Antropologia (4)

A

Cominciamo la seconda conferenza.

Dice Steiner: “In avvenire ogni insegnamento dovrà essere fondato sopra una psicologia vera, ricavata dalla conoscenza antroposofica del mondo. Va da sé che in moltissime scuole è stata riconosciuta la necessità di porre ogni istruzione ed educazione su basi psicologiche, e tutti sanno che per esempio la pedagogia herbartiana (Johann Friedrich Herbart, 1776-1841 – nda), in passato largamente estesa, fondava le proprie misure educative sulla psicologia dello stesso Herbart. Ma negli ultimi secoli, e ancor oggi, qualcosa impedì l’affermarsi di una psicologia vera e feconda, e precisamente il fatto che, nell’epoca dell’anima cosciente in cui ci troviamo, non è stato finora raggiunto quell’approfondimento che avrebbe consentito di pervenire a una vera ed effettiva conoscenza dell’anima umana” (p. 29).

Nella nostra epoca, gli unici seri tentativi di “pervenire a una vera ed effettiva conoscenza dell’anima umana” sono stati fatti – a mio parere – dalla psicoanalisi di Freud, dalla psicologia analitica di Jung e, sotto un certo aspetto, dalla logoterapia di Viktor Frankl.
Questi tentativi sono però falliti soprattutto in ragione dei loro rispettivi “presupposti antropologici”: di quello naturalistico e materialistico della psicoanalisi; di quello misticheggiante, paganeggiante e pseudo-esoterico della psicologia analitica; di quello dichiaratamente spiritualistico e veterotestamentario della logoterapia.
In tutti e tre i casi, si è rimasti quindi distanti da una psicologia a misura d’uomo (quella di Freud è infatti a misura di Arimane, mentre quelle di Jung e Frankl sono, seppure in modo diverso, a misura di Lucifero).
Fatto sta che per avere una psicologia a misura d’uomo (“una psicologia vera e feconda”) si devono prendere le mosse dall’antroposofia.
Mi rendo conto che, così dicendo, si corre il rischio di sembrare degli “integralisti”, ma questo dipende semplicemente dal fatto che coloro cui si potrebbe apparire tali non sanno che cos’è, o per meglio dire “Chi” è, l’antroposofia.
Dice appunto Steiner che “in avvenire ogni insegnamento dovrà essere fondato sopra una psicologia vera, ricavata dalla conoscenza antroposofica del mondo”.
La scienza dello spirito (antroposofica) non è infatti una scienza che si occupi esclusivamente dello spirito, ma una scienza che, in virtù della conoscenza spirituale, è in grado di approfondire, vuoi la conoscenza dell’anima, vuoi quella del corpo.
Non mi stancherò mai di ripetere che la scienza dello spirito è una scienza eminentemente “pratica”, e che, proprio per questa sua qualità, ne avremmo oggi urgente bisogno. L’odierna cultura intellettualistica è infatti diventata a tal punto astratta, imbelle e vaniloquente da renderci sempre meno capaci di affrontare con realismo ed efficacia i problemi individuali e collettivi che il nostro tempo ci pone.
Non riusciremo quindi a rimediare a questo stato di cose, se continueremo a ignorare lo spirito o a farvi appello astrattamente (magari illudendoci di poter colmare il vuoto dell’astrazione con il pathos personale).
Dovremmo avere piuttosto il coraggio di ricercare e far nostra una scienza che ci dia modo, come quella antroposofica, di riallacciare il rapporto con la realtà, e di stare con i piedi – e non con la testa – per terra.

Dice Steiner: “I concetti che, nel campo psicologico, nel campo della scienza dell’anima, gli uomini si erano formati prima, partendo dalle conoscenze antiche, della quarta epoca postatlantica, sono ormai ridotti, più o meno, a semplici frasi vuote di contenuto. Chiunque oggi prenda in mano un testo di psicologia o comunque si occupi di concetti psicologici, non vi troverà più nessuna sostanza reale, ed avrà il sentimento che si tratti, in fondo, di semplici giochi di parole” (p. 29).

Sappiamo, avendo studiato La filosofia della libertà, che il pensare è una forza spirituale, e che i concetti sono entità spirituali: che entrambi hanno cioè uno “spessore” o una “sostanza” reale.
La coscienza ordinaria se li rappresenta però piatti e vuoti, poiché è deputata a osservare le loro immagini riflesse (dallo specchio corticale), e non la loro realtà. I concetti di “spirito” e “anima” appaiono perciò piatti e vuoti, mentre appare spesso e pieno (per compensazione) quello di “corpo” (tanto da illudere qualcuno che esista un “io corporeo”).
Stando così le cose, è pertanto fatale che, alla lunga, chiunque “si occupi di concetti psicologici” abbia – per dirla con Steiner – “il sentimento che si tratti, in fondo, di semplici giochi di parole”.

Dice Steiner: “Potete sfogliare quanti testi volete, di psicologia e pedagogia; vi troverete innumerevoli definizioni di “rappresentazione” e di “volontà”; ma non ne troverete una che vi dia un’idea vera di ciò che è la “rappresentazione” e di ciò che è la “volontà”, perché si è del tutto trascurato (naturalmente per una necessità storica) di riallacciare anche animicamente il singolo individuo umano all’intero universo (…) Esaminiamo un po’ quello che si chiama di solito rappresentazione. Non dobbiamo forse sviluppare nei bambini il rappresentare, il sentire e il volere? Dunque dovremo acquistarci noi stessi un chiaro concetto di ciò che è “rappresentazione”. Chiunque osservi spregiudicatamente ciò che nell’uomo vive come rappresentazione, sarà subito colpito dal suo carattere d’immagine. La rappresentazione ha carattere d’immagine, e si illude grandemente chi vi cerchi invece il carattere esistenziale, chi le attribuisce una vera e propria esistenza” (pp. 29-30).

Una cosa, in effetti, è apprendere la definizione di “rappresentazione”, altra osservarne e sperimentarne direttamente il carattere. A meno che non si pensi che apprendere la definizione, che so, di “cavallo” equivalga in tutto e per tutto a montarlo.
Di certo ricorderete che La filosofia della libertà ci presenta la rappresentazione come il risultato dell’interazione del concetto col percetto (col contenuto della percezione): come cioè una sorta di “precipitato” che si “deposita” allorquando alla sostanza (spirituale) del concetto si aggiunge la sostanza “precipitante” (sensibile) del percetto.
Si tratta quindi di un gioco di forze (di una “logodinamica”) che Steiner c’invita a osservare e pensare, e non semplicemente ad apprendere.
Per poter rispondere a tale invito, dobbiamo però educare e sviluppare un pensare dinamico (immaginativo), poiché il pensare statico (deputato a pensare lo spazio) le dinamiche può per l’appunto apprenderle, ma non sperimentarle.
Il pensare deve dunque crescere. Si potrebbe in effetti paragonare la differenza qualitativa che esiste tra l’esperienza del mondo del neonato e quelle del bambino, dell’adolescente e dell’adulto, alla differenza qualitativa che esiste tra l’esperienza del mondo del pensare rappresentativo e quelle del pensare immaginativo, del pensare ispirativo e del pensare intuitivo.
“La rappresentazione – dice Steiner – ha carattere d’immagine, e si illude grandemente chi vi cerchi invece il carattere esistenziale, chi le attribuisce una vera e propria esistenza”. Ma quale differenza c’è allora tra il “carattere d’immagine” della rappresentazione e quello dell’immaginazione (vale a dire, del frutto del pensare immaginativo)? E’ presto detto: che il primo è morto, mentre il secondo è vivo.
Non è cosa da poco. Basti pensare che uno dei principali motivi per i quali Jung prese le distanze da Freud è costituito appunto dal fatto che quest’ultimo confondeva i “segni” (le rappresentazioni morte) con i “simboli” (le immaginazioni vive).
Ascoltate ciò che dice Jung (alla voce “simbolo”), in questo Dizionario di psicologia analitica: “Quei contenuti coscienti che ci danno degli indizi per accedere al retroterra inconscio sono scorrettamente chiamati simboli da Freud. Non sono tuttavia veri simboli poiché, secondo la sua teoria, hanno semplicemente il ruolo di segni o sintomi dei processi subliminali. Il vero simbolo è qualcosa di sostanzialmente diverso e andrebbe inteso come un’idea intuitiva che non può ancora essere formulata altrimenti o meglio”.
Grazie alla scienza dello spirito, possiamo essere però più precisi, e dire: “Il “vero simbolo” è un’idea che si manifesta sul piano immaginativo (eterico), ma non ancora sul piano ispirativo (astrale) e su quello intuitivo (dell’Io)”.
Dice ancora Steiner che le rappresentazioni non hanno un “carattere esistenziale” o “una vera e propria esistenza”. Che cosa significa? Significa che le rappresentazioni, in quanto immagini (morte), non sono che “apparenza”: ovvero, forme prive di sostanza e di forza. Potremmo anche dire – con Hegel – che sono “parvenza”, e quindi, in definitiva, non-essere.

Dice Steiner: “Esse dunque non sono: hanno natura di semplici immagini. Proprio sul finire della precedente epoca d’evoluzione dell’umanità, negli ultimi secoli, è stato commesso il grave errore d’identificare l’esistenza col pensiero come tale: “Cogito ergo sum”. E’ questo un errore massimo che si è posto a capo della concezione moderna del mondo. Effettivamente, in tutta l’estensione del “cogito” non risiede il “sum”, ma il “non sum”; vale a dire che nell’ambito di tutta la mia conoscenza io non sono, ma è solo l’immagine” (pp. 30-31).

Cerchiamo di capire bene questo punto. Abbiamo detto, in precedenza, che la rappresentazione è una sorta di “precipitato” che si “deposita”. Anche sotto questo aspetto ricorda pertanto un cadavere: morendo, abbandoniamo infatti il corpo fisico, e questo appunto “precipita” e si “deposita” in forma di cadavere. Il che implica che il corpo è un “corpo” (ed “esiste”) fintantoché vi siamo dentro, mentre è un “cadavere” (e “non esiste”) allorché ne siamo fuori. Parafrasando Steiner, potremmo perciò dire: “In tutta l’estensione del rappresentare morto (dal quale appunto sto fuori) non risiede il sum, ma il non-sum”.
Un conto, dunque, è avere di fronte a sé od oggettivare le rappresentazioni, altra vivere all’interno dei sentimenti e delle sensazioni. E’ questa, tuttavia, una conditio sine qua non della nostra ordinaria coscienza di veglia. Ove infatti ci sperimentassimo normalmente all’interno delle rappresentazioni, così come ci sperimentiamo normalmente all’interno dei sentimenti e delle sensazioni, le rappresentazioni non sarebbero più rappresentazioni, bensì immagini oniriche.

Risposta a una domanda
La sfera in cui, durante lo stato di veglia, “non-siamo” è quella neuro-sensoriale (cefalica). Nella sfera ritmica (mediana), e vieppiù in quella metabolica (addominale e degli arti), continuiamo invece a “essere”. Ma, non a caso, laddove “non-siamo” siamo coscienti, mentre laddove “siamo” siamo subcoscienti e incoscienti.
Bisogna comunque prestare molta attenzione al fatto che una cosa è il pensare (in sé), altra la coscienza del pensare. Il pensare (in sé) è infatti “essere”, mentre la coscienza che ordinariamente ne abbiamo lo fa apparire come un “non-essere”. Un conto, d’altro canto, è avere a che fare con un gatto, altro avere a che fare con la fotografia di un gatto. E’ assai improbabile, infatti, che questa miagoli, faccia le fusa o graffi.
Purtuttavia, come la fotografia di un gatto, per quanto morta, implica o presuppone l’esistenza (o l’essere) del gatto, così la rappresentazione di un’idea, per quanto morta, implica o presuppone l’esistenza (o l’essere) dell’idea.

Dice Steiner: “Dobbiamo rappresentarci che anche nell’attività pensante non abbiamo che un’attività immaginativa. Dunque tutto ciò ch’è movimento nel rappresentare è movimento di immagini. Ma le immagini devono essere immagini di qualche cosa, non possono essere solamente immagini “in sé”. Se riflettete al paragone con le immagini nello specchio, potrete dirvi: è vero che le immagini appaiono nello specchio, ma tutto ciò che in esse risiede non è dietro lo specchio, risiede altrove, indipendentemente da esso; e per lo specchio è indifferente ciò che in esso si rispecchia. Se, proprio in questo senso, sappiamo che la nostra rappresentazione è immaginativa, si tratta di chiederci: di che cosa è essa l’immagine? Naturalmente nessuna scienza esteriore risponde a questo problema; solo la scienza dello spirito antroposofica può rispondervi. La rappresentazione è l’immagine di tutte le esperienze da noi avute prima della nostra nascita, o meglio prima della concezione” (p. 31).

Ogni immagine (morta o viva che sia) non si regge dunque su di sé, ma è sempre immagine di un qualcosa. Proprio per questo, Jung non ha dato alle “immagini archetipiche” un valore, per così dire, “ontologico”, ma le ha considerate quali manifestazioni (simboliche) dei cosiddetti “archetipi in sé”.
Dice Steiner che “la rappresentazione è l’immagine di tutte le esperienze da noi avute prima della nostra nascita, o meglio prima della concezione”. Ciò vuol dire che la rappresentazione rimanda al passato. Al passato prossimo (alla vita prenatale), però, e non a quello remoto (alle vite terrene precedenti).
Occorre qui evitare, più che mai, dei fraintendimenti. Che cosa intende affermare Steiner? Che la nostra rappresentazione del presente è condizionata normalmente dal passato, o, per essere più chiari, che, di norma, ci rappresentiamo le esperienze della presente vita terrena nelle forme determinate dalla nostra vita prenatale.
Come dobbiamo stare perciò attenti a non confondere l’”attività immaginativa” di cui parla qui Steiner con quella (superiore) della coscienza immaginativa, così dobbiamo stare attenti a riferire al passato (alla vita prenatale), non i contenuti delle rappresentazioni (che originano – secondo La filosofia della libertà – dalla presente attività percettiva), quanto piuttosto l’attività che dà loro forma (quot capita tot sententiae).
Poco più avanti, Steiner dice infatti: “Nelle nostre rappresentazioni, abbiamo rispecchiata l’attività esercitata dalla nostra anima, prima della nostra nascita o della concezione, in un mondo puramente spirituale” (p. 32 – corsivo nostro).
In breve, dobbiamo riferire al passato il rappresentare, e non il rappresentato.
Fatto si è che tra i molteplici equilibri che siamo chiamati incessantemente a creare e ricreare (nel presente), vi è anche quello tra la corrente (eterica) che scorre dal passato verso il futuro e la corrente (astrale) che scorre, viceversa, dal futuro verso il passato.
A chi volesse saperne di più, suggerirei di consultare specialmente la quarta conferenza del ciclo dedicato da Steiner alla “Psicosofia”, pubblicato nel volume dal titolo: Antroposofia – Psicosofia – Pneumatosofia.
Qui ci limiteremo a osservare che il prevalere, in noi, dell’una o dell’altra di tali correnti si rende particolarmente evidente nella “tipologia” (caratteriale).
Non è difficile ad esempio rilevare che, sul presente del tipo astenico (nevrastenico), grava soprattutto il passato (in forma di scrupoli, rimorsi o sensi di colpa), e che il presente del tipo stenico (isterico) è invece attratto soprattutto dal futuro (in forma di ambizioni, desideri o brame).
Laddove prevale il passato (nel tipo astenico), il rappresentare prevale dunque sul volere. Vedremo adesso che laddove prevale il futuro (nel tipo stenico), il volere prevale invece sul rappresentare.

Dice Steiner: “Per la coscienza ordinaria, la volontà è qualcosa di sommamente enigmatico (…) Se cercate quale contenuto gli psicologi assegnino alla volontà, troverete sempre che tale contenuto proviene dal rappresentare e che la volontà, a tutta prima, non ha reale contenuto (…) Ma che cosa è essa, in sostanza? Null’altro che il germe, già insito in noi, di ciò che dopo la morte sarà in noi una realtà spirituale-animica (…) Vi prego di notar bene la differenza tra germe e immagine, poiché un germe è qualcosa di sopra-reale, mentre un’immagine è qualcosa di sub-reale; un germe diverrà una realtà solo più tardi, porta dunque in sé, come disposizione, una realtà futura” (p. 33).

Di questo, parleremo però la prossima volta.

Roma, 25 novembre 1999

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Di Lucio Russo
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