Giovedì scorso, abbiamo concluso il nostro incontro parlando dell’istinto e dell’inclinazione come di due livelli di manifestazione della volontà: il primo fisico; il secondo eterico.
Consideriamo adesso il terzo: quello astrale.
Dice Steiner: “L’uomo possiede inoltre il corpo astrale o corpo senziente, che è ancora più interiore degli altri due. Esso, a sua volta, afferra l’inclinazione, e allora avviene non solo un’interiorizzazione, ma un fatto di coscienza: istinto e inclinazione vengono sollevati alla coscienza, e ne nasce la brama, il desiderio. Questo si trova ancora nell’animale, come vi si trova l’inclinazione, poiché l’animale possiede tutti e tre questi corpi: fisico, eterico e astrale. Ma la brama va già considerata come qualcosa di molto interiore. Dell’inclinazione si parla come di qualcosa che si manifesta unitariamente dalla nascita fino alla più tarda età, mentre per la brama si parla di qualcosa che si rafforza con l’anima, che si manifesta in singole occasioni. Una brama non è qualcosa di caratterologico, che abbia bisogno di essere attaccato all’anima, bensì sorge e scompare; con ciò dimostra di essere più propria all’anima che non lo sia una semplice inclinazione” (p. 66).
In realtà, ci troviamo all’interno del corpo senziente, e non ancora dell’anima senziente. Si parla quindi di “anima” (di “un fatto di coscienza”) solo perché il corpo astrale – come spiega Steiner in Teosofia – è unità o sintesi di corpo senziente e anima senziente (questa è inserita infatti in quello come la spada nel fodero o la mano nel guanto).
La volontà si dà dunque come istinto nel corpo fisico, come inclinazione nel corpo eterico e come brama nel corpo senziente.
Ma lasciamo adesso il corpo, e vediamo come la volontà si dà nell’anima (nell’anima senziente, nell’anima razionale o affettiva e nell’anima cosciente).
Dice Steiner: “Che cosa accade nell’uomo (mentre non può più accadere nell’animale) quando egli accoglie nel suo io, vale a dire nelle sue tre anime (senziente, razionale e cosciente) ciò che vive nella sua corporeità come istinto, inclinazione e brama? Che cosa ne risulta? Qui non possiamo più distinguere altrettanto nettamente come per la corporeità, poiché nell’anima, e specialmente in quella dell’uomo odierno, tutto è più o meno mescolato e confuso (…) In taluni psicologi si trovano ancora mantenute le antiche rigorose demarcazioni tra volere, sentire e pensare; altri, specialmente coloro che si ispirano allo Herbart (Johann Friedrich Herbart, 1776-1841 – nda), accentuano più il lato del pensiero; altri (quelli della scuola del Wundt) (Wilhelm Maximilian Wundt, 1832-1920 – nda) piuttosto il lato volitivo. Comunque manca, in genere, una chiara consapevolezza di come debba veramente farsi questa divisione dell’anima. Ciò deriva dal fatto che, nella vita pratica, l’io compenetra effettivamente tutte le facoltà animiche e che, nell’uomo attuale, la distinzione fra le tre non appare chiara e netta nemmeno nella vita pratica. Perciò nemmeno il linguaggio dispone di parole adeguate per distinguere ciò che nell’anima è di natura volitiva – istinto, inclinazione, brama – quando sia afferrato dall’io. In genere, lo si chiama “motivo”; sicché quando parliamo degli impulsi volitivi che si manifestano nell’anima vera e propria, nell’io, parliamo di motivo, e allora sappiamo che il motivo è proprio dell’uomo: gli animali possono avere brame, ma non hanno motivi” (pp. 66-67).
Ricorderete che, studiando La filosofia della libertà, abbiamo già trattato del “motivo”, concludendo che ci sono dei motivi (detti lì “molle”) che risalgono in modo più o meno cosciente e spontaneo dalla natura e altri (detti lì “scopi”) che discendono in modo più o meno cosciente e coercitivo dalla cultura.
Per l’anima – dice Steiner – “non possiamo più distinguere altrettanto nettamente come per la corporeità, poiché nell’anima, e specialmente in quella dell’uomo odierno, tutto è più o meno mescolato e confuso”.
Tenendo conto, tuttavia, di quanto affermato ne La filosofia della libertà, potremmo forse chiamare “impulsi” (da pellěre = spingere) i “motivi” che si danno nell’anima senziente (in cui prevale l’attività dormiente del volere); “moventi” (da movēre = muovere) quelli che si danno nell’anima razionale o affettiva (in cui prevale l’attività sognante del sentire); e “scopi” (da sképtesthai = guardare) quelli che si danno nell’anima cosciente (in cui prevale l’attività vigile del pensare o del rappresentare).
David Shapiro, ad esempio, nel suo Stili nevrotici (cfr. 5° incontro – ndr), illustra appunto uno “stile impulsivo”, spiegando che quella “impulsiva” è un’azione (naturale) che “non è sentita come completamente deliberata o pienamente voluta”, e che i tipi “impulsivi” sono poveri, sia di “implicazioni affettive durevoli”, sia di “interessi attivi, di scopi, mete o valori, al di là delle immediate occupazioni della vita quotidiana”: ossia poveri – diremmo noi – tanto dei “motivi” da cui è “mossa” (naturalmente) l’anima razionale o affettiva, quanto di quelli cui “guarda” (idealmente) l’anima cosciente (in forma appunto di “scopi”, “mete” o “valori”).
Dunque, ricapitolando, la volontà si presenta nel corpo come istinto, inclinazione e brama, e, nell’anima, come motivo (come impulso, movente e scopo). Vediamo ora come si presenta nello spirito.
Dice Steiner: “Chi osserva l’uomo dal punto di vista della sua natura volitiva, dirà: quando io so quali sono i motivi di un uomo, posso dire di conoscerlo. Eppure non completamente! Perché, mentre l’uomo sviluppa dei motivi, sotto sotto risuona sommessamente qualche altra cosa, e questa va presa molto seriamente in considerazione. Vi prego ora di distinguere molto esattamente ciò che intendo dire parlando di questo sommesso risuonare interiore ch’è presente nell’impulso volitivo, da ciò che in esso ha invece a che fare con la rappresentazione. Non voglio ora parlare di quest’ultima. Non è questo che intendo; bensì voglio parlare di quella specie di eco che risuona con un’impronta di volontà. Prima vi è una cosa che, anche quando abbiamo dei motivi, agisce sempre ancora nella volontà: l’anelito (…) Compiamo forse un’azione nella nostra vita, senza poi sentire che avremmo potuto farla assai meglio? Sarebbe assai triste d’essere compiutamente soddisfatti di una nostra azione, poiché non esiste cosa che non sarebbe stato possibile far meglio di come l’abbiamo fatta (…) Molti errori vengono commessi in questo campo. Gli uomini danno una grande importanza al pentimento quando hanno compiuto un’azione non buona. Ma il pentimento è per lo più frutto di egoismo. Ci si pente perché si vorrebbe aver fatto meglio, per essere migliori noi stessi. Questo è un sentimento egoistico. Non lo è invece la contrizione di chi si propone di far meglio un’altra volta la medesima azione. Più alto assai del semplice pentimento è il proposito, lo sforzo di far meglio in avvenire. In tale proposito di compiere l’azione in modo migliore, ci accompagna l’anelito che abbiamo detto. Ora possiamo dunque chiederci: Che cos’è veramente questo desiderio che risuona in noi come anelito? Per chi sia veramente in grado di osservare l’anima umana, questo è il primo elemento fra tutti quelli che sussistono in noi dopo la morte. L’anelito a far meglio, nella forma in cui l’ho mostrato ora, è un residuo che portiamo con noi dopo la morte, e che appartiene già al sé spirituale” (pp. 67-68).
Sapete che Platone fa nascere l’essere femminile e l’essere maschile dalla scissione dell’androgino originario.
Ma che cosa rappresenta essenzialmente l’androgino? La sintesi degli opposti, l’uno o l’Io.
La scissione dell’androgino è dunque la scissione di un uno (di un Io) che diventa, nel corpo e nell’anima, un due: ad esempio, uno yin e uno yang, un rappresentare e un volere, un apparato sanguigno-muscolare e un apparato osseo-nervoso.
Quando mai, d’altronde, si sarebbe concepito il “dualismo” se le cose non stessero così? Quando mai si sarebbe cioè divisa, come ha fatto Cartesio, la res cogitans dalla res extensa, o parlato, come ha fatto Freud, di un “misterioso salto dalla mente al corpo”?
Che cosa cerca perciò l’Io? Cerca se stesso. Si cerca nel mondo e negli altri mediante appunto la volontà. Aneliamo a tornare a noi stessi, a ritrovarci e, per questo siamo sempre irrequieti e non troviamo mai pace. Ma l’Io non ritroverà mai l’Io (e, attraverso l’Io, il Logos) se la sua ricerca non verrà guidata dal pensiero. La volontà fornisce infatti la forza, ma è il pensiero a dover fornire la forma (l’idea).
E’ tragico, dunque, non sentirsi insoddisfatti o infelici nella presente condizione umana, ma è altrettanto tragico sentirsi soddisfatti o felici per qualunque cosa sia altra dall’Io. Dice infatti il Cristo: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace; ve la do, non come la dà il mondo”; oppure: “Chi beve di quest’acqua tornerà ad avere sete; chi invece berrà l’acqua che gli darò io, non avrà più sete in eterno”.
Abbiamo detto che “l’Io cerca l’Io”; avremmo potuto anche dire, però, che “l’Io attrae l’Io”. E’ questa la radice segreta di quell’anelito che – come dice Steiner – risuona sommessamente nell’interiorità (e che, dopo la morte, ci condurrà a una nuova vita terrena).
“Il pentimento – dice sempre Steiner – è per lo più frutto di egoismo”.
Il pentimento è infatti sano quando si limita a esprimere la coscienza dell’errore, poiché è solo da questa che può nascere il proposito (“di far meglio in avvenire”). Indulgere invece, da pentiti, nell’automortificazione, può essere uno dei tanti stratagemmi messi in atto (più o meno scientemente) dall’ego per non cambiare se stesso, e per non far posto all’Io.
Ogni pentimento che non si limiti a esprimere la coscienza dell’errore, non è, psicodinamicamente, che una “ferita narcisistica”.
Ho detto, altre volte, che come esiste il “delirio di potenza” (espresso, sul piano noetico, dal dogmatismo) così esiste il “delirio d’impotenza” (espresso, sul piano noetico, dall’agnosticismo), e ch’è proprio questo a farci “piangere addosso”, a farci commiserare la condizione umana, invece di spingerci a fare del nostro meglio per restituirle la coscienza del rango, della dignità e della forza che le sono propri.
Fatto sta che nel riconoscimento dell’errore, vive e opera la verità: quella verità che sempre ci soccorrerà se avremo il coraggio conoscitivo di non “accontentarci”, e di voler andare fino in fondo. Dice il proverbio: “Sbagliando s’impara”. E’ così. Hanno paura infatti di sbagliare soltanto coloro che, non amando a sufficienza la verità, non sanno imparare dai propri errori, né modificare se stessi.
L’uomo anela insomma all’uomo o alla propria umanità, e lungo il cammino che vi conduce deve misurarsi necessariamente con l’errore. Com’è dunque un peccato sbagliare senza accorgersi di avere sbagliato, così è un peccato rimanere fermi o arrestarsi per paura di sbagliare.
Dice Steiner: “Qui opera molto fortemente il cosiddetto subcosciente dell’uomo. Nella nostra coscienza solita non avremo sempre la chiara rappresentazione di voler far meglio in avvenire un’azione oggi da noi compiuta. Ma vive in noi come una seconda persona, che sviluppa sempre (non nella rappresentazione, ma nella volontà) una chiara immagine di come, se il caso si presentasse, compiremmo meglio quella stessa azione. Non sottovalutate una tale nozione né, in genere, l’idea di questa seconda persona che vive in noi, e di cui tanto si parla oggi nella psicanalisi, nella psicologia analitica” (p. 69).
Qual è dunque la differenza tra l’anelito e il proposito? Che il primo è un proposito indeterminato, mentre il secondo è un anelito determinato (“non – come precisa Steiner – nella rappresentazione, ma nella volontà”).
Abbiamo parlato, a suo tempo, del volere nel pensare, mostrando che la qualità (morta) del volere operante nel rappresentare è diversa, ad esempio, dalla qualità (viva) del volere operante nell’immaginare (della coscienza immaginativa).
Raccomanda Steiner di non sottovalutare la “nozione” del “cosiddetto” subcosciente. Freud e Jung non l’hanno sottovalutata (l’hanno semmai sopravvalutata), ma si sono comunque persi.
E si sono persi perché hanno creduto di poter penetrare nel subcosciente, in cui opera il vivo pensare nel volere, con la coscienza in cui opera il morto volere nel pensare.
Prendiamo, ad esempio, gli archetipi del Puer e del Senex di cui parla Jung. Gli effetti (psichici) del primo hanno una determinata qualità; quelli del secondo, la qualità opposta. Si tratta dunque di forze governate da forme (da leggi) diverse, e quindi di manifestazioni del pensare nel volere (è infatti il pensare – come sappiamo – a dare forma alla forza).
E com’è possibile, allora, afferrare lo straordinario e potente pensare nel volere con il nostro ordinario e impotente volere nel pensare? (Considerate che laddove Jung crede di afferrare le forze del Puer e del Senex, la scienza dello spirito afferra invece, rispettivamente, quelle luciferiche e arimaniche).
Certo, a Freud e a Jung va riconosciuto l’indubbio merito di aver posto, sul piano scientifico, il problema dell’inconscio. Un conto però è porlo, altro risolverlo. E mai si riuscirà a portare alla luce ciò che veramente vive nell’inconscio finché ci si continuerà a servire dell’ordinario intelletto (o, in sua vece, di una forma mentis più o meno misticheggiante).
“Vive in noi – dice ancora Steiner – come una seconda persona”. Ma noi dovremmo penetrare nell’inconscio proprio con l’intento di riunire questa “seconda persona” (il non-ego) alla “prima” (all’ego), poiché l’Io può venire alla luce soltanto in virtù della morte e della ri-nascita dell’ego (appunto quale Io), e della morte e della ri-nascita del non-ego (appunto quale Io).
Dice Steiner: “In ciascuno di noi esiste, sotto sotto, quasi sotterraneamente, “l’altro”. E in questo “altro” vive anche “l’uomo migliore”, quello che per ogni azione compiuta forma sempre l’inconscio, il subconscio proponimento di farla meglio la prossima volta. Solo più tardi, quando l’anima sarà liberata dal corpo, dal proposito che abbiamo detto sorge la risoluzione. Il proposito resta del tutto in germe dentro l’anima; più tardi segue la risoluzione. E la risoluzione risiede nell’uomo-spirito, come il proposito nello spirito vitale, e come il puro anelito nel sé spirituale” (p. 70).
L’“uomo migliore” è l’Io: quell’Io che attende, in ciascuno di noi, di venire alla luce come “Sé spirituale”, come “Spirito vitale” e come “Uomo spirituale”. I primi due si fanno sommessamente sentire, durante la vita, grazie all’anelito e al proposito, mentre il terzo interviene, dopo la morte, per realizzare ciò cui abbiamo anelato e ciò che ci siamo riproposti.
Durante la vita, potremmo aggiungere, la forza della risoluzione si fa sentire, nella sfera del pensiero, come persuasione e, nella sfera della volontà, come decisione. E’ importante ricordarlo, perché si tratta, per così dire, di una forza spirituale “in via di estinzione” (da non confondere con quella naturale dei tipi cosiddetti “volitivi” o “decisionisti”, che altro non sono, per lo più, che dei “collerici” o “biliari”).
Carlo Michelstaedter (1887-1910), al più importante dei suoi scritti (alla sua tesi di laurea), ha dato appunto questo titolo: La persuasione e la rettorica (Adelphi, Milano 1995 – ndr). Ebbene, quanti sono oggi i “persuasi”: cioè a dire, quelli che hanno maturato la loro “persuasione” alla luce e al calore della conoscenza? E quanti invece i “retori”: cioè a dire, quelli che non sono persuasi di niente, e che tentano affannosamente di nascondere il loro vuoto interiore con la verbosità, la dialettica o il fanatismo?
Si è fatto tardi. Continueremo la prossima settimana.
Roma, 17 febbraio 2000