Cominceremo stasera il quindicesimo capitolo: Goethe quale pensatore e scienziato. Si tratta di un capitolo piuttosto lungo, suddiviso in sei paragrafi, il primo dei quali s’intitola: Goethe e la scienza naturale moderna.
Scrive Steiner: “Se non fosse dovere il dire senza riserve la verità quando si crede d’averla scoperta, le considerazioni seguenti non sarebbero certo mai state scritte; ché, per me, non può esserci dubbio sul giudizio che se ne fanno gli specialisti in materia, data la tendenza oggi dominante nella scienza. Vi si scorgerà un tentativo dilettantesco da parte d’un uomo che vuol dire la sua in merito a un argomento da tutti i “competenti” ormai passato da un pezzo in giudicato. Se mi figuro il dispregio di tutti coloro che oggi si credono i soli chiamati a parlare di questioni scientifiche, devo confessare che davvero questo tentativo non è molto seducente nel senso ordinario della parola. Eppure non ho potuto lasciarmi sgomentare da simili probabili obiezioni, poiché posso farmele tutte da me e quindi non ignoro quanto poco solide esse siano. Pensare “scientificamente” nel senso delle teorie scientifiche moderne non è davvero difficile” (p. 187).
Permettetemi di leggervi, a questo proposito, alcune considerazioni di Francesco Giorgi relative a un articolo di Diego Marconi, intitolato: Lo spirito critico e il contar storie, pubblicato da Il Sole 24 Ore, e dedicato al libro di Ermanno Bencivenga: I passi falsi della scienza.
“Scrive Marconi: “Secondo Bencivenga si deve rispettare la professionalità degli scienziati, ma “senza dimenticare lo spirito critico”. Ora, come non rendere omaggio allo spirito critico? E tuttavia, nel caso del dibattito scientifico, le sole critiche sensate sono quelle competenti: chi oppone a un’opinione scientifica una contestazione disinformata non dà prova di spirito critico, ma soltanto di arroganza”. Come si vede, Marconi, dopo aver reso un doveroso quanto sbrigativo omaggio allo “spirito critico”, propone di distinguere le critiche “sensate” dei competenti da quelle insensate (o arroganti) degli incompetenti. Non considera affatto, perciò, che anche lo “spirito critico” prevede una specifica competenza, e che questa concerne l’attività del pensare e non i suoi oggetti (i pensati). Non è difficile trovare infatti degli scienziati che raccolgono “competentemente” i dati delle proprie ricerche (e dei quali sono quindi “informati”), ma li mettono poi incompetentemente in rapporto tra loro, ricavandone così delle teorie (o delle conclusioni) insensate. Pur essendo competenti, tanto per fare un esempio, del modo in cui è fatta una radio, si potrebbe essere convinti, al contempo, che questa crei o produca voci e suoni, e non che semplicemente li trasmetta. Basta infatti rimuovere un qualche suo componente per ridurla al silenzio. Ebbene, si procede forse diversamente quando ci si dice convinti che sia il cervello a pensare, sentire e volere? E coloro che, sapendo com’è fatto il cervello, fanno di queste affermazioni, sanno forse, avendoli osservati con lo stesso rigore con cui osservano i fenomeni fisici, come sono fatti il pensare, il sentire e il volere? O non cercano, piuttosto, di spiegare, mediante ciò di cui sono competenti, ciò di cui sono viceversa incompetenti? Fatto si è che Marconi crede che lo “spirito critico”, o – come preferiva dire Paolo Sarpi – “l’arte di ben pensare” (cfr. Scritti filosofici inediti – Carabba – Lanciano 1911 – ndr), sia una capacità naturale, e che non abbisogni quindi di alcuna specifica, severa e faticosa educazione. E’ sicuramente vero che i filosofi, curando unilateralmente lo sviluppo di tale “spirito” finiscono quasi sempre col perdere di vista i fatti, ma non meno è vero che gli scienziati, curandolo insufficientemente o non curandolo affatto, finiscono quasi sempre col perdersi, altrettanto unilateralmente, tra i fatti” (cfr. nel nostro sito: Lo spirito critico e il contar storie, 27 maggio 2001 – ndr).
Vorrei solo aggiungere, a queste parole, che ciò accade perché si va sempre più confondendo, purtroppo, lo spirito scientifico (sempre più raro) con lo spirito tecnico (sempre più diffuso); tanto che si è soliti ormai parlare di cultura “tecnico-scientifica” o di “tecnoscienza”.
Prosegue Steiner: “Attualmente si ritiene un dilettante chiunque prenda in genere sul serio una riflessione filosofica sull’essenza delle cose. Per i nostri contemporanei dalla tendenza di pensiero “meccanica” e persino “positivistica”, l’avere una concezione del mondo è ritenuto un ghiribizzo idealistico. Tale opinione diventa, certo, comprensibile quando si vede in quale pietosa incapacità conoscitiva si trovino questi pensatori positivistici ogni qualvolta si pronunciano sull’”essenza della materia”, i “limiti della conoscenza”, la “natura degli atomi” ed altri argomenti simili. Di fronte a tali esempi, si possono fare dei veri studi su ciò che è dilettantismo in fatto di questioni scientifiche di somma importanza. Bisogna avere il coraggio di ammettere tutto ciò di fronte alla scienza naturale contemporanea, nonostante le poderose ammirabili conquiste ch’essa ha da registrare nel campo della tecnica. Poiché tali conquiste non hanno nulla a che fare con un vero bisogno di conoscenza della natura (…) Altro è osservare i processi della natura per porre le loro forze al servizio della tecnica, altro è cercare, con l’aiuto di tali processi, di guardare più addentro nell’essenza della scienza naturale. Scienza vera è soltanto là dove lo spirito cerca appagamento dei suoi propri bisogni, senza scopi esteriori” (pp. 188-189).
Lo spirito scientifico è dunque spirito conoscitivo, mentre quello tecnico è spirito utilitaristico. Non è – si badi – che da ciò che conquista lo spirito conoscitivo non derivino benefici pratici, ma è che tale spirito dovrebbe avere a cuore anzitutto il reale, e non l’uso che di esso si può fare (dice appunto il Cristo: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta – Mt 6, 33).
A chi non è capitato di sentire lamentare che “oggi non c’è più religione”? Purtroppo, però, non solo “non c’è più religione”, ma sono in via di estinzione anche l’arte e la scienza (senza che ci sia un’associazione analoga al WWF per tutelarle). Entrambe non sono più infatti nelle mani dello spirito, bensì in quelle della politica e, soprattutto, dell’economia.
Una ricerca che non sia orientata spiritualmente non può però essere “scientifica”, così come una ricerca che non sia orientata scientificamente non può essere spirituale.
Scrive Steiner: “La vera scienza, nel senso superiore della parola, ha a che fare unicamente con oggetti ideali; non può essere altro che idealismo; poiché ha la sua ultima ragion d’essere in bisogni che originano dallo spirito (…) Le questioni scientifiche sono dunque essenzialmente una faccenda che lo spirito deve sbrigare con se stesso. Esse non lo conducono fuori dal suo elemento. Ora il campo in cui lo spirito vive ed opera, come quello ch’è primordialmente suo, è l’idea, il mondo del pensiero (…) Prendiamo l’osservazione scientifica; essa deve condurci alla conoscenza di una legge naturale. La legge stessa è puramente ideale. Già il bisogno di scoprire leggi valide dietro ai fenomeni, nasce dallo spirito. Un essere privo di spirito non avrebbe tale bisogno” (p. 189).
Che “la vera scienza” non possa “essere altro che idealismo”, è un fatto di cui si dovrebbe soltanto prendere coscienza.
Normalmente, crediamo infatti di pensare le “cose” e non ci accorgiamo che in tanto riusciamo non solo a pensarle, ma anche a scoprire le loro interrelazioni, in quanto le risolviamo continuamente in concetti o idee.
Ma quel ch’è vieppiù interessante è che il pensiero, pur potendo trafficare solo con pensieri, riesce ad afferrare il reale e a modificarlo. E questo può soltanto significare – lo abbiamo detto – che il pensiero è nel reale e che il pensiero è il reale.
E’ comunque evidente che “la vera scienza”, essendo deputata ad appagare i “bisogni che originano dallo spirito”, non viene granché “appetita” da tutti coloro che avvertono molto più i bisogni fisici e psichici che non quelli spirituali. La qualcosa mi sembra spieghi a sufficienza l’attuale andamento delle cose.
Ricordiamo sempre che il pensare, il sentire e il volere sono tutt’e tre facoltà dell’anima, ma che il volere e il pensare sono rispettivamente ipotecati, in basso, dal corpo e, in alto, dallo spirito (dall’Io), mentre il sentire vive al centro dell’anima (o della psiche).
Per questo Steiner dice che “il campo in cui lo spirito vive ed opera, come quello ch’è primordialmente suo, è l’idea, il mondo del pensiero”.
Scrive ancora: “Ora noi ci accingiamo all’osservazione. Che cosa vogliamo veramente raggiungere per mezzo di essa? Alla domanda generatasi nel nostro spirito, ci aspettiamo forse che ci venga fornito dal di fuori, dall’osservazione sensibile, qualcosa che possa darci risposta? Mai più! Infatti, perché dovremmo sentirci più appagati da una seconda osservazione che non dalla prima? Se in genere lo spirito potesse appagarsi dell’oggetto osservato, dovrebbe ricevere appagamento già dalla prima. Ma la vera richiesta non va verso una nuova osservazione, bensì verso il fondamento ideale delle osservazioni (…) Quindi i risultati della scienza possono provenire soltanto dallo spirito; e possono dunque essere solamente idee. Nulla si può sollevare contro questa necessaria considerazione; con essa però è affermato il carattere idealistico di ogni scienza” (p. 190).
Qual è insomma il problema? Che la scienza non è autocosciente: ch’è cosciente cioè delle cose di cui si occupa, ma non di se stessa.
Osserva infatti Steiner: “La scienza naturale moderna, per tutto ciò che ne costituisce l’essenza, non è capace di credere all’idealità della conoscenza. Poiché per essa l’idea non è l’elemento primo, originario, creativo, bensì è l’ultimo prodotto dei processi naturali” (p. 190).
Ma in tanto “non è capace di credere all’idealità della conoscenza”, in quanto non ha coscienza di quello che fa.
Essa crede, ad esempio, che sia possibile conoscere gli “enti” (i singoli), ma non le “essenze” (gli universali), soltanto perché ignora che per conoscere l’”ente” – come abbiamo a suo tempo dimostrato (se X è A, e se A è X, allora A è A) – è indispensabile l’”essenza” (l’universale), o che la conoscenza dell’ente (del percetto) implica necessariamente quella dell’essenza (del concetto).
Non si tratta dunque di credere o non credere a questo o a quello, ma di essere o non essere coscienti di ciò che si fa.
Fatto si è che la scienza non sarebbe tale, né riuscirebbe a fare quello che fa, se non operasse nel modo che stiamo illustrando. Non essendone però consapevole, crede che le cose stiano altrimenti: crede, ad esempio, che l’idea non sia “l’elemento primo, originario, creativo”, bensì “l’ultimo prodotto dei processi naturali”.
Ma il processo conoscitivo, scrive Steiner, “si presenta in questo modo: noi percepiamo coi nostri sensi fatti che si svolgono del tutto secondo le leggi della meccanica, poi fenomeni di calore, di luce, di magnetismo, di elettricità, e finalmente processi vitali, ecc.. Al gradino più alto della vita constatiamo ch’essa si eleva fino alla formazione di concetti, di idee, il cui portatore è appunto il cervello umano. Sorgente da questa sfera di pensiero troviamo il nostro proprio “Io”. Questo sembra essere il sommo prodotto di un complicato processo trasmesso attraverso una lunga serie di fatti fisici, chimici ed organici. Ma se indaghiamo il mondo ideale che costituisce il contenuto di quell’”Io”, troviamo in esso più che non il semplice prodotto terminale di quel processo. Troviamo che le singole parti di esso sono connesse tra loro in tutt’altro modo che non le parti di quel processo solamente osservato. In quanto sorge in noi un pensiero che poi ne suscita un altro, scopriamo che, tra questi due oggetti, vi è una connessione ideale di tutt’altra specie, che non se osservo la tintura d’una stoffa come conseguenza di un agente chimico. E’ affatto ovvio che gli stadi successivi del processo cerebrale hanno la loro origine nel ricambio organico, sebbene il processo cerebrale stesso sia il portatore di quelle configurazioni di pensiero. Ma il perché il secondo pensiero segua il primo, io non lo trovo in questo ricambio, bensì nella connessione logica dei pensieri. Nel mondo dei pensieri regna dunque, oltre alla necessità organica, un’altra necessità ideale superiore” (pp. 190-191).
Che cosa siamo dunque chiamati a scoprire? Che il legame vigente tra i concetti (o le idee) è un legame qualitativamente diverso da quello vigente tra i fatti fisici, chimici o nervosi.
Avendone ampiamente parlato occupandoci de La filosofia della libertà, basterà qui ricordare che il concetto A si lega a quello B per ragioni puramente logiche o ideali.
La scienza odierna conosce la natura dei legami atomici, elettrici, chimici o intermolecolari, ma non ancora quella dei legami logici; nemmeno sospetta, perciò, che il legame che si presenta, sul piano atomico, in forma atomica, o, su quello chimico, in forma chimica, sia lo stesso che si presenta, sul piano logico, in forma logica: con l’essenziale differenza, però, che qui svela finalmente la sua intima natura di pensiero.
Il legame è infatti “relazione”, la relazione è pensiero e il relazionare è pensare.
Scrive Steiner: “Il mondo dei pensieri sorge nella nostra interiorità, si pone di fronte agli oggetti sensibilmente osservabili, e chiede: quale rapporto ha, con me stesso, il mondo che ora mi si fa incontro? Che cosa è esso rispetto a me? Io sto qui, con tutta la mia necessità ideale aleggiante sopra tutto ciò ch’è transitorio; ho in me la forza di spiegare me stesso. Ma come posso spiegare ciò che mi sorge dinanzi?”; si tratta dunque – aggiunge – della domanda circa “il nesso tra spirito e natura. Qual è mai il rapporto esistente tra queste due entità che ci appaiono sempre separate l’una dall’altra? Se si solleva giustamente tale questione, il rispondervi non è tanto difficile come sembra. Qual senso può avere questa domanda? Essa non viene posta da un essere che, situato, come terzo, al di sopra di natura e spirito, da quel suo punto di vista investighi il detto rapporto; no, la domanda viene posta da una delle due entità stesse, cioè dallo spirito. Questo chiede: quale nesso esiste tra me e la natura? Ma ciò a sua volta significa: come posso io stesso mettermi in un rapporto con la natura che mi sta di fronte? Come posso esprimere questo rapporto secondo i bisogni che vivono in me? Io vivo in idee; quale idea corrisponde alla natura, come posso io esprimere in idea ciò che contemplo quale natura?” (pp. 191-192).
E’ in effetti arduo scoprire quale nesso vi sia tra lo spirito e la natura, ove si parta dal presupposto (dal pregiudizio) che il pensiero stia solo dentro l’uomo (nella sua testa), e che la natura, stando fuori dell’uomo, non abbia nulla a che fare con esso.
Il caso sarebbe però diverso, ove ci rendessimo conto che il pensiero sta tanto in noi quanto nella natura. Ce ne saremmo già resi conto, in realtà, se anziché parlare – come si fa oggi – di “informazione”, si parlasse per l’appunto di “pensiero”.
Ricordate, infatti, che cosa dice Boncinelli? Che “le entità fondamentali che caratterizzano e regolano i fenomeni dell’universo fisico, indipendentemente dal fatto che si tratti di oggetti animati o di oggetti inanimati, sono tre: la materia, l’energia e l’informazione” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 11).
Se avessimo dunque la spregiudicatezza di sollevare la foglia di fico dell’“informazione”, non solo scopriremmo che il pensiero sta tanto in noi quanto nella natura, ma realizzeremmo pure ch’è grazie al primo (allo spirito cosciente) che ci è dato di scoprire il secondo (lo spirito incosciente).
Dice Schelling che lo spirito è la “natura invisibile”, mentre la natura è lo “spirito visibile”; dal momento ch’è lo spirito a parlare, è come però se dicesse: “Contemplando la natura, contemplo me stesso come natura”; e quindi si domandasse: “Ma che cosa vuol dire, per me, essere natura?”. “Vuol dire – non potrebbe che rispondersi – non essere ancora pervenuto alla coscienza di me stesso o all’autocoscienza”.
Il che sta a significare che il problema del nesso tra lo spirito e la natura si risolve, in ultima analisi, in quello del nesso tra il conscio (il pensare) e l’inconscio (il sentire e il volere).
Scrive infatti Steiner: “Lo spirito cerca ovunque di andar oltre la serie dei fatti che gli fornisce la semplice osservazione, e di penetrare fino alle idee delle cose. La scienza comincia appunto là dove comincia il pensiero” (p. 192).
Là dove comincia il pensiero, finisce però l’opinione: ovvero, quel leggero abito di pensiero con cui rivestiamo il corpo delle simpatie, delle antipatie, dei desideri o delle brame che originano dalla nostra personale natura (psico-fisica). Una cosa sono infatti le idee delle cose, altra le idee sulle cose: ossia quelle dei cosiddetti “opinionisti” od opinion makers.
Che cos’è, d’altro canto, a decretare il successo dell’attuale cultura? Lo abbiamo già detto: che ci chiede d’informarci, e non di formarci; che non ci chiede ovverosia di cambiare. L’asso nella manica degli odierni maîtres à penser consiste appunto nel dare a intendere che chiunque può diventare “qualcuno” pur rimanendo un perfetto “idiota” (nel senso originario – s’intende – di idios: “proprio”, “privato”, “personale”).
Eppure, ha detto Goethe, “si deve essere qualche cosa, per poter fare qualche cosa” (G.P.Eckermann: Colloqui col Goethe – Laterza, Bari 1912, vol. I, p. 294). E che cosa si deve fare, per poter “essere qualche cosa”? Si deve appunto liberare l’Io dall’idiotismo dell’ego.
Scrive Steiner: “Possiamo prendere le mosse donde vogliamo; se abbiamo forza spirituale sufficiente, incontriamo alla fine l’idea. In quanto la fisica moderna disconosce completamente ciò, viene condotta a tutta una serie di errori. Voglio qui accennarne uno. Prendiamo la forza d’inerzia, generalmente citata tra le “qualità dei corpi”. Abitualmente la si definisce così: “nessun corpo può, senza causa esteriore, mutare lo stato di moto in cui si trova” (si tratta del primo principio della dinamica che suona precisamente così: “un corpo persiste nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché non intervengano forze esterne sufficienti a modificare tale stato” – nda). Questa definizione desta la rappresentazione che il concetto del corpo in sé inerte venga astratto dal mondo dei fenomeni”; ma non è così, in quanto “il concetto del corpo inerte nasce puramente per una costruzione concettuale. Chiamando “corpo” ciò che è esteso nello spazio, posso immaginarmi dei corpi nei quali i mutamenti provengono da influssi esteriori, ed altri in cui i mutamenti avvengono per forza propria. Se poi, nel mondo esterno, trovo qualcosa che corrisponde al mio concetto preformato di “corpo incapace di mutarsi senza spinta esterna”, io lo chiamo inerte, ossia soggetto alla legge d’inerzia. I miei concetti non sono astratti dal mondo dei sensi, bensì costruiti liberamente dall’idea, e solo col loro aiuto io comincio a orientarmi nel mondo dei sensi. La definizione suddetta potrebbe essere enunciata solo così: “un corpo, che non è capace di mutare il suo stato di moto per forza propria, si chiama inerte”; e quando l’ho riconosciuto come tale, posso applicare tutto quanto è connesso con un corpo inerte anche al corpo in questione” (pp. 192-193).
Come potete vedere, il primo enunciato (di Newton) non dà ragione della realtà organica (che non abbisogna dell’intervento di “forze esterne” per modificare il “suo stato di quiete o di moto”), mentre il secondo (di Steiner) dà ragione e della realtà organica e della realtà inorganica.
Parafrasando Karl Popper (1902-1994), che ha parlato – com’è noto – di “società aperta” e di “società chiusa” (cfr. La società aperta e i suoi nemici – Armando, Roma 1996), potremmo dunque parlare, e forse a maggior ragione, di “scienza aperta” e di “scienza chiusa”, senza meravigliarci che i molti “amici” della seconda siano “nemici” della prima.
Roma, 11 settembre 2001