamente leggi interiori e la derivazione di un fenomeno dall’altro. Ciò apparentemente equivale al principio goethiano di prendere dalle cose stesse i dati per spiegarle; ma appunto solo apparentemente. Infatti, Schopenhauer vuol rimanere entro il fenomenico, perché, secondo lui, noi non possiamo raggiungere nella conoscenza l’”in sé” che si trova fuori di questo, dato che tutti i fenomeni a noi dati non sono che nostre rappresentazioni, e la nostra facoltà di rappresentazione non ci conduce mai al di là della nostra coscienza; invece Goethe vuol rimanere nel campo dei fenomeni, perché appunto cerca negli stessi i dati per spiegarli” (pp. 161-162).
“Schopenhauer – dice Steiner – vuol rimanere entro il fenomenico, perché, secondo lui, noi non possiamo raggiungere nella conoscenza l’”in sé” che si trova fuori di questo, dato che tutti i fenomeni a noi dati non sono che nostre rappresentazioni”: d’accordo, ma non sarà allora ch’è raggiungendo l’”in sé” delle rappresentazioni che si può raggiungere anche l’”in sé” dei fenomeni? Ricordate quanto abbiamo detto un paio di volte fa? Che la “chiave” del rapporto tra il realismo ingenuo, il criticismo di Kant e l’idealismo empirico o (come preferisco dire io) la “logodinamica” di Steiner risiede appunto nel modo in cui viene intesa la rappresentazione.
Ebbene, Schopenhauer la intende alla stessa maniera di Kant, anche se, a differenza di quest’ultimo, intende l’”in sé” come “volontà”, e non come “cosa”.
Anche Schopenhauer non ha dunque realizzato che l’”in sé” della rappresentazione è il concetto: quello stesso concetto che costituisce – come abbiamo visto – l’essenza o l’”in sé” del fenomeno. Non solo non lo ha realizzato, ma si è dato addirittura a inveire, perdendo le staffe, contro chi – come Hegel – proprio nel concetto vedeva l’essenza del reale.
Quale filosofo della volontà, aveva infatti in uggia Hegel, quale filosofo di quel pensiero che egli, in contrasto con la forza del volere, sperimentava solo come vuota forma, e quindi come non-essere.
Fatto si è che, osservando la natura, dovremmo guadagnarci – lo abbiamo detto – la capacità di scorgere il pensare nel volere, poiché è proprio il pensare nel volere a costituire la “legge” del fenomeno: vale a dire, la forma o il modo in cui questo si svolge. Il cuore e il fegato, ad esempio, sono sì, in quanto vivi, organi “volitivi”, ma le leggi che regolano le funzioni del primo non sono uguali a quelle che regolano le funzioni del secondo.
Ebbene, che cosa sono (in sé) queste leggi, se non dei pensieri viventi: ovvero, delle volontà pensanti? E che cos’è dunque la natura (organica), se non appunto un grande, vivo e inconscio organismo di pensiero?
Un grande vivo e inconscio organismo di pensiero che non è però in grado, fatta eccezione per l’uomo, di pensare se stesso, e che proprio per questo esiste come regno della necessità, e non della libertà. L’esistenza di ogni essere naturale viene infatti determinata direttamente dall’idea, mentre quella dell’essere umano viene determinata indirettamente dal suo grado di coscienza dell’idea.
In ogni caso, com’è stato necessario, per penetrare nel regno (inorganico) del pensiero morto incosciente, sviluppare il pensiero morto cosciente (al punto da diventare, in questa stessa sfera della morte, tecnicamente creativi), così è necessario, per penetrare nel regno (organico) del pensiero vivente incosciente, sviluppare il pensiero vivente cosciente.
Nota al riguardo Goethe: “Il campo del matematico è quello quantitativo; abbraccia cioè tutto ciò che si può determinare con il numero e la misura, e quindi in un certo senso l’universo esteriormente conoscibile. Ma se, nella misura in cui ce ne è data la capacità, noi osserviamo ciò con tutto il nostro intelletto e le nostre forze, riconosciamo che la quantità e la qualità devono essere considerate come i due poli del mondo apparente; di conseguenza il matematico dà alla lingua delle sue formule una tale ampiezza da abbracciare, fin dove gli è possibile, nel mondo misurabile il mondo incommensurabile. Tutto gli appare perciò accessibile, tangibile, meccanico, ed egli si rende sospetto di un larvato ateismo nel ritenersi in grado di comprendere allo stesso tempo anche l’incommensurabile, che chiamiamo Dio, e quindi sembrando negare l’esistenza di quell’Essere particolare ed eccelso” (Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 241).
Ma passiamo a von Hartmann.
Scrive Steiner: “La filosofia di Hartmann è idealismo. E’ vero ch’egli non vuole essere puramente un idealista. Tuttavia, quando gli occorre qualcosa di positivo per spiegare il mondo, egli ricorre pur sempre all’idea, e, ciò che più importa, pensa l’idea come quella che sta alla base di tutto. Infatti il suo assumere un incosciente non vuole se non affermare che ciò che esiste nella nostra coscienza come idea, non è necessariamente legato a tale forma di manifestazione entro la coscienza. L’idea non è esistente (efficiente) soltanto là dove è cosciente, ma anche in altra forma. Essa è più che mero fenomeno soggettivo; ha un’importanza fondata in se stessa. Non è solamente presente nel soggetto, ma è un principio obiettivo del mondo” (p. 163).
Teniamo presente che Eduard von Hartmann (in ragione della sua Filosofia dell’incosciente) viene in genere ritenuto, insieme a Schelling, Schopenhauer e Carl Gustav Carus (1789-1869), un precursore della psicoanalisi.
Dubito, tuttavia, che avrebbe gradito un simile riconoscimento, perché nell’inconscio in cui von Hartmann vedeva le “idee”, Freud ha creduto di vedere invece gli “istinti” e Jung gli “archetipi in sé”: vale a dire, delle ipotetiche entità di natura misteriosa e imperscrutabile.
Tanto il fondatore della psicoanalisi quanto quello della psicologia analitica non hanno dunque fatto proprio il contenuto più prezioso del pensiero di von Hartmann: ossia la convinzione che le idee, quali realtà in sé, sono presenti e attive in noi, anche quando non ne siamo coscienti. (E’ a dir poco sconcertante, peraltro, che Jung, nonostante la lezione di Leibniz [1646-1716] circa l’“appercezione empirica”, e quella di Kant circa l’“appercezione trascendentale” [o l’”Io penso”], non abbia avuto chiara la differenza tra la coscienza e l’autocoscienza. Scrive infatti: “Il solo pensiero che esista un’enorme differenza tra la coscienza dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto rasenta una sottigliezza che molto difficilmente potrà trovare una qualche rispondenza” – introduzione a D.T.Suzuki: Introduzione al Buddismo Zen – Ubaldini, Roma 1970, p. 21).
Fatto sta che una cosa è l’idea, altra la coscienza dell’idea.
E quale coscienza abbiamo, normalmente, dell’essere dell’idea? Paradossalmente, quella del suo non-essere: cioè quella della sola sua immagine restituitaci dallo specchio cerebrale. In quanto ne prendiamo atto solo nel momento in cui appare, nel corpo fisico (nel cervello), la sua spenta immagine riflessa (la sua rappresentazione), ignoriamo infatti l’esistenza dell’idea per tutto il tempo in cui questa è presente in modo vivo nel corpo astrale e nel corpo eterico.
Pensiamo, ad esempio, all’idea della libertà: fintantoché non si attiva, non avvertiamo affatto l’esigenza della libertà; allorché si “virulenta” (come direbbe Jung), allorché comincia cioè a premere per essere realizzata, avvertiamo invece impellente il bisogno – come si suol dire – di “darle corpo”.
Ma che cosa vuol dire “realizzare” un’idea? Vuol dire portare incontro alla forza dell’idea, risalente dalla sfera (incosciente) della volontà, la forma dell’idea, discendente dalla sfera (cosciente) del pensiero.
Guai perciò a portare incontro alla forza della libertà una forma diversa da quella che originariamente e obiettivamente le appartiene (essendo, l’idea vivente, unità di forma e di forza), poiché è proprio in questo modo che nascono l’arbitrio e la licenza: vale a dire, delle ulteriori e più ingannevoli forme di schiavitù. “Nessuno è più schiavo – dice appunto Goethe – di colui che si ritiene libero senza esserlo” (Massime e riflessioni, p. 38).
Il che vale – naturalmente – per tutto ciò che si presenta in noi come impulso. Che cos’è infatti un “impulso”? E’ un’idea tenebrosa (un’idea di cui si avverte la forza, ma di cui non si conosce la forma). E che cos’è invece un’idea? Un impulso luminoso (un’idea di cui si avverte la forza e di cui si conosce la forma).
Ne consegue che un pensiero “debole” o privo di forza (come quello ordinario) mai potrà coniugarsi creativamente con un volere privo di forma.
Continua Steiner: “Sebbene, accanto all’idea, Hartmann ammetta anche la volontà, tra i principi costitutivi del mondo, pure è incomprensibile che vi siano ancor sempre dei filosofi che lo considerano uno schopenhaueriano (…) L’essere singolo, il fenomeno particolare, non possono interessare Schopenhauer, poiché di essi egli non sa dire null’altro di essenziale se non che sono una configurazione della volontà. Hartmann, invece, afferra ogni esistenza particolare e mostra come dovunque sia da percepirsi l’idea. Il tratto fondamentale della concezione di Schopenhauer è l’uniformità; della concezione di Hartmann, l’unitarietà. Schopenhauer pone alla base del mondo un uniforme impulso, vuoto di contenuto, Hartmann tutto il ricco contenuto dell’idea” (p. 163).
E’ da notare, all’inizio di questo passo, quell’” accanto”. Per quale ragione Steiner lo sottolinea? Perchè Schopenhauer vede la volontà e non l’idea, mentre von Hartmann vede l’una e l’altra, ma vede appunto la volontà accanto all’idea, e non nell’idea.
Continua Steiner: “Col suo idealismo obiettivo Ed. v. Hartmann sta totalmente sul terreno della concezione goethiana del mondo. Quando Goethe dice: “Tutte le cose che percepiamo e di cui parliamo sono solo manifestazioni dell’idea” (Detti in prosa), e quando esige che l’uomo educhi in sé una facoltà di conoscenza tale che l’idea gli divenga evidente, come ai sensi la percezione esteriore, egli sta su quel terreno dove l’idea non è solo un fenomeno della coscienza, ma un principio obiettivo del mondo; il pensiero è l’illuminarsi entro la coscienza di ciò che costituisce obiettivamente il mondo. Dunque l’essenziale nell’idea non è quel ch’essa è per noi, per la nostra coscienza, ma quello che è in se stessa. Perché per sua propria natura essa sta quale principio a base del mondo. Perciò il pensiero è la percezione di ciò che è in sé e per sé. Sebbene, dunque, l’idea non si manifesterebbe affatto ove non esistesse la coscienza, essa deve, nondimeno, venire concepita così che la sua caratteristica non stia nell’esser cosciente, bensì in ciò ch’essa è ed ha in se stessa, indipendentemente dal suo divenire cosciente. Perciò, secondo Ed. v. Hartmann, dobbiamo porre a base del mondo l’idea, quale incosciente operante, prescindendo dal suo divenire cosciente. L’essenziale, in Hartmann, è che si cerchi l’idea in tutto ciò che è privo di coscienza” (p. 164).
Come non ci stancheremo mai di ripetere, un conto è dunque l’idea, altro la coscienza dell’idea (così come un conto è la coscienza, altro l’autocoscienza).
Che cosa sono infatti le idee per la coscienza ordinaria? Sono rappresentazioni, e quindi semplici immagini delle “cose” (per il realismo ingenuo) o delle “cose in sé” (per il criticismo).
E che cosa sono, invece, per la coscienza immaginativa? Sono i reali contenuti delle immaginazioni o dei simboli; dice appunto Goethe: “Vero simbolismo è quello in cui l’elemento particolare rappresenta quello più generale, non come sogno e ombra, ma come rivelazione viva e istantanea dell’imperscrutabile” (Massime e riflessioni, p. 87).
E per la coscienza ispirativa? Sono delle qualità. E per quella intuitiva? Sono degli “Io”: ovvero, degli esseri o delle entità spirituali.
Bisogna farne dunque di strada, prima di arrivare a una piena coscienza della realtà delle idee! Per intraprendere questo cammino, la prima cosa da fare è comunque quella di varcare la soglia che divide la sfera (fisica) delle rappresentazioni (coscienti) da quella (eterica) delle immaginazioni (incoscienti o precoscienti).
Cercare “l’idea in tutto ciò che è privo di coscienza” altro non vuol dire, infatti, che cercarla al di là, sia delle immagini percettive, sia delle rappresentazioni (al di là, ossia, dei “paraocchi” che limitano l’orizzonte della coscienza ordinaria).
Osserva appunto Steiner: “Col distinguere tra cosciente e incosciente non si è ancor fatto molto; questa distinzione, infatti, vale solo per la nostra coscienza. Bisogna affrontare l’idea nella sua obiettività, in tutta la pienezza del suo contenuto; non basta riconoscere che l’idea agisce inconsciamente, bisogna cercare che cosa sia questo quid che agisce”; von Hartmann riconosce infatti che “l’idea non va intesa solamente come incosciente, ma che in quello che pur si deve chiamare incosciente, ci si deve sprofondare, e, trascendendo questa qualità, raggiungere il suo contenuto concreto per derivarne il mondo dei fenomeni particolari. Così dal monista astratto ch’egli è ancora nella sua Filosofia dell’incosciente, Hartmann si è evoluto fino al monista concreto. Ed è l’idea concreta che Goethe cita sotto tre forme: fenomeno primordiale, tipo, e “idea in senso più stretto”” (pp. 164-165).
Che cos’è dunque l’inconscio? Il pensiero che non sappiamo ancora pensare, la coscienza di cui non siamo ancora coscienti o l’Io di cui ancora non sappiamo, e che crediamo pertanto un non-Io. E che cos’è l’idea incosciente (che “agisce inconsciamente”)? L’idea di cui non siamo ancora in grado di farci un’idea.
Scrive giusto Scaligero: “Si può parlare di inconscio solo a condizione che esso sia l’atto della coscienza, come garanzia del Principio cosciente nell’esperienza, non della sua eliminazione. La possibilità dell’esperienza dell’”inconscio”, in quanto momento d’indagine dell’autocoscienza, deve essere garantita da una esperienza superiore della coscienza, o dalla Scienza dello Spirito” (Psicoterapia – Perseo, Roma 1974, p. 17).
Il che vuol dire che “la possibilità dell’esperienza dell’”inconscio”, in quanto momento d’indagine dell’autocoscienza, deve essere garantita” da un pensiero capace di penetrare, e di sollevare così alla coscienza, quanto sperimentiamo naturalmente (e per ciò stesso inconsciamente) nello stato di sogno (sonno REM), di sonno (non REM) e di morte.
Ma è proprio questo che si può fare, sviluppando, rispettivamente, il pensare immaginativo, il pensare ispirativo e quello intuitivo.
Ricorderete che, occupandoci de La filosofia della libertà, abbiamo paragonato i livelli di coscienza ai diversi piani di una casa, e il pensiero alle scale che ci permettono di salire (noeticamente) e di scendere (eticamente) dall’uno all’altro.
Conoscendo saliamo infatti dalla cosa all’idea (dal singolare all’universale); agendo scendiamo all’inverso dall’idea alla cosa (dall’universale al singolare).
Risposta a una domanda
E’ vero – come precisa Steiner (vedi 12° incontro – ndr) – che l’idea è una “configurazione” creata dalla ragione, mentre il concetto è “il pensiero singolo quale viene fissato dall’intelletto”; non meno è vero, tuttavia, che l’idea, in quanto appunto “configurazione” o “insieme” di concetti, non è qualitativamente diversa da questi ultimi. Se si paragonasse il concetto a una “stella”, l’idea sarebbe infatti una “costellazione”.
Afferma appunto Steiner: “Tutto ciò che scorgiamo e di cui possiamo parlare, non è che una manifestazione dell’idea; noi esprimiamo concetti, e in questo senso l’idea stessa è un concetto” (Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, p. 69).
Roma, 5 giugno 2001