Antropologia (10)

A

Risposta a una domanda
Provi a pensare a un metallo: ad esempio, al piombo. Ci appare come una sostanza grigiastra, ma la sostanza che vediamo e tocchiamo non è il piombo, bensì la manifestazione fisica (minerale) del piombo. Se ne assumessimo una certa quantità (inalandola come polvere o assorbendola attraverso la pelle), vedremmo infatti che da tale sostanza – come purtroppo sanno quanti sono affetti da “saturnismo” – si sprigiona un processo, un processo qualitativamente diverso da quello che si sprigionerebbe se assumessimo magari dell’argento.
Il piombo, prima ancora che una sostanza, è dunque un’essenza. Mediante un processo d’incarnazione, l’essenza si trasforma in sostanza e, mediante uno di dis-incarnazione, la sostanza si trasforma in essenza.
Dal punto di vista puramente energetico (eterico), il processo che si sprigiona dal piombo non è diverso da quello che si sprigiona dagli altri metalli. Perché si dia una differenza deve infatti intervenire la qualità: deve cioè intervenire, oltre al corpo (alla sostanza) e al processo (alla forza), anche l’essenza del metallo.
Nella natura, l’essenza è più “reale” del processo (in quanto lo emana), e il processo è più “reale” della sostanza (in quanto la genera), mentre alla nostra coscienza ordinaria (vincolata alla percezione sensibile) la sostanza appare “reale”, mentre il processo, e a maggior ragione l’essenza, appaiono meri concetti astratti.
S’insegna – è vero – che “la funzione sviluppa l’organo”, ma ci si ritrova poi con un livello di coscienza capace di percepire e pensare l’organo, ma non la funzione, che decade così a inferenza o ipotesi astratta.
Certo, pensare che una funzione astratta possa sviluppare un organo concreto è un’incongruenza. Ma, di questi tempi, chi volete che se ne preoccupi? Riprendiamo però adesso la nostra lettura.

Dice Steiner: “Come insegnanti, verrete a trovarvi nella necessità di rendere intelligibile ai vostri allievi la natura, da un lato, e dall’altro di condurli ad una certa comprensione della vita spirituale (…) Rivolgiamo quindi il nostro sguardo, anzitutto, alla natura esteriore (…) Quando ci troviamo di fronte alla natura in modo da rivolgerle il nostro pensiero, le nostre rappresentazioni, noi in verità ne afferriamo solo quel tanto che di essa si trova in un continuo processo di morte. E’ questa una legge estremamente importante. Rendetevene ben chiaramente conto: per belle che siano le leggi naturali, che potete scoprire con l’aiuto dell’intelletto, delle forze della rappresentazione, esse si riferiscono sempre a ciò che, nell’ambito della natura, perisce” (pp. 46-47).

Per quale ragione – come dice Steiner – “quando ci troviamo di fronte alla natura in modo da rivolgerle il nostro pensiero, le nostre rappresentazioni, noi in verità ne afferriamo solo quel tanto che di essa si trova in un continuo processo di morte”? Per la semplice ragione che le rivolgiamo la parte morta di noi (l’intelletto).
Dal momento che “il simile conosce il simile”, questa ci mette in grado di scoprire le leggi che governano la parte inorganica (minerale) della natura, ma non quelle che ne governano la parte organica (vegetale) e quella animica (animale).
La natura organica e quella animica sono però presenti anche in noi. Su quella minerale si sorregge infatti il “conscio” (la coscienza e l’autocoscienza rappresentative), mentre tanto su quella organica (dormiente) che su quella animica (sognante) si sorregge il cosiddetto “inconscio”.
In noi, dunque, dove la natura muore, nascono la coscienza e l’autocoscienza, e dove la natura vive muoiono la coscienza e l’autocoscienza. Dove nascono la coscienza e l’autocoscienza nasce pure lo spirito. Nasce però – lo abbiamo detto – quale “immagine” o spirito morto.
Il frutto dell’autocoscienza morta dello spirito (dell’Io) è l’ego. Ed è appunto dall’ego che deve partire chiunque intenda gradualmente sviluppare, dell’Io, una coscienza viva (immaginativa), una coscienza qualitativa (ispirativa) e una coscienza spirituale (intuitiva): chiunque intenda insomma trasformare l’ego, rispettivamente, nel “Sé spirituale”, nello “Spirito vitale” e nell’”Uomo spirituale”.
Nello sviluppo della coscienza e dell’autocoscienza si danno dunque dei salti di qualità, ma si dà pure – è importantissimo sottolinearlo – una continuità. E qual è questa continuità? Quella dello stato di veglia. Di norma, godiamo infatti di questo stato finché ci serviamo dei sensi e dell’intelletto, ma lo perdiamo non appena abbandoniamo gli uni e l’altro per dormire e sognare.
In che cosa consiste, dunque, l’evoluzione spirituale? Nel condurre la coscienza e l’autocoscienza a sperimentare in stato di veglia quanto normalmente si sperimenta negli stati di sogno, di sonno e di morte.
Che cosa sperimentiamo infatti, ordinariamente, allo stato di veglia? Soltanto il “creato” (e noi stessi quali “creature”). Il “creare”, i “creanti” e il “Creatore” (dei “creanti”) ci limitiamo invece a sperimentarli – come abbiamo appena detto – sognando, dormendo e morendo.
Sperimentiamo e conosciamo perciò il “creato” in virtù dello spirito “creato”, e, in quanto tale, morto (come viene bene espresso dal participio passato). Mai potremmo dunque conoscere, con lo stesso spirito (profano), il “creare”, i “creanti” e il “Creatore” (dei “creanti”): per poter far questo è necessario infatti “santificare” lo spirito.
Ascoltate che cosa dice appunto Paolo: “Coloro infatti che vivono secondo la carne, nutrono pensieri per le cose della carne, mentre coloro che vivono secondo lo spirito, hanno il pensiero rivolto alle cose dello spirito” (Rm 8,5 – ndr).

Risposta a una domanda
Supponga di fare l’esercizio della concentrazione operando una serie di somme: ad esempio, 6+7=13; 13+8=21; 21+9=30; 30+10=40; e così via. All’inizio, per non sbagliare le somme, sarà attento soprattutto ai numeri. Poi sposterà la sua attenzione dai numeri ai segni “più” e “uguale”. Ora, se i numeri potrebbero rappresentare, che so, delle mele o delle pere, cioè delle cose concrete, quei segni rappresentano invece delle relazioni tra cose: delle relazioni che rivestono, in un caso, la qualità del “più” e, nell’altro, quella dell’”uguale”. Tanto l’uno che l’altro segno costituiscono, per così dire, un “tessuto connettivo” deputato a colmare la lacuna che divide (in ossequio al principio d’”identità”) ad esempio i numeri 6, 7 e 13.
Ho detto che il “più” e l’”uguale” costituiscono una sorta di “tessuto connettivo”, ma avrei potuto anche dire che sono il “filo” che collega i singoli numeri. Quello stesso invisibile “filo” che, non a caso, collega (o dovrebbe collegare) anche i nostri ragionamenti o i nostri discorsi.
Questo “filo” è quel “pensare inosservato” di cui parla Steiner, ne La filosofia della libertà.
Abbiamo appena visto che le relazioni possono rivestire qualità diverse, e quindi rimandare a realtà diverse. Quelle rappresentate dal segno “più” (+) e dal segno “meno” (-) rimandano infatti alla realtà inorganica (al corpo fisico): l’aggiungere o il sottrarre qualche barattolo a un mucchio di barattoli non muta infatti la natura del “mucchio” (dell’aggregato). Quella rappresentata dal segno “per” (x) rimanda invece alla realtà vivente (al corpo eterico), come potrebbe egregiamente esemplificare la proliferazione o per l’appunto la “moltiplicazione” cellulare (magari della morula). Quella rappresentata dal segno della “divisione” (:) rimanda infine alla realtà qualitativa (del corpo astrale), cui si deve, ad esempio, non solo l’arresto della mera proliferazione delle cellule (la gastrulazione), ma anche, e soprattutto, la loro differenziazione o specializzazione (massima – com’è noto – nella sfera cerebrale).
Detto questo, potremmo allora domandarci: ma che cos’è (in sé) o, per meglio dire, chi è la relazione? E’ l’Io, attivo sul piano eterico. Solo l’Io, mediante appunto il relazionare, può infatti fare del molteplice l’uno: ovvero, quell’uno che l’Io stesso è.

Dice Steiner: “Totalmente diverso dalle leggi naturali che si riferiscono a ciò che muore, è quello che si sperimenta quando si rivolge alla natura la volontà vivente che esiste dentro di noi in germe (…) Quel che mette in rapporto col mondo esterno per mezzo dei sensi (voglio dire dei 12 sensi nel loro insieme) non è di natura conoscitiva, ma volitiva. L’uomo moderno ha totalmente perduto la conoscenza di questo fatto. Perciò considera infantile quel che dice Platone, cioè che il nostro vedere proviene dal fatto che una specie di tentacoli si sprigioni dagli occhi e vada verso le cose. Questi tentacoli non sono naturalmente visibili con mezzi esterni, e se Platone ne era cosciente, ciò dimostra appunto ch’egli era penetrato nel mondo soprasensibile. Effettivamente, quando noi guardiamo gli oggetti, si compie, solo in maniera più sottile, un processo simile a quello che avviene quando afferriamo qualche cosa. Quando prendiamo in mano un pezzo di gesso, si tratta di un fatto fisico del tutto analogo a quello spirituale che si svolge quando scocchiamo dagli occhi le forze eteriche per afferrare un oggetto per mezzo della vista” (p. 47).

Lasciamo per ora da parte i “dodici sensi”, poiché avremo modo di parlarne in seguito. Osserviamo, piuttosto, che se il pensare è normalmente un mistero, il percepire (volere) lo è ancor di più. Del primo, infatti, abbiamo almeno, nella coscienza, l’”immagine” o lo spento riflesso, mentre, del secondo, non abbiamo assolutamente nulla. Tanto che qualcuno (se non ricordo male, il celebre psicoanalista freudiano Cesare Musatti) ha addirittura proposto di cancellare la parola “volontà” dai testi di psicologia.
Fatto sta che dovremmo imparare a distinguere la realtà (statica) dell’organo di senso da quella (dinamica o volitiva) dell’attività che per suo mezzo si esplica. Un conto, ad esempio, sono gli occhi, altra il vedere. Non sono gli occhi a vedere, ma è l’Io a vedere attraverso gli occhi.
Dice Steiner che l’uomo moderno “considera infantile” quel che afferma al riguardo Platone. Ma “infantile” si dimostra semmai l’uomo moderno allorché riferisce al piano fisico, e non a quello eterico, quanto detto da Platone.
Del resto, accade lo stesso con Ippocrate. Il suo asserire che l’isteria (da hystéra = “utero”) è prodotta da uno spostamento verso l’alto dell’utero, suscita grande ilarità nei moderni, che, come al solito, interpretano questa sua asserzione in chiave materiale.
In questi casi, sarebbe saggio ricordarsi di quanto dice il TAO-TÊ-CHING: “Il perfetto sapiente comprende la Via / E in essa saldamente si stabilisce / L’imperfetto sapiente comprende la Via / E ora la segue, ora la perde / Il sapiente d’infimo rango sentendo parlare della Via / Ride di essa / Se costui non ne ridesse la Via non sarebbe la Via”.
Anche Ippocrate, come Platone, “era penetrato nel mondo soprasensibile”. “Ippocrate” non è infatti un nome comune di persona, come, che so, Mario, Giovanni o Pasquale, bensì un nome “esoterico” o “iniziatico”. Veniva detto “Ippocrate” colui che aveva “potere [kràtos] sul cavallo [hìppos]”, in quanto il cavallo era simbolo o epitome dell’intero regno animale, e quindi dell’animalità.
Tornando al vedere, non è comunque raro che, in barba ai sapienti “d’infimo rango”, ci capiti di dire (sia lode al “genio del linguaggio”!) che “ci sentiamo osservati”, quasi avvertissimo che lo sguardo altrui, scrutandoci, effettivamente ci tocca o ci palpa.
Fatto sta che noi ci spingiamo con forza (con la forza della sim-patia) verso il mondo perché lo amiamo (come lo amano i bambini). Con la coscienza non ci troviamo però all’altezza di questa forza. Anzi, l’ostacoliamo, poiché a muovere la coscienza ordinaria – come sappiamo – è l’anti-patia.
Si viene così a creare una tragica cesura tra ciò che la nostra volontà realmente (ma inconsciamente) vuole, e ciò che noi pensiamo (coscientemente) di volere (ma che, in realtà, ci limitiamo soltanto a “desiderare” o “bramare”).
Che tale cesura sia invero “tragica” lo dimostra il fatto che è proprio da questa che Steiner prende le mosse ne I punti essenziali della questione sociale.
Ascoltate che cosa dice: “Potrebbe infatti essere che la tragedia che si manifesta oggi (1919 – nda) nei tentativi di soluzione della questione sociale abbia le sue radici proprio in un malinteso delle vere tendenze proletarie; in un malinteso anche da parte di coloro che da questa tendenza hanno derivato le loro concezioni, poiché non è affatto detto che l’uomo si formi sempre il giusto giudizio intorno a quel ch’egli stesso vuole (corsivo nostro). Possono perciò sembrare giustificate le seguenti domande: Che cosa vuole veramente il movimento proletario moderno? Corrisponde questo suo volere a ciò che comunemente si pensa in proposito da proletari e da non proletari? Si manifesta il vero aspetto della questione sociale in quel che molti pensano intorno ad essa? Oppure è necessario seguire una direttiva di pensiero del tutto diversa?”.
La sola cosa da fare (ricordate il Che fare? di Lenin) sarebbe dunque quella di capire ciò che il nostro volere davvero vuole. Per poterlo capire, tuttavia, sarebbe necessario cambiare il nostro modo di pensare, e quindi volere un pensare (cosciente) che sia vivo, forte e profondo quanto il volere (incosciente).
L’ordinario e algido pensare razionalistico, illuministico o intellettualistico (“debole” o “fallibile”), sguazza infatti oziosamente e sterilmente in superficie, poiché non ha, né la capacità, né la voglia di immergersi nella vita dell’anima (individuale e collettiva) per esplorarne i fondali.

Dice Steiner: “L’importante nelle impressioni sensorie dell’occhio e dell’orecchio, non è tanto l’elemento passivo quanto l’attivo, vale a dire ciò che portiamo volontariamente incontro alle cose (…) Il nostro organismo sensorio, che mostra proprio chiaramente nei sensi del tatto, del gusto, dell’olfatto, di essere collegato col sistema del ricambio, però anche con gli altri sensi, fino a quelli superiori, è legato al metabolismo, il quale è di natura volitiva” (p. 48).

Quando ci siamo occupati de La filosofia della libertà abbiamo infatti parlato dell’atto percettivo (dell’attenzione come di un prerequisito della percezione), e abbiamo detto, in precedenza, che si dovrebbe distinguere la realtà (statica) dell’organo di senso da quella (dinamica o volitiva) dell’attività che per suo mezzo si esplica (che per suo mezzo l’Io esplica).
Fatto sta che ogni percezione (ogni immagine percettiva) è il risultato ultimo dell’incontro o dello scontro dello stimolo (della “impressione sensoria”), scaturente dall’essere dell’oggetto, con l’atto percettivo, scaturente dall’essere del soggetto.
Non si dà infatti chiara percezione se tanto lo stimolo che l’atto percettivo non superano una determinata soglia, nel primo caso, d’intensità e, nel secondo, di attenzione.
Tutto questo, però, non viene quasi mai riconosciuto, poiché, del processo percettivo, si preferisce mettere in risalto – come dice Steiner – “l’elemento passivo”.
Non solo, ma si guarda anche a tale processo come a un “evento” che poco o nulla ha a che fare con un oggetto, quale fonte dello stimolo percettivo, e con un soggetto, quale fonte dell’atto percettivo.
La fisica dissolve infatti la realtà (una) dell’oggetto in uno sciame di “particelle elementari”, mentre la neurofisiologia (portandosi al guinzaglio la psicologia) dissolve la realtà (una) del soggetto in uno sciame di neuroni.
Tanto l’una che l’altra vedono insomma gli “alberi”, ma non la “foresta”.
Ciò è grave, poiché il mettere unilateralmente in primo piano “l’elemento passivo” comporta di necessità il lasciare indistinto, sullo sfondo, l’elemento volitivo: cioè a dire, l’elemento che, nella vita dell’anima, è più prossimo all’Io.
Come sapete, infatti, distinguiamo, nell’uomo, il corpo fisico, il corpo eterico, il corpo astrale e l’Io, e, nell’anima, il pensare, il sentire e il volere.
Ed è appunto il volere a situarsi tra l’Io e il corpo astrale, così come il sentire si situa tra il corpo astrale e il corpo eterico, e il pensare tra il corpo eterico e quello fisico.
Ma è venuta l’ora di lasciarci. Continueremo la prossima volta.

Roma, 13 gennaio 2000

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Di Lucio Russo
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