26/01/2008

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Non si fatica normalmente a riconoscere che una cosa è, poniamo, la sedia, altra la coscienza della sedia, in quanto la prima esiste fuori di noi, mentre la seconda esiste dentro di noi (“La nostra esistenza intellettuale – osserva Pasquale Galluppi – incomincia colla percezione del me, che percepisce un fuor di me”).
Si fatica invece a riconoscere che una cosa è l’Io, altra la coscienza dell’Io, poiché tanto l’uno che l’altra esistono dentro di noi (nel me).
Proprio questa è però la differenza tra la coscienza e l’autocoscienza: in virtù della prima, il soggetto (l’Io) prende coscienza dell’oggetto; in virtù della seconda, prende invece coscienza di sé.
Come può esistere dunque l’oggetto, ma non la coscienza dell’oggetto, così può esistere l’Io, ma non la coscienza dell’Io, vuoi perché deve ancora svilupparsi o maturare, vuoi perché il mezzo deputato a sorreggerla è guasto o deteriorato.
E qual è il mezzo (lo specchio) deputato a sorreggere l’ordinaria coscienza sensibile e l’ordinaria autocoscienza egoica? E’ presto detto: il corpo fisico.
Chi conosce la scienza dello spirito queste cose le sa. Non le sanno invece – come purtroppo molti altri – Renato Farina e Massimiliano Parente.
Scrive infatti Farina, nel suo Maestri (Piemme, Casale Monferrato 2007): “Una delle disgrazie più micidiali della nostra cultura è di aver dimenticato la verità originaria: che siamo il nostro corpo”; e Parente (recensendo il testo) così gli risponde: “Anche tu pensi che “noi siamo il nostro corpo”, e pertanto se Don Giussani, uno dei tuoi maestri così amorosamente ritratti e intervistati nel libro, afferma (sorseggiando Barolo): “Il mio corpo si disfa, lo sento dissolversi, ma mentre avanza questa putrefazione il mio io si fa più chiaro”, tu puoi credere sia un segno dell’immortalità dell’anima, oppure pensare, come me, che Luigi Giussani abbia avuto un gran culo a scampare l’Alzheimer, l’arteriosclerosi, l’ictus, la schizofrenia, l’epilessia, l’apoplessia, la neoplasia, l’aneurisma, e tutte quelle catastrofi, come in generale la vecchiaia, che intaccando il corpo intaccano e disintegrano senza rimedio anche l’io e quanto del nostro io vorremmo salvare con le nostre belle favole” (Libero, 6 gennaio 2008).

P.S.
Speriamo che qualcuno spieghi a Parente che come esistono delle “belle favole” (luciferiche), miranti a salvare qualcosa del nostro io, così esistono delle brutte favole (arimaniche), miranti a intaccarlo e disintegrarlo “senza rimedio”.

Di Lucio Russo
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