Antropologia (14)

A

Cominciamo subito a leggere.

Dice Steiner: “Che cosa avviene effettivamente nell’entità umana? Da un lato abbiamo la natura osseo-nervosa; dall’altro, la natura sanguigno-muscolare. Dalla cooperazione di entrambe vengono continuamente create a nuovo sostanze e forze. La terra è preservata dalla morte pel fatto che nell’uomo stesso vengono create a nuovo sostanze e forze (…) Fin d’ora vedete quanto sia erronea la concezione della conservazione della materia e dell’energia, come viene presentata di solito, perché essa è confutata da ciò che accade nell’interno della natura umana, e costituisce un ostacolo per una vera comprensione dell’entità umana. Solo quando si riconquisterà l’idea sintetica che è effettivamente impossibile che dal nulla nasca qualche cosa, ma che una cosa può venir trasformata in modo da perire mentre un’altra ne sorge, solo allora si sarà guadagnato qualcosa di fecondo nel campo delle scienze” (pp. 58-59).

Afferma Steiner che è “impossibile che dal nulla nasca qualche cosa”.
Ma molti non la pensano così. Ad esempio, secondo i cattolici, la creazione sarebbe avvenuta “ex nihilo” (mediante cioè il passaggio dal “non-essere” all’”essere”) e, secondo gli hegeliani, il divenire nascerebbe (quale “sintesi”) dal rapporto dialettico tra l’essere (la “tesi”) e il nulla (l’”antitesi”).
Tanto gli uni che gli altri fanno dunque nascere, dal “nulla”, qualcosa.
A suo tempo, ho fatto però notare (cfr. L’essere, il mondo delle Madri e la soglia, 1 dicembre 2003 – ndr) che il “nulla”, a ben vedere, è condannato a non potersi reggere su di sé: che è ossia condannato a essere sempre il nulla di qualcosa (di un essere determinato), e mai il nulla dell’essere (indeterminato).
Le cose, in concreto, stanno comunque così: a una coscienza come quella ordinaria, che identifica l’Io con il corpo fisico, un Io dis-identificato, e quindi indipendente dal corpo fisico, non può apparire in effetti che un “nulla”.
Mefistofele, infatti, vorrebbe far credere a Faust che l’essere o lo spirito (l’essere autocosciente) è un “nulla”, proprio perché non ha (come il concetto) realtà fisica (né, potremmo aggiungere, eterica o astrale).
Chiunque tuttavia riesca, in virtù della coscienza intuitiva, a “identificare” finalmente l’Io con l’Io (e non più, dunque, col corpo fisico, come fa la coscienza rappresentativa, o con il corpo eterico e il corpo astrale, come potrebbero rispettivamente fare la coscienza immaginativa e quella ispirativa), scoprirà che l’Io, proprio in quanto vuoto di fisicità (di etericità e di astralità), è colmo o saturo di essere (o di spirito).
L’esperienza del vero Io non è dunque l’esperienza del “vuoto” o del “nulla”, bensì quella della pienezza o del turgore dell’essere (o dello spirito).
Afferma appunto Scaligero (nel Dell’amore immortalenda): “L’amore è l’essere dello spirito”; “L’essere dell’uomo, nell’essere, è amore”.
Ben si comprende, a quel punto, che ogni cosa, nascendo, proviene dall’essere, che ogni cosa, morendo, ritorna all’essere, e che ogni cosa, per mezzo appunto del nascere e del morire, diviene e si rinnova.

Dice Steiner: “Trovate come un assioma, nei trattati di fisica, la legge dell’impenetrabilità dei corpi: cioè che nello spazio occupato da un corpo non può, al tempo stesso, prendere posto un altro. Ciò viene enunciato come una proprietà generale dei corpi. Invece si dovrebbe dire soltanto: quei corpi o quegli esseri che sono tali da non permettere che nello spazio dov’essi sono, possano trovarsi al tempo stesso altri esseri di uguale natura, sono “impenetrabili”. I nostri concetti dovrebbero essere adoperati solamente per separare una data sfera da un’altra; dovrebbero formulare soltanto dei postulati, e non dare definizioni che abbiano la pretesa di essere universali” (p. 59).

Qual è la differenza tra l’enunciato che si trova nei “trattati di fisica” e quello formulato da Steiner? E’ semplice: che alla luce del primo tutti i corpi devono essere giudicati “impenetrabili”, mentre alla luce del secondo alcuni (quelli fisici) vanno giudicati “impenetrabili”, altri “penetrabili” (da corpi di “uguale natura”).
L’enunciato di Steiner non nega dunque la validità di quello dei “trattati di fisica” (in quanto lo comprende), bensì nega la sua pretesa di avere valore generale o universale.
Che cosa significa, quindi, che “i nostri concetti dovrebbero essere adoperati solamente per separare una data sfera da un’altra”? Che il concetto di “impenetrabilità”, per restare in tema, vale per una sfera di realtà (quella materiale), mentre quello di “penetrabilità” vale per un’altra sfera di realtà (quella animico-spirituale), e che non si può perciò, dando “definizioni che abbiano la pretesa di essere universali”, ritenere valido un solo concetto per entrambe le sfere.

Dice Steiner: “Così non si dovrebbe formulare una “legge” riguardo alla conservazione delle sostanze e delle forze, bensì ricercare per quali entità questa legge ha un’importanza. Il secolo XIX ebbe appunto la tendenza a stabilire una legge dichiarandola valida per tutti i campi. Invece noi dovremo adoperare la nostra vita animica per accostarci alle cose ed osservare quali esperienze esse suscitano in noi” (pp. 59-60).

Da che cosa dovremmo essere portati verso la scienza dello spirito? E’ presto detto: dall’amore per la realtà. Non dovrebbe essere infatti una “concezione del mondo” a guidarci verso la realtà, bensì dovrebbe essere la realtà a guidarci verso una “concezione del mondo”.
Per questo, mi capita talvolta di dire che chi ama la realtà più di se stesso (o di ciò con cui si è identificato) giungerà prima o poi all’antroposofia, e che chi non giunge all’antroposofia ama appunto se stesso (o ciò con cui si è identificato) più della realtà.
Non si deve pertanto “partire – come si suol dire – da un principio” (da questo o da quell’altro “principio”), bensì dalla realtà, e giungere così ai suoi molteplici “principi” (alle molteplici idee o ai molteplici lógoi che la governano).
Dice appunto Scaligero: “Le verità sono tante, la realtà è una”. Guai dunque a chi ama l’una o l’altra verità più della realtà, poiché sono proprio tali parziali verità, amate più della realtà, a possederci, e a renderci così dogmatici, intolleranti o fanatici.
Ma per quale ragione si è portati ad amare delle singole verità più della realtà? Per la semplice ragione che queste servono, a mo’ di grucce, a dare sicurezza a quanti non hanno ancora imparato a reggersi sulle proprie gambe (sul proprio Io).
Dimostrare a qualcuno che il valore delle idee, delle verità, dei principi o delle leggi cui si uniforma non è “assoluto”, ma “relativo”, equivale infatti a togliergli la terra sotto i piedi.
Fatto sta che ad avere valore “assoluto” – come abbiamo altre volte sottolineato – non sono le idee, le verità, i principi o le leggi, bensì è l’Io (quell’Io inabitato dal Logos, che non è venuto per abolire la “Legge”, ma per darle appunto “compimento”).
Come si diventa dunque “assolutisti”? Assolutizzando quanto ha valore relativo (l’idea); e “relativisti”? Relativizzando quanto ha valore assoluto (l’Io).
Abbiamo finito la terza conferenza. Passiamo alla quarta.

Dice Steiner: “L’educazione e l’insegnamento dell’avvenire dovranno assegnare un valore tutto speciale alla formazione della volontà e del sentimento (…) Solo quando si conosce davvero la volontà, è possibile conoscere pure, almeno in parte, gli altri moti dell’anima, i sentimenti. Che cosa è veramente un sentimento? Un sentimento è molto affine alla volontà. Vorrei dire: la volontà non è che il sentimento attuato, e il sentimento è la volontà trattenuta. La volontà che ancora non si estrinseca del tutto, che resta trattenuta nell’anima, è il sentimento; il sentimento è la volontà attutita. Perciò si potrà comprendere la natura del sentimento solo dopo che si sarà afferrata la natura della volontà” (p. 61).

E’ importante notare che ci si serve qui del pensiero non per dare una “definizione” del sentimento, ma per orientarne e guidarne l’osservazione.
Come vedete, ci troviamo sempre in un ambito dinamico: cioè in presenza di giochi di forze. Dice Steiner che il “sentimento è molto affine alla volontà”; ma si potrebbe anche dire che il sentimento e la volontà sono la manifestazione, a due livelli diversi, di una stessa forza. Il primo è infatti una volontà che si realizza “trattenendosi” all’interno (dell’anima), mentre la seconda è un sentimento che si realizza “attuandosi” all’esterno (dell’anima).
Ricordiamoci che, nell’anima, agiscono il pensare, il sentite e il volere, ma che il pensare è fortemente influenzato, in alto, dall’Io (dallo spirito), e che il volere è fortemente influenzato, in basso, dal corpo (dagli istinti).
L’anima, dunque, è soprattutto “anima” al centro, laddove agisce appunto il sentire.
Non dimentichiamo, inoltre, che tutto nasce dall’Io. Ho fatto spesso, al riguardo, l’esempio del Sole. Nel Sole, luce e calore sono inscindibili; nell’uomo, invece, vi è un’organizzazione (quella neuro-sensoriale) che accoglie la luce e respinge il calore, e un’altra (quella metabolica e degli arti) che, di contro, accoglie il calore e respinge la luce. E’ nella sua organizzazione mediana, che sta tra quella della luce senza calore e quella del calore senza luce, che prendono quindi forma i sentimenti.
Riassumendo, potremmo perciò dire: la volontà, quale immediata espressione dell’Io, muore nel pensare ordinario (nel rappresentare) della sfera cefalica; vive imbrigliata e interiorizzata nel sentire della sfera ritmica; e vive sbrigliata ed esteriorizzata nel volere della sfera metabolica.

Dice Steiner: “Quando consideriamo l’uomo nella sua totalità, dobbiamo riconoscere in lui corpo, anima e spirito. Anzitutto nasce il corpo, almeno nei suoi elementi più grossolani (…) L’elemento animico, nei suoi caratteri principali, è ciò che scende dall’esistenza prenatale a congiungersi col corpo. Ma lo spirito esiste solo in germe nell’uomo odierno; nell’uomo di un lontano avvenire le cose saranno diverse” (p. 62).

Abbiamo imparato, studiando La scienza occulta, che nelle fasi evolutive dell’”antico-Saturno”, dell’”antico-Sole”, dell’”antica-Luna” e della Terra sono stati deposti nell’uomo, rispettivamente, i germi del corpo fisico, del corpo eterico, del corpo astrale e dell’Io. C’è stata dunque un’evoluzione che è partita dal corpo fisico ed è arrivata all’Io.
Questo punto d’arrivo è però, al tempo stesso, un punto di partenza: ovvero, il punto di partenza dell’evoluzione, libera e cosciente, di quell’Io (di quello spirito) che esiste appunto “solo in germe nell’uomo odierno” (solo come ego), e che “nell’uomo di un lontano avvenire” esisterà invece come “Uomo spirituale” (dopo essere esistito, ovviamente, come “Sé spirituale” e “Spirito vitale”).
Pensiamo ancora una volta al Prologo del Vangelo di Giovanni: “Ma a quanti lo accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede il potere di diventare figli di Dio; i quali, non dal sangue, né da voler di carne, né da voler dell’uomo, ma da Dio sono nati”.
Dal momento che Dio si rivolge a Mosé con queste parole: “Così dirai ai figli d’Israele: “Io-sono mi ha inviato da voi””, potremmo anche dire, però, che “diventare figli di Dio”, o nascere “da Dio”, equivale a diventare figli dell’Io, o a nascere dall’Io (da quell’Io – non ci stancheremo mai di ripeterlo – in cui vive il Logos o, per l’appunto, il “Figlio dell’uomo”).
Quella partita dal corpo fisico e arrivata all’Io (all’ego) è stata dunque l’evoluzione (alterata dal “peccato originale”) del “figlio di Dio” o del “vecchio Adamo”; quella che parte dall’Io (dall’ego) per arrivare, in un “lontano avvenire”, all’”Uomo spirituale”, è invece l’evoluzione del “Figlio dell’uomo” o del “nuovo Adamo”.
Quest’ultimo verrà infatti alla luce quando l’Io, facendo leva sulla forza del Logos che lo inabita, umanizzerà e redimerà, in qualità di “Sè spirituale”, il proprio corpo astrale, in qualità di “Spirito vitale”, il proprio corpo eterico, e in qualità di “Uomo spirituale” il proprio corpo fisico (la “resurrezione della carne”).

Risposta a una domanda
L’evoluzione partita dal corpo fisico e arrivata all’Io è stata un’evoluzione che, per un verso, ha allontanato l’uomo dallo spirito, ma che, per l’altro, lo ha portato alla coscienza (sensibile), all’autocoscienza (egoica) e alla libertà (“da”).
Pensi, ad esempio, a quel realismo ingenuo, che viene anche detto “percezionismo”. Mena vanto – come sa – di fondarsi interamente sull’intelletto e sulla percezione dei sensi. Ma è forse suo merito il poter disporre di un intelletto e di una percezione dei sensi? Niente affatto! E’ quindi in realtà un ozioso che vive soltanto di rendita, per di più utilizzando e sfruttando tali doni dello spirito per glorificare se stesso, e non appunto lo spirito.
Sarebbe bene meditare, al riguardo, la cosiddetta “parabola dei talenti” e, in specie, le parole con cui si conclude: “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 25, 29-30 – nda).

Dice Steiner: “Osserviamo le vespe, le api, anche i cosiddetti animali inferiori, e vedremo, dalla forma dei loro corpi fisici, come in essi sia radicato qualcosa che nel corpo fisico umano non esiste con la stessa forza ed estensione. E’ qui in giuoco ciò che abbracciamo nel concetto complessivo di istinto. Sicché, in realtà, possiamo studiare l’istinto soltanto se lo consideriamo in connessione con la forma del corpo fisico (…) Se vogliamo studiare la volontà, dobbiamo cercarla anzitutto nel dominio dell’istinto, e renderci conto che lo troviamo esplicato nelle forme dei corpi fisici dei diversi animali. Se volessimo disegnare le forme principali dei singoli animali, avremmo il disegno dei diversi generi di istinti (…) Nel nostro corpo fisico vive, configurandolo e compenetrandolo, il corpo eterico che per i sensi esterni è invisibile, soprasensibile. Studiando la natura della volontà, scopriamo che il corpo eterico, compenetrando il corpo fisico, compenetra pure ciò che in questo si estrinseca come istinto. Allora l’istinto diventa inclinazione. Nel corpo fisico la volontà è istinto; ma non appena il corpo eterico si impadronisce dell’istinto, la volontà diventa inclinazione” (pp 64-65).

Se la volontà – come ha detto Steiner – “è una croce per gli psicologi”, l’istinto, l’inclinazione e (come vedremo) la brama lo sono ovviamente altrettanto.
Freud, ad esempio, lascia da parte l’istinto (Instinkt), e basa la sua teoria sull’impulso (Trieb), quale generica “forza propulsiva indeterminata” (quale forza che ha perciò poco a che fare con quella dell’impulso di cui parleremo più avanti), e Jung confessa, candidamente, di non sapere affatto che cosa sia.

Ascoltate appunto ciò che scrive: “Sono ben lungi dal sapere che cosa sia lo spirito per se stesso, ed altrettanto lontano dal sapere che cosa siano gli istinti. L’uno è per me un mistero tanto quanto gli altri” (C.G.Jung: Freud e Jung. Contrasti in Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna – Einaudi, Torino 1969 – ndr).
Chiunque sia invece in grado di sperimentare la natura della volontà, avrà chiaro che questa – come dice Steiner – si manifesta sul piano fisico come “istinto” e sul piano eterico come “inclinazione”.
In termini goethiani, potremmo anche dire che l’inclinazione (più interiore) è una “metamorfosi ascendente” dell’istinto (più esteriore). Si tratta certo di differenze sottili, ma non per questo trascurabili (se si vuole fare davvero scienza, e non confondere ogni cosa nel calderone della cosiddetta “vita emotiva”). Il genio del linguaggio, ad esempio, ci fa dire che l’istinto ci “guida”, mentre l’inclinazione si “asseconda” (“astra inclinant, non determinant”). Il che conferma che sentiamo più intima (più vicina all’anima) l’inclinazione che non l’istinto (vincolato al corpo).
Trattandosi della manifestazione della volontà nel corpo eterico, dovremmo parlare d’inclinazione soprattutto quando ci riferiamo ai temperamenti. Il melanconico, il sanguigno, il collerico e il flemmatico altro non sono infatti che delle (durevoli) “inclinazioni” ad agire e re-agire, nei confronti del mondo e di se stessi, in un particolare modo o “stile”, o secondo un particolare modello (prevalentemente dinamico) di comportamento.

Roma, 10 febbraio 2000

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Di Lucio Russo
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