Se tutto andrà bene, finiremo stasera il quindicesimo capitolo; ci occuperemo infatti del suo ultimo paragrafo: Goethe, Newton e i fisici, che ci darà occasione di tornare a riflettere su alcuni degli argomenti fin qui trattati.
Scrive Steiner: “Quando Goethe si accostò allo studio dell’essenza dei colori, fu mosso, in sostanza, da un interesse artistico (…) Nella Storia della teoria dei colori egli stesso ha dato un’ampia relazione di tutta la parte storica del suo studio. Qui vogliamo trattarne solo il lato psicologico e pratico. Subito dopo il suo ritorno dall’Italia Goethe cominciò i suoi studi, i quali divennero particolarmente intensi negli anni 1790 e ’91, per continuare poi ininterrotti fino alla morte del poeta. Rappresentiamoci la situazione della concezione goethiana del mondo nel momento in cui Goethe iniziò gli studi sui colori. Egli aveva già concepita la sua idea grandiosa della metamorfosi degli esseri organici; e, grazie alla sua scoperta dell’osso intermascellare, gli era sorta la visione dell’unità di tutta l’esistenza naturale. Il singolo particolare gli appariva come una modificazione speciale del principio ideale che regna nella totalità della natura. Aveva già affermato, nelle sue lettere dall’Italia, che una pianta è pianta solo pel fatto di portare in sé l’idea della pianta. Questa idea era per lui qualcosa di concreto, come un’unità piena di contenuto spirituale presente in ogni singola pianta. Essa non era percepibile con gli occhi del corpo, bensì con l’occhio dello spirito. Chi è capace di scorgerla, la vede in ogni pianta. Con ciò tutto il regno delle piante e, per estensione di tale veduta, l’intero regno della natura, appare come un’unità afferrabile con lo spirito. Ma nessuno può, partendo dalla semplice idea, costruire tutta la molteplicità che si presenta ai sensi esteriori. L’idea può essere riconosciuta dallo spirito intuitivo; le singole configurazioni gli sono accessibili solo quando rivolge i sensi al mondo esterno, quando guarda e osserva. Il perché una modificazione dell’idea appaia come realtà sensibile proprio così e non altrimenti, non può essere escogitato dal cervello, ma deve venir cercato nel regno della realtà” (pp. 212-213).
Una cosa, dunque, è cercare d’indurre l’idea muovendo dalle cose, altra cercare di dedurre le cose muovendo dall’idea.
Abbiamo infatti visto che l’attività creatrice (cosmica) discende dall’idea alle cose, mentre l’attività conoscitiva (umana) risale dalle cose all’idea. Il cercare di dedurre le cose muovendo dall’idea si configura perciò come una hybris (filosofica): vale a dire, come un presuntuoso (luciferico) tentativo di far percorrere (anziché ri-percorrere a ritroso) alla conoscenza umana la stessa strada percorsa dalla creazione divina.
La scienza vorrebbe contrastare – è vero – tale tentativo, cercando appunto d’indurre l’idea partendo (come vuole l’empirismo) dalle cose, ma arriva soltanto a farsi un’idea sulle cose, e non a cogliere l’idea nelle cose. E perché? Perché il peso del materialismo (il tamas degli orientali) la schiaccia sulle cose, concedendole di alzarsi in volo solo per poter congetturare astrattamente e sterilmente su di esse.
Le forze luciferiche tendono dunque a esaltare unilateralmente il potere luminoso del concetto, mentre quelle arimaniche tendono a esaltare unilateralmente il potere tenebroso del percetto. Chi è abbagliato dalle prime non riesce pertanto a vedere l’idea nelle cose (poiché la sa vedere, per così dire, solamente per aria), e chi è ottenebrato dalle seconde non riesce a vedere le cose nell’idea (poiché le sa vedere, per così dire, solamente per terra).
Vi prego comunque di notare che, pur non avendo ancora ripreso a trattare della teoria dei colori di Goethe, ci siamo già trovati a parlare di luce e di tenebra.
Scrive Steiner: “Tale è il peculiare modo di vedere goethiano che più appropriatamente si può chiamare idealismo empirico, e riassumere con le parole: alla base degli oggetti di una molteplicità sensibile, in quanto sono congeneri, sta un’unità spirituale che produce quella similarità e appartenenza. Partendo da questo punto, sorse per Goethe la domanda: Quale unità spirituale sta alla base della molteplicità delle percezioni dei colori? Che cosa percepisco io in ogni modificazione di colore? Gli riuscì tosto chiaro che la base necessaria di ogni colore è la luce. Non c’è colore senza luce. Ora gli restava da cercare quell’elemento della realtà che modifica e specializza la luce; e scoprì ch’era la materia priva di luce, l’oscurità attiva, in breve, ciò ch’è opposto alla luce. Così ogni colore gli divenne luce modificata dalla tenebra” (p. 213).
Ecco appunto, di nuovo, la luce e la tenebra. Fatto si è che dall’incontro della prima con la seconda nascono non solo (lo abbiamo detto) i colori e i sentimenti, ma anche le rappresentazioni: secondo quanto insegna La filosofia della libertà, queste originano infatti dall’incontro del concetto (della luce) con il percetto (con la tenebra). Sarà bene tenerlo presente, se si vuole intendere il modo in cui Goethe concepisce la luce.
Scrive appunto Steiner: “E’ affatto errato credere che Goethe intendesse per luce, quella concreta luce solare che generalmente si chiama “luce bianca” (…) La luce, quale Goethe la intende, contrapponendole la tenebra come suo opposto, è un’entità puramente spirituale, è semplicemente l’elemento comune a tutte le sensazioni di colore” (pp. 213-214).
La luce è dunque, in sè, una realtà extrasensibile. Con gli occhi, non vediamo infatti la luce, ma vediamo (le cose) grazie alla luce: ovvero, non vediamo mai l’illuminante, ma sempre e soltanto l’illuminato.
Continua Steiner: “Sebbene Goethe non lo abbia mai espresso chiaramente, pure tutta la sua teoria dei colori è costruita in modo che null’altro è lecito ricavarne (…) Quello che per la teoria dei colori otteniamo con l’aiuto della luce solare non è che un avvicinamento alla realtà (un’approssimazione – nda). La teoria di Goethe non va intesa come se in ogni colore egli vedesse realmente contenute la luce e la tenebra. La realtà che si presenta ai nostri occhi è solo una data sfumatura di colore. Solo lo spirito è in grado di scomporre questo fatto sensibile in due entità spirituali: luce e non-luce. I fatti esteriori pei quali ciò avviene, i processi materiali nella materia, non ne vengono menomamente toccati. Questa è tutt’altra cosa. Non si vuole affatto negare che, mentre davanti a noi appare il “rosso”, nell’etere avvenga un processo ondulatorio. Ma ciò che nella realtà produce una percezione non ha nulla a che fare, come già abbiamo mostrato, con l’essenza del contenuto” (p. 214).
Dice Steiner che “la realtà che si presenta ai nostri occhi è solo una data sfumatura di colore”, e che “solo lo spirito è in grado di scomporre questo fatto sensibile in due entità spirituali: luce e non-luce”. Lo spirito fa dunque, con “una data sfumatura di colore”, quello che fa ad esempio con l’acqua. Se non l’avesse infatti scomposta o analizzata, avrebbe mai scoperto ch’è composta, in una determinata proporzione, nientemeno che da due gas (l’idrogeno e l’ossigeno)?
“Ciò che nella realtà produce una percezione – dice ancora – non ha nulla a che fare (…) con l’essenza del contenuto”. Come a suo tempo abbiamo visto, un conto è infatti l’essenza del percetto (del contenuto della percezione), altro la natura dei mezzi che lo veicolano o attraverso i quali arriva alla coscienza.
Esemplifica appunto Steiner: “Se qualcuno, dal luogo A, mi spedisce un telegramma mentre io risiedo in B, ciò che giunge nelle mie mani è originato totalmente in B. E’ in B il telegrafista, il quale scrive sopra un foglio di carta e con un inchiostro che non sono mai stati in A; egli stesso non conosce A, ecc.; insomma si può dimostrare che nel telegramma che sta davanti a me nulla proviene da A. Eppure tutto quanto proviene da B è affatto indifferente per il contenuto, per l’essenza del telegramma; quel che per me importa è soltanto trasmesso da B. Se io voglio spiegare l’essenza del contenuto del telegramma, devo totalmente prescindere da quanto proviene da B” (pp. 214-215).
Parliamoci chiaro. Queste cose le capirebbero e le accetterebbero tutti, se per l’incontro con la viva realtà dello spirito bastasse il solo intelletto (o, come si usa dire oggi, la sola “mente”).
Pensiamo, ad esempio, a Paolo. Dopo l’incontro col Cristo (sulla via di Damasco) non è stato più Saulo, ma è diventato appunto Paolo: ovvero, un “altro”. Come abbiamo avuto già modo di sottolineare (citando anche Eccles), il vero ostacolo alla comprensione è costituito dunque dalla paura (arimanica) di morire all’ego (al “vecchio Adamo”): a quel solo soggetto, cioè, o a quella sola forma di manifestazione dell’Io, che ci è dato ordinariamente conoscere. (“La verità – osserva in proposito Goethe – contraddice la nostra natura, l’errore invece no, e questo per una ragione semplicissima: la verità esige che noi riconosciamo la nostra limitatezza, l’errore ci illude di avere capacità in un modo o nell’altro illimitate” – Massime e riflessioni, TEA, Roma 1988, p. 86).
Boncinelli, ad esempio, sostiene che “in natura l’odore di violette non esiste, come non esiste un accordo in Do o il giallo paglierino”, poiché “ciascuno di questi è un segmento di realtà ritagliato da uno dei nostri sensi e da essi elevato al rango di sensazione” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 118).
Ma se putacaso esistessero le loro rispettive essenze, potrebbe allora non esistere quella di colui che le odora, le ode e le vede? Potrebbero esistere, cioè, le essenze dei profumi, dei suoni o dei colori, senza quella del soggetto che le esperisce e conosce? No, non potrebbero esistere; ed è proprio per questo che si decide allora, mettendo (inconsciamente) le mani avanti (“prevenire è meglio che curare!”), di dichiararle inesistenti.
Ma torniamo a noi.
Scrive Steiner: “I processi materiali spaziali-temporali possono essere importantissimi per il prodursi delle percezioni; ma non hanno nulla a che fare con l’essenza delle medesime (…) Se si investiga che cosa accade nell’estensione spaziale mentre vengono trasmesse le entità in questione (luce, calore, elettricità, ecc. – nda), si deve arrivare a un movimento unitario. Poiché un mezzo, in cui soltanto il movimento è possibile, deve reagire a tutto col movimento; e compirà anche a mezzo di movimenti tutte le trasmissioni a cui è chiamato. Se poi io investigo le forme di tale movimento, non apprendo che cosa sia la cosa trasmessa, bensì in che modo essa mi venga trasmessa. E’ semplicemente assurdo dire che il calore o la luce siano movimento. Movimento è soltanto la reazione della materia suscettibile di movimento” (p. 215).
E’ invero “assurdo dire che il calore o la luce siano movimento”. Ma perché allora lo si dice? Per la ragione di sempre: perché il contenuto trasmesso non è percepibile dai sensi (fisici), mentre il movimento del mezzo che lo trasmette lo è. Di tale contenuto si potrebbe almeno ipotizzare l’esistenza, ma i pregiudizi materialistici vigilano per evitare anche questo.
“I processi del mondo occulto – nota al riguardo Steiner – si rivelano coi loro effetti in quello manifesto. Quando si riconosca che i risultati dell’indagine soprasensibile rendono comprensibili i processi visibili, in questa conferma che fornisce la vita si ha la dimostrazione che è lecito richiedere per simili cose. Chi non vuole usare dei mezzi che indicheremo in seguito per giungere all’osservazione soprasensibile può fare l’esperienza seguente. Può cominciare con l’accettare i dati della conoscenza soprasensibile e indi applicarli alle cose manifeste nel campo della sua esperienza. Egli troverà allora che la vita diviene per tal mezzo chiara e comprensibile; e tanto più se ne convincerà, quanto più esattamente e più a fondo osserverà la vita ordinaria” (La scienza occulta nelle sue linee generali – Antroposofica, Milano 1969, p. 69).
Già per fare questa esperienza, occorrerebbero tuttavia spregiudicatezza e amore per la realtà: occorrerebbe, ossia, un vero, serio e profondo interesse a sciogliere (scientificamente) gli enigmi della vita. (“Può riconoscere l’antroposofia – scrive infatti Steiner – solo chi trova in essa quel che deve cercare per una sua esigenza interiore. Possono perciò essere antroposofi soltanto quegli uomini che sentono certi problemi sull’essere dell’uomo e del mondo come una necessità vitale, come si sente fame e sete” – Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p. 15).
Ho riferito poc’anzi l’esempio del telegramma per illustrare il fatto che queste verità sarebbero alla portata di tutti, se per l’incontro con la viva realtà dello spirito bastasse il solo intelletto.
Ebbene, vorrei proporvene un altro, non meno efficace, così come lo riporta Enzo Erra: “Un libro è quello che è indipendentemente da chi lo sceglie in uno scaffale e ne sfoglia le pagine; e se è un trattato di geometria nessun lettore ha il potere di tramutarlo in una raccolta di liriche. Eppure, il contenuto di un libro, benché inscindibilmente connesso con i caratteri a stampa che oggettivamente lo racchiudono e configurano, non si scioglie, non si libera, non si rivela nella sua fisionomia – trama di racconto, serie di concetti, intreccio di sentimenti – se non nell’interiorità del lettore. E benché un libro sia indiscutibilmente un oggetto, non diviene quello che pure intrinsecamente è – romanzo, biografia, saggio storico o sistema filosofico – fino a quando una mano non lo apre, un occhio non lo scorre, un pensiero non lo pensa: fino a quando l’intervento di una volitiva, soggettiva attività, non lo chiama a manifestarsi, non lo risveglia a vivere” (Cento anni dopo in La concezione goethiana del mondo – Tilopa, Roma 1991, p. 160).
Cos’altro fare, dunque, se non ricordare – come recita l’adagio – che “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”?
Conclude Steiner: “Basta liberarci dall’idea che per Goethe luce e tenebra siano entità reali e riguardarle come semplici principi, come entità spirituali; allora si acquisterà un’opinione ben diversa dalla solita, sulla sua teoria dei colori. Quando, come Newton, s’intende la luce come un semplice miscuglio di tutti i colori, ogni concetto del concreto essere “luce” svanisce; si volatilizza totalmente in una vuota rappresentazione generica a cui nella realtà nulla corrisponde. Simili astrazioni erano estranee alla concezione goethiana del mondo. Per Goethe ogni rappresentazione doveva avere un contenuto concreto; solo che per lui il “concreto” non s’identificava col “fisico”. La fisica moderna non ha veramente nessun concetto della “luce”; non conosce che luci specificate, colori che, in determinate combinazioni, suscitano l’impressione di “bianco”. Ma anche questo “bianco” non deve venir identificato con la “luce” in sé. Anche il bianco non è, in fondo, altro che un colore combinato. La “luce”, nel senso goethiano, non è nota alla fisica moderna; e nemmeno la “tenebra”. Sicché la teoria dei colori di Goethe si muove in una sfera che non tocca nemmeno le determinazioni concettuali dei fisici. La fisica semplicemente ignora tutti i concetti fondamentali della teoria goethiana dei colori; sicché, dal suo punto di vista, non può giudicarla affatto. Goethe comincia là dove la fisica finisce” (pp. 215-216).
A proposito di “principi”, vorrei ricordare, prima di finire, quelli freudiani dell’Eros e del Thanatos. Che i neurologi e gli psichiatri materialisti se ne facciano beffe non sorprende affatto; ma che non siano stati finora presi interamente sul serio dagli stessi psicoanalisti freudiani può invece sconcertare. Che cosa sarebbe accaduto, infatti, se li avessero presi sul serio? Che avrebbero prima o poi scoperto – come insegna la scienza dello spirito – che la “luce” (il pensare astratto) si rivela collegata, in veste di Thanatos, ai processi catabolici del sistema neurosensoriale, e che la “tenebra” (il volere istintivo) si rivela di contro collegata, in veste di Eros, ai processi anabolici del sistema metabolico e degli arti.
Nel polo inferiore – spiega infatti Victor Bott – “troviamo una intensa vitalità e di conseguenza una attività corrispondente del corpo eterico. La costante rigenerazione delle cellule dell’intestino, la moltiplicazione cellulare negli organi di riproduzione sono dei processi eterici per eccellenza, sono delle manifestazioni vitali. Al contrario, al polo neurosensoriale prevalgono processi di morte. Questo stato di cose raggiunge il suo punto culminante al livello della cellula nervosa incapace di rigenerazione. Si ha l’impressione che basti poco perché muoia totalmente” (Medicina antroposofica – IPSA, Palermo 1991, vol. I, p. 20).
Roma, 16 ottobre 2001