Le opere scientifiche di Goethe (47)

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Stasera affronteremo il sedicesimo capitolo, intitolato: Goethe contro l’atomismo. Si tratta di un capitolo piuttosto lungo, suddiviso in nove paragrafi.
Prima, vorrei però mostrarvi questo libro: si tratta di una conversazione tra il noto ed eterodosso psicoanalista junghiano James Hillman e Silvia Ronchey. E’ uscito in questi giorni, e ho voluto acquistarlo – com’è facile immaginare – soprattutto in ragione del suo titolo: Il piacere di pensare (Rizzoli, Milano 2001).
Non che mi facessi – sia chiaro – delle illusioni, ma ero comunque curioso di sapere quale fosse la natura del piacere che si accompagna – secondo Hillman – al pensare.
C’è voluto poco a scoprirlo. Ascoltate infatti come risponde a una domanda della Ronchey: “Sì, c’è un’intera teoria dell’educazione nelle mie parole. I piaceri del pensiero, la passione delle idee, l’erotismo della mente. Forse, in quei giorni, Sartre e Simone de Beauvoir ne erano ai nostri occhi le immagini (…) E’ il demone Eros che appicca fuoco alla mente e attrae l’uno verso l’altro due corpi come un magnete. Corpi che sono a volte male assortiti. Poi quand’è finita, quando si abbatte la catastrofe, quei due si danno la colpa a vicenda. “Seduzione”. Ha presente? Ma l’unico al quale dare la colpa è Eros, che prova grande, grande piacere nel pensiero!” (pp. 32-33).
Poco dopo tuttavia ci ripensa e, a un’altra domanda dell’interlocutrice, risponde: “Forse le sto dando una visione unilaterale del pensiero, come fosse tutta passione e piacere e qualcosa di molto fisico. Pensiero è anche lavoro: duro lavoro. E anche una sorta di devozione o rigore – il che è anche di per sé un piacere, tra parentesi” (p. 36).
Al che la Ronchey gli chiede: “Quand’è che pensare diventa lavoro? Come identifica piacere e rigore?”; e Hillman risponde: “Il piacere del rigore. Ah! Mi piace. Una sorta di piacere anale, insieme sadico e masochistico. Cercare molto molto duramente di farsi strada nel pensiero fino alla chiarezza. Correggersi. Cercare un riferimento che non si ricorda dove si è letto. Controllare, controllare, controllare. Leggere libri davvero tremendamente difficili, come la Ragion pura di Kant” (pp. 36-37).
C’è forse bisogno di commento? Non credo; perdonatemi, anzi, per avervi proposto un esempio del genere, ma è purtroppo necessario, di quando in quando, richiamare l’attenzione sulla “qualità” della cosiddetta “cultura” che fa oggi da sfondo al nostro lavoro.
Ma adesso cominciamo il primo paragrafo del nuovo capitolo.

Steiner lo apre citando alcuni passi di una conferenza tenuta a Lubecca, il 20 settembre 1895, dal fisico, chimico e filosofo tedesco (Nobel per la chimica nel 1909) Wilhelm Ostwald (1853-1932); e poi scrive: “Nelle mie dissertazioni sulla teoria goethiana dei colori ho combattuto la stessa lotta contro le rappresentazioni scientifiche fondamentali del nostro tempo come il prof. Ostwald nella sua conferenza sul Superamento del materialismo scientifico. Ma ciò che io sostituisco a quelle rappresentazioni non si accorda affatto con le idee di Ostwald (…) Ora vorrei discutere più a fondo la concezione moderna della natura, cercando di riconoscere, dallo scopo che si prefigge, se essa sia sana o no” (pp. 218-219).

“Se riflettiamo – dice ad esempio Ostwald – che tutto ciò che si sa di una data materia, è la conoscenza delle sue proprietà, vediamo come l’asserzione che esista bensì ancora una determinata materia, la quale però non possiede più nessuna delle sue proprietà, non è davvero lontana dall’essere un vero assurdo. Effettivamente tale asserzione solo formale serve unicamente a congiungere i fatti generali dei processi chimici, e specialmente delle leggi di misura stechiometriche, col concetto arbitrario di una materia in sé immutabile”.

Abbiamo appunto detto, tempo fa, che la materia è vera, ma il materialismo è falso, e che lo è proprio perché “non è davvero lontana dall’essere un vero assurdo” (o un arbitraria pretesa metafisica) l’assunzione di una materia “immutabile” quale fondamento. Come dice Ostwald, “tutto ciò che si sa di una data materia” non solo è infatti “conoscenza delle sue proprietà”, e quindi di una materia determinata qualitativamente come sostanza, ma è anche conoscenza di una materia determinata morfologicamente come corpo.
Porre a base del “materialismo scientifico” (così lo chiama Ostwald) una materia che non ha né sostanza né corpo è dunque – come dice Steiner – “malsano” (nella prima pagina del paragrafo, scrive infatti: “In quanto alle idee fondamentali con cui l’osservazione naturale moderna cerca di comprendere il mondo dell’esperienza, io le ritengo malsane e insufficienti di fronte a un pensare energico” – p. 217).
Fatto si è che ci troviamo ancora una volta alle prese con una proiezione. Riflettiamo: è vero o non è vero che tutto ciò che percepiamo con i sensi ha un fondamento? E’ vero. Ed è vero o non è vero che il fondamento di tutto ciò che percepiamo con i sensi non è percepibile dai sensi? E’ vero. E qual è allora il problema? E’ che tale fondamento non viene riconosciuto, come sarebbe doveroso, di natura spirituale, bensì viene proiettato al di là del mondo percepito, in un fantomatico universo che dovrebbe essere, insieme, materiale e immateriale. (Alla voce “materia”, nelle più recenti garzantine dedicate alle Scienze, si legge: ove si considerino i “suoi costituenti elementari (molecole, atomi, particelle)”, la materia “risulta allora avere un’origine unica ma le proprietà solitamente a essa attribuite (impenetrabilità, divisibilità, compressibilità ecc.) non si possono più considerare valide, così che ci si limita a studiare i soli dati sperimentali senza preoccuparsi di dare una definizione universalmente valida di materia” – ndr).
Abbiamo appena visto che Steiner giudica “malsane e insufficienti” le “idee fondamentali con cui l’osservazione naturale moderna cerca di comprendere il mondo dell’esperienza”. Perché “malsane”? Perché esistono, sì, malattie – come insegna la medicina psicosomatica – le cui cause allignano nella psiche e i cui effetti si manifestano nel corpo, ma ne esistono anche altre – come potrebbero ad esempio insegnare quelle nevrosi “asintomatiche” o “esistenziali”, definite da Viktor Frankl “noogene” – le cui cause allignano nello spirito e i cui effetti si manifestano nell’anima.
Per poterle curare, occorrerebbe pertanto prendere in considerazione non solo il corpo e la psiche, come fa quasi tutta la psicologia contemporanea, ma anche lo spirito: non però in modo astratto, sentimentale o fideistico, bensì in modo “concreto”, e per ciò stesso scientifico-spirituale.
Si usa dire (in specie in tempi di “relativismo culturale”) che “un’idea vale l’altra”; ma vi risulta forse che un cibo valga l’altro? Che un fungo velenoso, che so, valga quanto uno commestibile? No di certo! E per quale ragione, allora, ciò che vale per i cibi non vale per le idee? E’ presto detto: perché i primi li assumiamo in modo concreto, mentre le seconde le assumiamo in modo astratto: ossia perché le idee penetrano solo nella testa, mentre i cibi penetrano in tutto l’organismo.
Finché le idee le abbiamo solo in testa, non è in effetti facile distinguere quelle vere da quelle false o, per meglio dire, quelle sane da quelle insane; a forza di stare nella testa, possono però arrivare, pian piano, a prendere corpo nei sentimenti e nella volontà, rivelando così la loro natura salutare o patogena. Di fatto, sono salutari tutte quelle idee che aiutano l’uomo a farsi sempre più uomo (a divenire ciò che è), mentre sono patogene tutte quelle che lo allontanano o distolgono da tale meta (per magari deviarlo, più o meno esplicitamente, verso quella dell’animalità o, in senso lato, della robotica). Osserva in proposito Steiner: “La concezione spirituale del mondo, la somma di verità spirituali che abbiamo attinta dalle altezze del cosmo, fluirà entro le anime umane; così per l’umanità dell’avvenire diventerà essa stessa un rimedio curativo alimentato dall’interiorità più profonda dell’uomo. In avvenire la scienza dello spirito diventerà sempre più un farmaco per le anime” (Il Vangelo di Luca – Antroposofica, Milano 1996, p. 143).
Ma torniamo a noi.

Dopo aver riportato un passo in cui Cartesio distingue ciò che – a suo dire – si può conoscere chiaramente e nettamente, come la grandezza o l’estensione (nel senso di lunghezza, larghezza, profondità), da ciò che si può invece conoscere solo oscuramente e confusamente, come le qualità sensibili (colori, odori, suoni, sapori, ecc.), Steiner così conclude: “Il pensare nel senso di questa proposizione cartesiana è diventato un’abitudine per i seguaci della concezione moderna della natura, a tal segno ch’essi non reputano degna di considerazione nessun’altra maniera di pensare. Essi dicono: Ciò che si percepisce come luce viene effettuato da un processo di moto esprimibile con una formula matematica. Quando nel mondo percepibile appare un colore, essi lo riconducono a un moto ondulatorio e ne calcolano il numero delle vibrazioni in un dato periodo di tempo. Credono che tutto il mondo sensibile resterà spiegato non appena si sarà riusciti a ricondurre tutte le percezioni a rapporti esprimibili in tali formule matematiche (…) Ridurre il mondo a un’operazione aritmetica è l’ideale della concezione naturale moderna (…) Poiché senza l’esistenza di forze, le parti della supposta materia non potrebbero mai esser messe in moto, gli scienziati moderni accolgono anche l’energia tra gli elementi coi quali spiegano il mondo (…) Con l’introduzione del concetto di energia la matematica trapassa nella meccanica (…) Du Bois-Reymond (Paul, 1831-1889 – nda) scrive: “E’ un fatto psicologico sperimentato che dove riesca una tale risoluzione (dei processi naturali nella meccanica atomica) il nostro bisogno di causalità si sente provvisoriamente appagato”. Per Du Bois-Reymond questo può essere un fatto d’esperienza. Ma bisogna pur dire che esistono anche altri uomini i quali, da una spiegazione del mondo corporeo quale la prospetta il Du Bois-Reymond, si sentono tutt’altro che appagati. Nel numero di questi altri uomini è Goethe; e coloro il cui bisogno di causalità è pago quando riesce a ricondurre i processi naturali a una meccanica degli atomi, non possiedono l’organo per comprendere Goethe” (pp. 219-220-221).

Il che sta a significare che costoro non possiedono neanche l’organo per comprendere Steiner e l’antroposofia.
Proprio Steiner afferma infatti: “Quando oggi si fa presente (siamo nel 1918 – nda) che il mondo ha mancato l’opportunità di occuparsi di Goethe – e l’ha invero mancata – quando si rileva che il mondo non è riuscito a raggiungere un qualsiasi rapporto col goetheanismo, non si vuole criticare o biasimare il mondo, ma si cerca d’invitarlo a trovare il giusto rapporto col goetheanismo. Continuare il goetheanismo significa però entrare nella scienza dello spirito, orientata antroposoficamente; senza di essa il mondo non uscirà dalla catastrofica situazione odierna. In un certo senso, il modo migliore per avvicinarsi alla scienza dello spirito è proprio quello di cominciare da Goethe” (Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, p. 162).
E passiamo adesso al secondo paragrafo.

Scrive Steiner: “Grandezza, figura, posizione, movimento, forza, ecc. sono percezioni, proprio nell’identico senso come la luce, i colori, i suoni, gli odori, i sapori, le sensazioni di caldo, di freddo, ecc.. Chi separa la grandezza d’un oggetto dalle altre sue qualità e la considera per sé, non ha più a che fare con un oggetto reale, ma solo con un’astrazione dell’intelletto. Il più grande controsenso pensabile è quello di attribuire a un’astrazione isolata dalla percezione sensibile un grado di realtà diverso che non ad un oggetto della percezione sensibile stessa. I rapporti di spazio e di numero non hanno altro vantaggio sulle altre percezioni sensibili che quello d’essere più semplici e più facilmente abbracciabili con lo sguardo. Su queste due qualità poggia la sicurezza delle scienze matematiche. Quando la concezione moderna della natura riconduce tutti i processi del mondo corporeo a elementi esprimibili matematicamente, ciò si deve al fatto che per il nostro pensiero matematica e meccanica sono facili e comode da adoperare. E il pensiero umano ama la comodità” (p. 221).

Che cos’è realmente un “oggetto”? Un insieme di qualità. E come pretendere quindi di conoscerlo, estraendo e isolando dall’insieme alcune qualità e assegnando loro un valore diverso da quello delle altre che lo costituiscono?
Eppure lo si fa. E perché? Ebbene, immaginiamo di avere di fronte a noi un qualche oggetto. Esso ci si dà, ci si offre o ci si dona, senza nasconderci nulla. Noi però che facciamo? Dal momento che ci si dà come un “insieme di qualità”, scegliamo quelle maggiormente affini alla qualità del nostre intelletto e le dichiariamo causa delle altre. E quali sono le qualità maggiormente affini all’intelletto? E’ ovvio: quelle che meglio si prestano al calcolo. “Non a torto – osserva infatti Hegel – si equiparò” il pensare intellettuale “al calcolare, e viceversa il calcolare a questo pensare” (Scienza della logica – Laterza, Roma-Bari, 1974, p. 34).
Non è dunque più “facile e comoda” (come dice Steiner) una adaequatio rei ad intellectum (una adeguazione della cosa al pensare o al conoscere) che non una adaequatio intellectus ad rem (una adeguazione del pensare o del conoscere alla cosa)? (Vedi: Le opere scientifiche di Goethe (7) ndr).
Ma è più “facile e comoda” – direbbe probabilmente Freud – in quanto è espressione della libido “narcisistica”, e non di quella “oggettuale”: in quanto è frutto, in altri termini, dell’egoismo, e non dell’amore.

Scrive Steiner: Ostwald, ad esempio, “isola l’energia dal campo della percezione, cioè astrae da tutto ciò che non è energia. Egli riconduce tutto il percepibile a un’unica qualità di esso, alla manifestazione energetica, dunque a un concetto astratto (…) In sostanza, che Du Bois-Reymond risolva i processi naturali in una meccanica degli atomi o che Ostwald li dissolva in manifestazioni dell’energia, è lo stesso. Le due soluzioni scaturiscono entrambe dalla tendenza del pensiero umano alla comodità” (p. 222).

C’è dunque chi isola la materia (l’estensione), chi isola il movimento (l’energia) e chi (oggi) isola l’informazione; e c’è pure chi isola e assomma – come abbiamo visto fare a Boncinelli – tutti e tre i fattori. Ma dov’è e qual’è l’oggetto? Dov’è e qual è, ossia, quell’insieme del quale l’estensione, il movimento e l’informazione non sono che singoli aspetti? (Osserva Goethe: quando discorrono dei prodotti della natura, i Francesi adoperano il vocabolo composition. “Ora, io posso mettere insieme le singole parti di una macchina fatta a pezzi e parlare, in tal caso, di composizione; ma non quando intendo delle singole parti di un tutto organico; che si formano mercè di un processo vitale, e sono compenetrate da un’anima comune” – G.P.Eckermann: Colloqui col Goethe – Laterza, Bari 1912, vol. II, p. 338).
Boncinelli arriva ad esempio ad affermare: “La durezza, la malleabilità o la conduttività di un metallo sono proprietà del metallo stesso, non degli atomi e delle molecole che lo compongono” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 21).
Benissimo, ma chi è allora ad avere tali proprietà? Ovvero, dov’è e qual è il “metallo stesso”?
Noi sappiamo che il “metallo stesso”, vale a dire l’essenza del metallo, si trova al di là della soglia che divide la realtà esistenziale dello spazio e del tempo da quella essenziale delle qualità (e dell’Io). Risalire dalla coscienza dello spazio (rappresentativa) a quella del tempo (immaginativa), e, attraversando tale soglia, risalire poi dalla coscienza del tempo a quella della qualità (ispirativa) non è però facile né comodo, e proprio per questo si preferisce – secondo quanto abbiamo detto e ripetuto – ridurre la qualità e il tempo allo spazio, e cioè alla quantità.
Al riguardo, Ostwald, in un passo riportato da Steiner, afferma: “Per quanto utile e necessaria per comprendere la natura, è l’energia anche sufficiente a questo scopo (cioè alla spiegazione del mondo corporeo)? (…) A tale domanda si deve rispondere con un no. Per quanto superiori siano i pregi della concezione energetica del mondo rispetto a quelli della concezione meccanica o materialistica, si possono sin d’ora, così mi sembra, indicare alcuni punti che non vengono coperti dai capisaldi dell’energetica già noti; e che quindi accennano all’esistenza dei principi che la trascendono. Ma l’energetica continuerà a sussistere accanto a questi principi nuovi. Solo che, in avvenire, essa non sarà più, quale è oggi per noi, la legge più vasta di tutte per abbracciare e dominare i fenomeni naturali, ma apparirà probabilmente come un caso speciale di rapporti ancora più generali, della cui forma noi non abbiamo certamente, per il momento, la più pallida idea” (pp. 222-223).
E ancor oggi, in effetti, la scienza non ha “la più pallida idea” dell’idea.

Roma, 23 ottobre 2001

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Di Lucio Russo
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