Le opere scientifiche di Goethe (39)

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Avvertenza: La sera del 26 giugno 2001, prima di riprendere la lettura delle Opere scientifiche di Goethe, venne letto, commentato e discusso l’articolo di Francesco Giorgi: Globalizzazione e triarticolazione, pubblicato il giorno prima dal nostro “Osservatorio”.

Riprendiamo adesso la lettura del dodicesimo capitolo, dedicato al “principio fondamentale geologico di Goethe”.

Dopo aver citato il seguente passo del Wilhelm Meister: “Ora, se io trattassi questi squarci e crepacci come lettere che dovessi decifrare e formare in parole e finire col leggere completamente, avresti tu qualcosa in contrario?”, Steiner scrive: “Così, dal 1780 in poi, vediamo il poeta incessantemente occupato a decifrare quella scrittura. Il suo sforzo mirava a raggiungere una visuale che gli mostrasse, nelle sue connessioni interiori, necessarie, ciò ch’egli vedeva isolatamente. Il suo metodo era quello “che sviluppa e svolge, non quello che classifica e ordina”. Non gli bastava vedere qua il granito, là il porfido, ecc., e collocarli semplicemente l’uno accanto all’altro, secondo caratteri esteriori; egli cercava una legge che stesse alla base di tutte le formazioni pietrose e che, tenuta presente allo spirito, palesasse come appunto dovessero nascerne qua il granito, là il porfido. Partiva da ciò che distingue, per risalire all’elemento comune” (p. 175).

Come sappiamo, è Linneo, in campo botanico, a classificare e ordinare: cioè a fare quel ch’è in prima istanza necessario quando ci si trova al cospetto dell’immediata molteplicità. Goethe ne fa tesoro, ma non si ferma qui, in quanto avverte prepotentemente il bisogno di una sintesi o di una visione unitaria.
Molto diversamente – lo abbiamo detto – si comportano i mistici e i meccanicisti: questi si fermano sul piano analitico degli ordinamenti e delle classificazioni; quelli spiccano subito il volo verso la sintesi, evitando così di passare sotto le “forche caudine” (intellettuali) dell’analisi.
Ricordo, ad esempio, che quando mi capitava, parlando con qualche psicoterapeuta (junghiano), di accennare all’anima senziente, all’anima razionale e all’anima cosciente, mi sentivo quasi sempre dire che tali distinzioni non hanno senso, in quanto “l’anima è una”. Al che spesso rispondevo: “Anche il corpo è uno, ma non per questo chi patisce una cefalea si spalma sulla testa un callifugo”.
Ma per quale ragione Goethe sentiva così fortemente il bisogno di una visione unitaria? E’ presto detto: perchè tale bisogno è tanto più forte quanto più forte è il bisogno di raggiungere una piena coscienza dell’Io. L’ego, senza rendersene conto, cerca infatti l’Io: vale a dire, la sua vera realtà o il suo vero essere.
Proprio i mistici lo confermano. Anche il loro ego cerca infatti l’Io, ma, proprio per il fatto di precipitarsi anzi tempo verso la sintesi, anziché trovare l’Io in Dio e Dio nell’Io (l’inizio del Pater Noster dato da Steiner recita appunto: “Padre che fosti, che sei e sarai nella nostra più intima essenza…), finiscono col trovare un Dio che non è nell’Io, e col dissolvere così (lucifericamente) l’Io in quel Dio.
L’esigenza di raggiungere una visione unitaria del mondo non è dunque che il risvolto dell’esigenza di raggiungere una visione unitaria di se stessi; l’uomo, quale Io, è infatti sintesi vivente – spiega Steiner – “di diverse parti costitutive. Sono di carattere corporeo il corpo fisico, il corpo eterico e il corpo astrale. Sono animici: l’anima senziente, l’anima razionale e l’anima cosciente. Nell’anima diffonde la sua luce l’io. E sono spirituali: il sé spirituale, lo spirito vitale e l’uomo-spirito” (La scienza occulta nelle sue linee generali – Antroposofica, Milano 1969, p. 63).

Scrive Steiner: Goethe “cerca il principio comune che, secondo le diverse circostanze in cui si estrinseca, genera una volta questa, un’altra volta quella qualità di pietre. Nell’esperienza non v’è per lui nulla di fisso a cui potersi fermare; è fisso soltanto il principio che sta alla base di tutto (…) E’ un errore credere d’aver confutato questo metodo goethiano dicendo che la geologia attuale non conosce un tale trapasso da un minerale ad un altro. Goethe non ha mai asserito che il granito si trasformi effettivamente in un altra pietra. Una volta ch’è diventato granito, esso è un prodotto finito e conchiuso, e non ha più la forza interiore d’impulso per diventare, per forza propria, altra cosa. Ma ciò che Goethe cercava, è appunto quel che manca alla geologia attuale, l’idea, il principio che costituisce il granito prima che sia divenuto tale; e questa idea è la medesima che sta alla base anche delle altre formazioni. Se dunque Goethe parla del trapasso di una pietra in un’altra, egli non intende una trasformazione effettiva, bensì uno sviluppo dell’idea obiettiva che, sviluppandosi, produce le singole configurazioni, ora fissando questa forma e diventando granito, ora svolgendo da sé un’altra possibilità e diventando ardesia, ecc.” (pp. 175-176).

Per cominciare a farci un’idea (seppure approssimativa) di questo principio “fisso” che “genera una volta questa, un’altra volta quella qualità di pietre”, potremmo pensare, ad esempio, alle cosiddette “proprietà meccaniche” dei metalli (l’ego – si sa – preferisce parlare di “proprietà”, anziché di “qualità”). Sappiamo che i metalli si caratterizzano e differenziano anche per tali proprietà, ma non sempre si ricorda che, con il loro passare (mediante fusione) dallo stato solido (sorretto dall’etere della vita) allo stato liquido (sorretto dall’etere chimico), queste tendono a svanire. Ove dunque immaginassimo di farli poi passare dallo stato liquido a quello gassoso (sorretto dall’etere della luce), e da quello gassoso a quello calorico (sorretto dall’etere del calore), potremmo figurarci una loro finale unificazione: ovvero, il ritorno di ciascuno di essi al loro “principio comune”.
Scrive al riguardo Gunter Wachsmuth: “Ciò che noi percepiamo nella natura cogli organi dei sensi non sono in verità – come è ben noto ad ogni studioso della filosofia e della natura – sostanze e forze, ma stati e loro transizioni dall’uno all’altro (…) Se dunque (…) partiamo non, come Newton, dal punto di vista della materia dei corpi, ma da quello delle forze primarie”, possiamo dire: “Le forze prime eteriche (le forze plasmatrici), in quanto legate nei corpi del mondo dei fenomeni, conservano lo stato che hanno prodotto finché altre forze eteriche libere, o più forti della stessa specie, operino un cambiamento dello stato attuale” (Le forze plasmatrici eteriche – Atanòr, Roma 1980, p. 47).
Afferma Steiner ch’è “un errore credere d’aver confutato questo metodo goethiano dicendo che la geologia attuale non conosce un tale trapasso da un minerale ad un altro”. Detto A, poniamo, il granito (“colonna vertebrale della terra”) e B il porfido, è perciò sbagliato pensare che, per Goethe, A trapassi in B o che B trapassi in A, in quanto egli è invece convinto ch’è C (l’idea) a trapassare in A e in B o, per meglio dire, a manifestarsi qua come A e come B.
Abbiamo detto a bella posta “qua” e “là”, perché il trapassare di C in A o in B dipende soprattutto dal luogo (dallo spazio) in cui avviene la sua manifestazione.
Osserva infatti Wilhelm Pelikan: “Il metallo è presente ovunque; e come l’organismo umano ci mostra la presenza del sangue in ogni sua parte, ma in maggiore quantità nei vasi e nel cuore, così la Terra contiene certo dappertutto oro, argento, piombo, rame, ferro e così via, ma solo pochi luoghi ne contengono una quantità significativa. Con ciò si evidenzia che ciascun metallo presenta il suo specifico tipo di distribuzione sull’intera Terra (Sette metalli – Arcobaleno, Oriago di Mira (Ve) 1992, p. 6).

Scrive appunto Steiner: “Per Goethe, la cosa principale diventa la storia della formazione terrestre, ed ogni particolare deve inserirsi in essa. Ciò che gli importa è il posto che un minerale prende nel complesso terrestre; il particolare non lo interessa più, se non come parte del tutto. In ultima analisi gli appare giusto quel sistema mineralogico-geologico che ricrea i processi della Terra, mostrando perché nel tal luogo dovesse nascere appunto questo minerale, nel talaltro quell’altro. Per lui diventa decisiva la distribuzione geografica dei giacimenti. Perciò nella teoria di Werner, che altrimenti tiene in alta considerazione, Goethe trova a ridire sul fatto che Werner non ordina i minerali secondo la distribuzione che c’illumina sulla loro formazione, bensì secondo caratteristiche accidentali esteriori. Il sistema perfetto non viene fatto dallo scienziato; lo ha fatto la natura stessa” (p. 176).

Sarà il caso di ricordare che Abraham Gottlob Werner (1750-1817) è il mineralogista e geologo tedesco cui si deve la teoria del “nettunismo” (stando alla quale le rocce deriverebbero da processi di sedimentazione marina), mentre James Hutton (1726-1797) è il geologo inglese (citato nel passo che segue) cui si deve la teoria del “plutonismo” (stando alla quale le rocce deriverebbero invece da processi eruttivi vulcanici).

Goethe, continua Steiner, non poteva però “ammettere che nei fenomeni geologici, che sono semplicemente entità inorganiche, dovessero valere altri impulsi motori che nel resto della natura inorganica. L’estensione delle leggi dell’inorganico alla geologia è la prima azione geologica di Goethe (…) Le teorie geologiche di un Hutton, di un Elie de Beaumont (geologo francese, 1798-1874 – nda), gli ripugnavano interiormente. Che valore poteva egli attribuire a siffatte spiegazioni che contraddicono tutto l’ordine della natura? E’ un luogo comune la frase che spesso si sente ripetere, che la teoria dei sollevamenti e sprofondamenti sia stata contraria alla calma natura di Goethe. No, essa era contraria al suo senso d’una concezione unitaria della natura; egli non poteva inserirvela. E deve a questo senso d’esser giunto per tempo (già nel 1782) a quella veduta, a cui la geologia ufficiale arrivò solo dopo decenni; che i residui pietrificati di animali e piante stanno in una connessione necessaria con i minerali entro cui vengono scoperti” (pp. 176-177).

Il sistema perfetto – dice Steiner – non viene fatto dallo scienziato; lo ha fatto la natura stessa”. Il che sta a significare che nella natura opera un’intelligenza che l’uomo in tanto può scoprire in quanto è, per lui, un intelligibile.
Quale novello Prometeo, l’uomo moderno è riuscito in effetti a impadronirsi, strappandola alla natura, dell’intelligenza che governa il mondo inorganico (l’”opera compiuta” dell’Entità divino-spirituale). Ove si decidesse a crescere, e per ciò stesso a sviluppare il grado di coscienza immaginativo, potrebbe quindi impadronirsi anche dell’intelligenza che governa il mondo organico (l’”effetto operante” dell’Entità divino-spirituale).
Fatto sta che il pensiero “cosmico” crea e sorregge l’uomo e la natura, mentre il pensiero “umano” conosce l’uomo e la natura; conoscendoli dunque non li crea, ma li ri-crea. Abbiamo già detto, una sera, che quello della tecnica, ad esempio, non è appunto che un mondo inorganico ri-creato dall’uomo, in vista – naturalmente – di poter un giorno arrivare a ri-creare se stesso.
Ma per colmare il vuoto che divide il pensiero che ci ha pensati e ci pensa da quello con il quale attualmente pensiamo c’è molta strada da fare. Che cos’è infatti il pensiero con il quale attualmente pensiamo? Lo abbiamo appena detto: è quella parte morta (compiuta) del pensiero cosmico di cui siamo già riusciti a impadronirci.
E’ proprio qui che si gioca però la partita (il destino del mondo e dell’uomo). Infatti, delle due, l’una: o ci diamo umilmente e amorevolmente a scoprire e a far nostre le altre sue parti; o ci diamo egoisticamente (o narcisisticamente) a inventare qualcosa (come purtroppo si tende a fare oggi), arrecando così alla natura e a noi stessi danni ben più gravi di quelli proverbialmente arrecati, dagli elefanti, alle chincaglierie.

Scrive Steiner: Goethe “andava in cerca di una semplice, naturale spiegazione della presenza su vaste estensioni di masse granitiche, molto lontane le une dalle altre. La spiegazione ch’esse siano state ivi scagliate durante la tumultuosa sollevazione delle montagne situate molto più indietro nella regione, egli doveva respingerla, perchè essa derivava un fatto naturale, non dalle leggi naturali tuttora esistenti e operanti, bensì da una loro eccezione, anzi da un abbandono di esse” (p. 177).

Ed ecco, dunque, il Deus ex machina: ovvero, la “prelibata” idea che un fenomeno, di cui non si è in grado di scoprire la legge, sia dovuto a un caso, a un accidente o a un incidente. (“Il codice genetico – scrive ad esempio Edoardo Boncinelli – è arbitrario, o se preferiamo gratuito, per quanto riguarda le leggi universali del mondo fisico. Il fatto che sia quello che è e che sia universale, cioè valido per tutti gli esseri viventi, è dovuto a un caso, a una particolare combinazione di eventi che si sono verificati più di tre miliardi di anni fa e che ancor oggi fanno sentire i loro effetti. Il codice genetico si è instaurato per caso (…) Si è trattato di un vero e proprio incidente congelato…” – Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 29).
Avete presente, tanto per fare un altro esempio, quante e quali fantasiose ipotesi siano state formulate (e ancora si formulino) per spiegare la cosiddetta “scomparsa” dei dinosauri?
Ebbene, non sarebbe stato (e non sarebbe) più semplice, naturale e realistico pensare che tali esseri non siano “scomparsi”, bensì si siano metamorfosati?
Scrive Ermanno Bencivenga che “c’è ormai comune accordo sulla tesi che gli uccelli siano derivati dai dinosauri”, tanto che si è cominciato poeticamente a dire che “i dinosauri non si sono estinti: sono volati via” (I passi falsi della scienza – Garzanti, Milano 2001, p. 155).
Ma che dire se scoprissimo che dai dinosauri sono derivati non solo gli uccelli, ma anche – come sostiene Hermann Poppelbaum – i serpenti, i ruminanti e i carnivori? (cfr. A new Zoology – Philosophic-Anthroposophic Press, Dornach/Switzerland 1961).

Cari amici, è giunta l’ora di salutarci. Affronteremo i cinque restanti capitoli a settembre, quando, finite le vacanze, riprenderemo, a Dio piacendo, i nostri incontri e il nostro studio.

Roma, 26 giugno 2001

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Di Lucio Russo
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