Ci siamo lasciati, la settimana scorsa, parlando di Eduard von Hartmann e dei rapporti tra l’idea, il conscio e l’inconscio.
Data l’importanza del tema, prima di riprendere la nostra lettura, vorrei fare alcune considerazioni.
Sappiamo che Steiner colloca l’inizio della fase evolutiva dell’anima cosciente nel 1413, e quella della mentalità scientifica tra il 1440, anno in cui vede la luce il De docta ignorantia di Nicola Cusano (1400/1401-1464), e il 1543, anno in cui vede la luce il De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico (1473-1543).
Afferma infatti: “Chi voglia comprendere che cosa abbia portato alla nascita della scienza naturale, deve studiare in modo intelligente il secolo che sta fra il De docta ignorantia e il De revolutionibus orbium coelestium” (Nascita e sviluppo storico della scienza – Antroposofica, Milano 1982, p. 21).
Dal punto di vista filosofico, la cosiddetta “modernità” (quale espressione dell’anima cosciente) viene invece inaugurata da Cartesio (1596-1650).
Ebbene, qual è la prima caratteristica della sua concezione? Di essere fondata sul “cogito”: vale a dire, sull’attività del pensiero. Dicendo: “Cogito, ergo sum” è infatti dall’attività del pensiero che si ricava la coscienza dell’Io.
Ma su quale tipo di pensiero si fonda Cartesio? Su quello matematico e geometrico che è, per un verso, “chiaro” e “distinto”, ma, per l’altro, soltanto “formale”.
E che cos’è un pensiero formale? E’ un pensiero dalla cui forma è stato estratto il contenuto (la sostanza), un po’ come un agrume dal quale sia stato estratto il succo, e del quale sia rimasta solo la scorza.
Questo è quanto accade quando si ha coscienza, non del pensiero reale, ma soltanto della sua immagine riflessa nell’organo cerebrale (nella corteccia). Proviamo a pensare, ad esempio, alla immagine che di noi ci restituisce lo specchio. In quanto priva di contenuto, di sostanza di spessore o di corpo, non è semplice forma o apparenza, e dunque un non-essere? E quale coscienza dell’Io si può ricavare da un pensiero meramente formale, se non una coscienza che, dell’Io, ci dà appunto la forma, ma non la forza (l’essere)?
Avete presente la critica al “cogito” di Steiner? Se fosse vero – dice – che sono in quanto penso, allora durante il sonno non dovrei essere, in quanto non penso.
Fatto si è che una cosa è il pensiero riflesso, della cui attività siamo coscienti allo stato di veglia, altra il pensiero vivente o reale della cui attività siamo semi-coscienti (o sub-coscienti) allo stato di sogno e del tutto incoscienti a quello di sonno.
Che cos’è dunque la coscienza cartesiana? La punta di quell’iceberg che Freud usava paragonare, per la sua parte emersa, appunto al conscio, e, per quella sommersa, all’inconscio.
Per lungo tempo, tale “parte emersa” ha rappresentato (nel bene e nel male) una sorta di “limbo” o di “campo neutro” nel quale ci si è potuti liberamente dare al “calcolo” (a misurare, pesare o far di conto), approfittando del fatto che “Santa Pupa” (la “protettrice degli incoscienti”) assicurava di non essere più di tanto disturbati, in tale esercizio dell’esprit de geometrie, da ciò che oscuramente pulsava e ribolliva nella “parte sommersa”: cioè a dire, nell’uomo del “sottosuolo”.
A un certo momento, però, questa protezione è venuta meno, e l’uomo del “sottosuolo” o del “volo, ergo sum” ha preso a risalire e a penetrare nel campo dell’uomo della “superficie” o del “cogito, ergo sum”.
Tale momento può essere fatto grosso modo corrispondere, storicamente, a quello in cui l’India, colonizzata politicamente dall’Inghilterra (nel 1876, il bill Disraeli proclama la regina Vittoria sovrana dell’impero indiano), comincia a esportare la propria cultura in Europa e nell’Occidente (la Società Teosofica, ad esempio, fu fondata a New York nel 1875).
E’ così che la forza dell’inconscio e della volontà (a detta dei teosofi, della vita dell’essere “unico emergente dagli abissi dell’oscuro infinito”) prende a irrompere nel “chiaro” e “distinto” universo delle forme cartesiane.
In questa nuova e inquietante situazione, l’ego (l’Io del cogito) viene a trovarsi di fronte a tre possibilità:
1) quella di far finta di niente, ficcando la testa sotto la sabbia o impegnandosi a reprimere quanto vorrebbe risalire alla coscienza (come fanno, in senso lato, i “razionalisti” o gli “illuministi”);
2) quella di depotenziare tali contenuti (naturalizzandoli, come fa Freud, o psicologizzandoli, come fa Jung), realizzando in tal modo una sorta di compromesso tra la sua paura di cambiare e ciò che vorrebbe invece rinnovarlo;
3) quella di crescere e cambiare se stesso (come indica Steiner), dilatando e approfondendo la dimensione del cogito (del conscio) tanto da poter accogliere al suo interno quella del volo (dell’inconscio).
E’ chiaro, tuttavia, che le prime due di queste possibilità non mettono l’ego al riparo da eventuali “ossessioni” o “possessioni” da parte di ciò che viene represso o depotenziato: vale qui infatti più che mai l’antico (e già ricordato) detto: “Ducunt volentem fata, nolentem trahunt” (vedi incontro 32° – ndr).
Certo, per “ducere fata”, si deve essere padroni di sé; ma non si diventa padroni di sé – come molti sembrano credere – reprimendosi e irrigidendosi (diventando cioè dei “duri”).
Nella sua Fiaba della serpe verde e della bella Lilia, Goethe fa dire infatti al Vecchio: “L’amore non domina, ma forma, e questo è più” (Favola – Adelphi, Milano 1995, pp. 60-61). Ma “formare” – secondo quanto abbiamo visto – non vuol dire appunto riunire le forme del pensiero alle forze della volontà, così che le prime possano ritrovare la loro vita e le seconde la loro luce?
Riprendiamo però la nostra lettura.
Scrive Steiner, riferendosi ancora a von Hartmann: “Poiché ebbe riconosciuto che nel fatto d’essere cosciente non sta l’essenza dell’idea, egli dovette riconoscere quest’ultima anche come cosa obiettiva, esistente in sé e per sé. Però, il fatto di accogliere inoltre, tra i principi costitutivi attivi del mondo, anche la volontà, lo distingue da Goethe (…) Egli lo ammette perché riguarda l’idea come qualcosa di statico che, per divenire efficiente, abbisogna della spinta della volontà” (p. 165).
Che cosa abbiamo infatti detto, l’altra volta? Che von Hartmann vede, sì, la volontà e l’idea, ma le vede l’una “accanto” all’altra, e non l’una nell’altra.
Ciò dipende dal fatto che egli continua, nonostante tutto, a considerare l’idea (al pari di Kant) come una realtà meramente formale che, “per divenire efficiente”, abbisogna “della spinta della volontà”.
Il che corrisponde, a ben vedere, all’idea freudiana del cosiddetto “investimento libidico”. Quand’è che si ha infatti un tale “investimento”? Quando la libido “carica”, con la sua energia “psico-sessuale”, una rappresentazione (o un gruppo di rappresentazioni), per ciò stesso vivificandola e rendendola per l’appunto “efficiente”.
Ma un conto – come ormai sappiamo – è che l’inerte e statica forma del pensiero o dell’idea venga vivificata e resa efficiente dalla forza spirituale del pensiero stesso o dell’idea, altro è che venga eccitata o virulentata dalla forza naturale degli istinti, delle brame o delle passioni.
Nonostante i suoi notevoli meriti, il suo monismo, e la sua intenzione di coniugare il pensiero di Hegel con quello di Schelling e soprattutto di Schopenhauer, von Hartmann finisce dunque col riproporre il dualismo cartesiano, non più nei termini della res cogitans e della res extensa, bensì in quelli della idea e della volontà.
Scrive infatti Steiner: “Secondo lui la volontà da sola non può mai arrivare alla creazione del mondo, poiché essa è il vuoto e cieco urgere verso l’esistenza. Se la volontà ha da generare qualcosa, deve aggiungersi ad essa l’idea, poiché soltanto questa dà a quella il contenuto della sua azione. Ma che cosa dobbiamo fare di quella volontà? Essa ci sfugge quando vogliamo afferrarla, poiché non si può concepire quel vuoto urgere privo di contenuto. Da ciò consegue che tutto quanto afferriamo veramente del principio del mondo è idea, perché l’afferrabile deve appunto possedere un contenuto (…) Se dunque dobbiamo afferrare il concetto di volontà, esso deve pure apparirci nel contenuto dell’idea; può apparire soltanto nell’idea e con l’idea, quale forma del suo manifestarsi, non mai indipendentemente (…) Perciò Goethe rappresenta l’idea come attiva, efficiente, non più bisognosa di alcuna spinta (…) L’idea va intesa quale entelechia, vale a dire già come un’esistenza attiva; e da questa sua forma di esistenza attiva si dovrebbe da prima fare astrazione, se poi si vuole di nuovo ritrovarla sotto il nome di volontà” (pp. 165-166).
Non fatevi confondere dal fatto che viene detto che l’idea dà un “contenuto”, e non – come abbiamo finora detto – una “forma”, alla vuota e cieca forza della volontà, poiché tale contenuto è appunto la forma.
In ogni caso, si ripresenta qui la necessità di distinguere l’idea dalla coscienza dell’idea.
L’idea, in quanto “entelechia” (ossia unità di forma e di forza), è infatti attiva ed efficiente, mentre l’ordinaria coscienza riflessa dell’idea è solo una forma inerte che, avendo “cacciato dalla porta” la forza, se la vede poi “rientrare dalla finestra”, come “volontà”.
Statica, e per ciò stesso bisognosa di “spinta” (della buona volontà di sviluppare i suoi latenti gradi superiori) non è dunque l’idea, bensì l’ordinaria coscienza riflessa dell’idea.
Risposta a una domanda
Consideri ad esempio il fanatismo. Il fanatico sembra avere delle forti convinzioni, ma non è lui in realtà ad averle, bensì sono le forti convinzioni ad avere lui. E in tanto lo hanno o possiedono, in quanto la forza con cui vorrebbe imporre quelle idee non appartiene alle idee (e quindi all’Io), bensì alla sua natura inferiore, inconsciamente manipolata dalle entità ostacolatrici. (Si consulti, in proposito, l’articolo di Francesco Giorgi, Di fronte all’Islam, del 12 maggio 2002. Vi si trova infatti discussa questa equivoca affermazione di Gianni Vattimo: “Se Hitler avesse avuto un pensiero debole avrebbe potuto al massimo uccidere gli ebrei suoi vicini di casa. Per compiere un genocidio aveva bisogno di una metafisica fortissima che lo garantisse” – ndr).
Ricordiamoci dunque, ancora una volta, che le idee – come insegna La filosofia della libertà – dovrebbero essere al servizio dell’uomo (dell’Io), e non l’uomo al servizio delle idee.
Risposta a una domanda
Il fanatico è quasi sempre un individuo dotato, da una parte, di un pensiero debole (e quindi di una debole coscienza dell’Io) e, dall’altra, di una forte istintualità che infiamma, dal basso, il suo sentire.
Tenga presente, a questo proposito, che la vita del sentire ha una valenza sintomatica, e non etiologica: in essa non fanno infatti che manifestarsi gli equilibri o gli squilibri tra il pensare e il volere. Nei tipi stenici o isterici, ad esempio, il prevalere del volere sul pensare surriscalda il sentire, mentre, nei tipi astenici o nevrastenici, il prevalere del pensare sul volere lo raffredda.
Osserva appunto Goethe: “Contenuto senza metodo conduce al fanatismo, metodo senza contenuto a vuoti cavilli” (Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 45).
Mi sembra di aver già ricordato, peraltro, che la realtà interiore dei sentimenti corrisponde a quella esteriore dei colori, nella quale – secondo Goethe – viene proprio a manifestarsi l’interazione della “luce” (il pensare) con la “tenebra” (il volere). (“I colori – dice – sono azioni della luce, azioni e passioni…” – La teoria dei colori in Opere – Sansoni, Firenze 1961, vol.V, p. 289).
Ma torniamo a noi.
Scrive Steiner: “Se abbiamo riconosciuto nelle vedute di Hartmann sulla natura un’affinità con la concezione goethiana, la troviamo in modo ancor più significativo nell’etica di questo filosofo. Ed. v. Hartmann pensa che tutta la corsa alla felicità e l’affannarsi dell’egoismo sia eticamente privo di valore, poiché per questa via noi non possiamo mai arrivare a un appagamento. L’agire per egoismo allo scopo di appagarlo è per Hartmann qualcosa di illusorio. Noi dobbiamo comprendere il compito che ci è dato nel mondo e agire puramente per assolverlo, rinunziando a noi stessi. Dobbiamo trovare la nostra meta nella dedizione all’oggetto, senza pretesa di ricavarne alcunché per il nostro soggetto” (p. 166).
Questa conclusione, afferma Steiner, coincide con quella dell’etica goethiana; con questa decisiva differenza, però: che il rinunziare a noi stessi per “trovare la nostra meta nella dedizione all’oggetto” discende, in Hartmann, dal dovere (e viene perciò accompagnata dal pessimismo), in Goethe, dall’amore (“Il dovere: quando si ama ciò che si comanda a noi stessi” – Massime e riflessioni, p. 179).
Osserva infatti Steiner: “Quando non solleviamo nessuna pretesa personale, quando operiamo solamente perché spinti da ciò che è obiettivo, trovando nell’azione stessa i motivi dell’azione, allora operiamo moralmente. Ma in tal caso appunto operiamo per amore. Ogni volontà propria, ogni movente personale deve sparire” (pp. 166-167).
Bisogna fare però attenzione a non prendere queste espressioni in senso “moralistico”. Non si tratta infatti di negare sic et simpliciter l’ego (la “pretesa personale”, la “volontà propria”, il “movente personale”), quanto piuttosto di affermare l’Io, negando l’ego nella medesima misura in cui è negazione dell’Io; non si tratta, cioè, di negare l’ego in nome di un qualsivoglia “Super-io”, bensì di negarlo in nome dell’Io: in nome, cioè, del suo stesso essere o fondamento.
La rinunzia all’ego non è dunque che la negazione di una negazione: ovvero, la rinunzia al non-essere o al non-Io. “Tutta la nostra abilità – dice infatti Goethe – consiste nel rinunciare alla nostra esistenza per esistere” (Massime e riflessioni, p. 85).
Tutto ciò è però impossibile ove non sia la conoscenza ad aprire il varco alla moralità. Ma quale conoscenza può far questo? Quella sola che nasca, a sua volta, dalla moralità. Com’è infatti necessario conoscere per amare, così è necessario amare per conoscere, dal momento che la verità è il bene, così come si presenta al pensiero, e il bene è la verità, così come si presenta alla volontà. Non a caso La filosofia della libertà è divisa in due parti: la prima (La scienza della libertà), che potrebbe essere anche intitolata: Il bene come verità; la seconda (La realtà della libertà), che potrebbe essere anche intitolata: La verità come bene.
Se la scienza dello spirito prende le mosse (noeticamente) dal “bene come verità”, e non (eticamente) dalla “verità come bene”, lo si deve dunque al fatto che, proprio in nome della libertà, non può che muovere dalla nostra coscienza ordinaria e dal pensare che svolgiamo (autonomamente) allo stato di veglia (mentre il sentire e il volere si svolgono, rispettivamente, allo stato di sogno e di sonno). “L’ascesa verso lo stato di coscienza soprasensibile – si legge appunto ne La scienza occulta nelle sue linee generali (Antroposofica, Milano 1969, p. 250) – può muovere soltanto dalla coscienza normale di veglia”.
Scrive ancora Steiner: “L’uomo superiore non può desiderare altro che di doversi conquistare da sé la propria felicità (…) Appunto perchè il mondo ci lascia insoddisfatti, ci creiamo noi stessi le più belle felicità nel nostro operare” (p. 167).
“Compiango gli uomini – osserva allo stesso proposito Goethe – che si lamentano tanto della transitorietà delle cose e si perdono nella contemplazione della vanità terrena. Noi esistiamo proprio per rendere eterno ciò che è passeggero; e questo può avvenire solo qualora si apprezzi sia il transeunte che l’eterno” (Massime e riflessioni, p. 60).
Conclude quindi Steiner: “Abbiamo esposto qui tutto ciò perchè ci premeva di mostrare l’intima e profonda solidità della concezione goethiana del mondo. Essa è così profondamente radicata nell’essere del mondo, che noi dobbiamo incontrare i suoi tratti fondamentali dovunque un pensare energico penetri fino alle sorgenti del sapere. Ogni caratteristica di Goethe è talmente originale, talmente lontana da qualsiasi secondaria opinione alla moda, che anche un renitente è obbligato a pensare nel senso suo. In singoli individui si esprime appunto l’eterno enigma del mondo; nei tempi moderni nel modo più significativo in Goethe; perciò si può affermare che oggi l’altezza della concezione di un uomo può essere misurata alla stregua del rapporto in cui essa si trova di fronte alla concezione goethiana del mondo” (pp. 167-168).
Roma, 12 giugno 2001