Antropologia (16)

A

Parlando, nei nostri ultimi incontri, dell’istinto, dell’inclinazione, della brama, del motivo (che abbiamo proposto di suddividere in “impulso”, “movente” e “scopo”), dell’anelito, del proposito e della risoluzione, altro non abbiamo fatto, in definitiva, che parlare della volontà.
Ricorderete che, studiando La filosofia della libertà, dicemmo che il realismo “ingenuo” è il realismo delle “cose”, mentre il realismo “metafisico” è il realismo della “forza” o dell’”energia”, e quindi, a ben vedere, della volontà: vale a dire, di una realtà in sé sconosciuta.
Conosciamo, ad esempio, l’energia termica e l’energia elettrica e sappiamo che l’una può convertirsi o trasformarsi nell’altra; abbiamo anche scoperto, grazie a Einstein, l’equivalenza tra massa ed energia, ma che cosa sia essenzialmente l’energia rimane un mistero.
Così come rimane un mistero che cosa sia essenzialmente quella forza della volontà che conosciamo solo indirettamente (e a-posteriori) attraverso la rappresentazione dell’azione: ossia, del modo in cui tale forza si è attuata o determinata.
Schopenhauer sostiene, ad esempio, che la “cosa in sé” di Kant è appunto la “Volontà” (maiuscola). Essendo però la volontà una “forza” e non una “cosa”, parlarne come di una ”cosa” vuol dire parlare non della volontà, ma della sua “rappresentazione”. (Ignaro di ciò, Schopenhauer ha intitolato la sua opera più importante: Il mondo come volontà e rappresentazione, mentre avrebbe dovuto intitolarla: Il mondo come rappresentazione della volontà e rappresentazione o, più semplicemente: Il mondo come rappresentazione).
Certo, per poter parlare della volontà, e non semplicemente della sua rappresentazione, occorre portarsi al di là dell’astratto orizzonte speculativo e cominciare a “sporcarsi le mani” con la pratica o l’esercizio interiore.
Come la scienza naturale osserva e studia (nell’ordine) il mondo sensibile, così la scienza dello spirito studia e osserva (nell’ordine) il mondo sovrasensibile; e in tanto prima lo studia e poi l’osserva, in quanto non può servirsi dei medesimi organi di senso di cui si serve, trovandoli già pronti, la scienza naturale, ma deve svilupparne altri, extrasensibili, per mezzo appunto dello studio e dell’esercizio interiore.
A che cosa miriamo, ad esempio, praticando l’esercizio della “concentrazione”? A sviluppare, per così dire, un “occhio” capace di osservare quel movimento del pensare che – come dice Steiner ne La filosofia della libertà – passa comunemente “inosservato”.
Ma se passa comunemente inosservato il movimento (pre-cosciente) del pensare, non è difficile capire come passino ancor più inosservati quello (subcosciente) del sentire e quello (incosciente) del volere.
Non si tratta dunque di rappresentarsi la volontà (e di rappresentarsela – alla stessa stregua di Schopenhauer – come una realtà che non ha nulla a che fare con quella del pensiero), quanto piuttosto di sperimentarne la forza attraverso il pensare, poiché il movimento del pensare è già volontà. “Ogni esercizio di pensiero – afferma appunto Scaligero – è in sostanza esercizio della volontà”.
Fatto si è che il pensare, il sentire e il volere (collegati, rispettivamente, alla terza, alla seconda e alla prima Gerarchia) sono tre atti dell’Io, ma ch’è soltanto il primo ad affacciarsi, seppure in modo riflesso, alla coscienza; ove questa apprenda perciò a superare il suo stato riflesso e a osservare il suo movimento, diviene possibile una prima e lucida esperienza della forza extrasensibile o sovrasensibile della volontà.

Dice Steiner: “La psicologia corrente parla solo di un “volere generale”. E nondimeno l’insegnante e l’educatore devono intervenire in tutte e tre queste forze dell’anima (nell’anelito, nel proposito e nella risoluzione – nda) a portarvi regola e ordine. Quando si vuole educare e istruire bisogna lavorare appunto con ciò che si svolge nelle profondità della natura umana. Per maestri ed educatori è sempre estremamente importante sapere che non basta orientare la propria opera secondo le relazioni umane ordinarie, ma che bisogna configurarla partendo dalla comprensione dell’uomo interiore (…) Pensate soltanto a che cosa avverrebbe se le scuole future fossero organizzate secondo l’ideale marxistico o socialistico. In Russia ciò è già avvenuto, e per questo la riforma scolastica di Lunaciarsky (Anatol Lunaciarsky [1875-1933], commissario del popolo per l’educazione dal 1917 al 1929) è qualcosa di orrendo. E’ la morte della cultura! E se già dal bolscevismo viene molto di male, la cosa peggiore sarà il metodo bolscevico di insegnamento, perché distruggerà radicalmente la cultura trasmessa dai tempi precedenti. Questo metodo non raggiungerà subito il suo fine nella prima generazione, ma lo potrà raggiungere tanto meglio nelle successive, facendo così scomparire ogni cultura dalla terra (…) Bisogna badare a questi fenomeni. Occorrono uomini consapevoli che il progresso dal lato sociale esige un’educazione fondata sopra una conoscenza approfondita dell’essere umano” (pp. 71-72).

Queste parole, pronunciate nell’agosto del 1919, si sono rivelate purtroppo profetiche.
Che n’è stato, infatti, della grande tradizione culturale europea? Non è stata appunto “distrutta”? E dove regnavano un tempo i giganti (un Goethe, un Hegel, uno Schelling, un Beethoven o un Wagner), non regnano forse oggi i “nani”? Se ci si guarda attualmente intorno, si stenta addirittura a credere che sia esistita una cultura di tale livello.
D’altro canto, quale altra fine avrebbe potuto fare la cultura una volta mortificata, da un lato, dal materialismo “collettivistico” di stampo politico, ideologico o dottrinario (quello del non-ego, rappresentato dallo Stato o dalla Chiesa) e, dall’altro, dal materialismo “individualistico” di stampo economico (quello dell’ego)?
Non ci si rende conto, in effetti, che quanto viene seminato nel pensare viene poi raccolto nel sentire e infine nel volere. E che cosa è stato ed è tuttora seminato? E’ presto detto: l’anima incosciente o l’autoincoscienza.
Pensate, ad esempio, alla cosiddetta “post-modernità”. Chi non sa ancora in che cosa consista la “modernità”, può forse sapere in che cosa consista la post-modernità? Ma poco importa: basta la parola! Chiunque sia però consapevole, grazie alla scienza dello spirito, che la modernità è rappresentata dalla coscienza intellettuale (rappresentativa), e che una vera “post-modernità” dovrebbe essere pertanto rappresentata dalla coscienza immaginativa, non può che piangere calde lacrime di fronte a tanta irresponsabile faciloneria: a una faciloneria cui naturalmente sfugge che una cultura – come si usa oggi (orribilmente) dire – di “nuova generazione” può essere davvero tale se si libera del passato (della tradizione o della “cultura trasmessa dai tempi precedenti”) non ignorandolo o rigettandolo, bensì superandolo: ovvero, assimilandolo, trasformandolo e rinnovandolo (come ha fatto appunto Steiner con il “goetheanismo”).

Dice Steiner: “Che cosa si vuole oggi secondo i cosiddetti programmi socialistici? Si vuole che i ragazzi si comportino fra loro come si comportano gli adulti. E’ la cosa più falsa che si possa tentare nell’educazione. Dobbiamo invece divenire coscienti che il fanciullo ha da sviluppare forze animiche ed anche corporee diverse da quelle che sviluppano gli adulti nei loro reciproci rapporti. Per progredire nell’educazione bisognerà basarsi sulle profondità dell’anima e chiedersi seriamente: che cosa agisce sulla natura volitiva profonda dell’uomo da parte dell’educazione e dell’insegnamento?” (p. 73).

Abbiamo detto, la volta scorsa, che la forza della risoluzione si fa sentire, nella sfera del pensiero, come persuasione e, nella sfera della volontà, come decisione.
Ebbene, non è oggi crescente, in particolare tra i giovani, il numero di coloro che si sentono indecisi e insicuri (fino a patire, in molti casi, degli “attacchi di panico”)? E non è altresì crescente il numero di coloro che s’illudono di poter rimediare a tale fragilità interiore ricorrendo all’uso di droghe?
Ma questo è quanto si finisce col raccogliere quando si seminano il materialismo e l’intellettualismo astratto: quando ci si ostina, cioè, a non voler trascendere, come i tempi esigerebbero, l’esangue cultura dei “nervi” o della “testa” (vincolata alla percezione sensibile).
Cos’altro potrebbe spingerci, ad esempio, a consumare eroina, droga cosiddetta di “evasione”, se non appunto l’illusoria speranza di poterci così liberare dalla prigionia dei “nervi” e della ”testa”? E che cos’altro potrebbe spingerci a consumare invece cocaina, droga cosiddetta di “prestazione”, se non appunto l’illusoria speranza di riuscire così a cavar fuori dai “nervi” e dalla “testa” quella energia che non siamo più in grado di cavar fuori dalla volontà?
Nei confronti di questo tragico fenomeno, ci si divide in genere tra “proibizionisti” e “antiproibizionisti”, ma è raro che ci si domandi – come dice Steiner – “che cosa agisce sulla natura volitiva profonda dell’uomo da parte dell’educazione e dell’insegnamento”.

Dice Steiner: “Tutto quanto è intellettuale è già volontà senile, è già volontà pervenuta alla vecchiaia. Dunque qualunque istruzione ordinaria, nel senso intellettuale, qualunque ammonimento e, in genere, tutto ciò che nell’educazione viene dato in concetti, non può agire ancora sul fanciullo nell’età in cui si svolge l’educazione (…) Guardiamoci dal credere di poter avere un’influenza sul fanciullo soltanto mediante ciò che pensiamo di aver concepito giustamente. In realtà possiamo influire sul suo sentimento mediante un ripetersi di azioni (…) Il metodo giusto non sta nel dare al bambino ammonimenti, regole morali, ecc., ma nel dirigere la sua attenzione su qualcosa che riterrete atto a destare in lui il sentimento di ciò che è giusto, e nel farglielo poi ripetere e ripetere, finché diventi per lui un’abitudine. Più tale abitudine resterà incosciente, e tanto meglio sarà per lo sviluppo del sentimento; invece quanto più il fanciullo avrà coscienza di eseguire ripetutamente l’azione per dedizione, perché essa dev’essere fatta, e tanto più solleverete quell’azione al grado di vero impulso di volontà. Insomma: una ripetizione inconscia coltiva il sentimento; una ripetizione pienamente cosciente coltiva il vero impulso volitivo accrescendo la forza della decisione” (pp. 73-74).

Come si vede, non si tratta di fare prediche, bensì di agire in modo illuminato: ossia, alla luce di una reale conoscenza dell’essere umano.
Solo questa può infatti indicarci come far sì che ciò che forniamo alla “testa” non rimanga nella “testa”, ma passi nel restante organismo, per educare così tutto l’uomo (il pensare, il sentire e il volere). Potremmo dire, in termini antroposofici, che si tratta di riuscire a far passare ciò che viene afferrato in prima istanza dalla parte “frenica” del corpo astrale (legata al sistema neuro-sensoriale) alla parte “timica” dello stesso (legata al sistema renale) e, soprattutto, al corpo eterico-fisico.
Si potrebbe anche dire, al riguardo, che si tratta di riuscire ad attraversare, con l’educazione, la soglia che divide la parte animico-spirituale da quella eterico-fisica; tenendo ben presente, però, che, nel caso del bambino (che deve calarsi nel corpo eterico-fisico), tale soglia deve essere attraversata, per così dire, dall’alto verso il basso, mentre, nel caso dell’adulto (che deve svincolarsi dal corpo eterico-fisico), deve essere attraversata dal basso verso l’alto.
Per ottenere questo – dice Steiner – l’educatore deve far ricorso, sia alla ripetizione o iterazione “inconscia”, sia a quella “pienamente cosciente”.
Quanti, ai tempi della scuola, hanno dovuto imparare qualche poesia “a memoria”, ricorderanno di non aver fatto altro che ripeterla e ripeterla. Un bel giorno, però, è venuto fuori un “cervellazzo” e ha detto: “Smettiamo d’imparare poesie a memoria, perché non servono alla vita”, senza per nulla considerare (appunto da “cervellazzo”) che le poesie sono il mezzo e la memoria il fine, e che questa serve (eccome!) alla vita.
Abbiamo poc’anzi affermato (citando Scaligero), che “ogni esercizio di pensiero è in sostanza esercizio della volontà”; potremmo anche dire, tuttavia, che “ogni esercizio di memoria è in sostanza esercizio della volontà”, in specie se svolto – come suggerisce Steiner – a ritroso: cioè a dire, dalla sera alla mattina, ove si tratti dei ricordi della giornata, o dall’ultima alla prima parola, ove si tratti invece di una poesia o di una prosa.

Dice Steiner: “I metodi pedagogici antichi, più ingenui e patriarcali, applicavano anche ingenuamente tali principi; le cose diventavano abitudini e contenevano elementi pedagogici ottimi (…) Gli uomini di tempi passati, non solo dicevano ogni giorno il “Padre nostro”, ma avevano altresì un libro di storie che leggevano per lo meno una volta ogni settimana. Perciò erano uomini che, riguardo alla volontà, avevano forze più considerevoli di quelle che si formano con l’educazione attuale; lo sviluppo della volontà dipende infatti dalla ripetizione, e dalla ripetizione cosciente. Non basta dunque proclamare astrattamente che bisogna educare anche la volontà, e credere che, se si hanno delle buone idee al riguardo e si inculcano al fanciullo, mercè qualche astuto provvedimento, si raggiungerà lo scopo. In realtà ciò non serve affatto a rafforzare la volontà, e i fanciulli che si educano a mezzo di “ammonimenti morali” diventano lo stesso uomini deboli e nervosi (…) Riassumendo: l’assegnare quotidianamente a ciascun fanciullo qualche azione da fare ripetutamente ogni giorno, e in certi casi anche durante tutto l’anno scolastico, è una disciplina che rinvigorisce molto energicamente la volontà. Prima di tutto, crea un contatto tra gli scolari, poi rafforza l’autorità dell’insegnante, e abitua i ragazzi ad una attività ripetuta che agisce potentemente sulla volontà. In questo senso agisce con forza tutta speciale sulla formazione della volontà l’elemento artistico, prima di tutto perché l’esercitare un’arte deve poggiare sulla ripetizione e poi perché ciò che l’uomo si appropria in fatto d’arte gli porta sempre nuova gioia. L’arte non si gode una volta sola, ma sempre di nuovo (…) Per questa ragione le mète che noi perseguiamo con la nostra pedagogia sono strettamente connesse con l’elemento artistico” (pp. 74 -75).

E’ sconcertante e doloroso il dover constatare che oggi sono “deboli” e “nervosi” non solo gli allievi, ma anche gli insegnanti (ossia, gli allievi di ieri).
Ma quale modello da emulare (in specie, tra i sette e i quattordici anni) possono costituire degli insegnanti così “deboli” e “nervosi” (e magari, per reazione, “autoritari”) da non poter veicolare alcuna “autorevolezza”? E come si può pretendere, poi, che i giovani diventino adulti se gli adulti non solo non si dimostrano tali, ma si mettono addirittura a scimmiottare i giovani?
Diceva Jung (l’ho già ricordato): “Gli inconsci si parlano”. L’inconscio dell’allievo o del giovane “parla” dunque con quello dell’insegnante o dell’adulto, e ben presto si accorge che costui (fatte, ovviamente, le dovute eccezioni) non può fargli da amorevole guida, perché è più disorientato e più smarrito di lui; al punto da incoraggiarlo e sollecitarlo, il più precocemente possibile, a guidarsi (“democraticamente”) da sé o – come spesso si dice – a “responsabilizzarsi”.
Ogni prematura “responsabilizzazione“ degli allievi o dei giovani è però segno di una prematura “de-responsabilizzazione” degli insegnanti o degli adulti.
Ove avessimo voglia di scherzare, potremmo dunque paragonare l’odierno educatore a un barbone che, per la strada, cerchi di smerciare ai passanti un libro, intitolato: “Come diventare miliardari”.
Al cospetto di questa moderna “strage degli innocenti”, la voglia di scherzare però passa. (Proprio mentre stiamo rielaborando queste note, il Times di Londra parla di una Prozac generation, riferendo che tra il 1991 e il 2001, il numero di minori a cui sono stati prescritti antidepressivi è cresciuto del 70 per cento, che tra loro 35.000 sono sotto Prozac, e che dal 1950 ad oggi, in Europa, il numero di suicidi tra gli adolescenti è quadruplicato – ndr).
E chi è l’Erode di turno? E’ facile: la superficialità “profonda”, l’ignoranza “colta” (l’ignorantia docta) o – volendo dirla con Robert Musil – la “stupidità “intelligente”” del materialismo (amaro frutto – come detto – dell’autoincoscienza).
Fatto si è che l’anima infantile, crescendo, dovrebbe essere nutrita in primo luogo d’amore, in secondo luogo di bellezza e in terzo luogo di verità (“Non di solo pane vivrà l’uomo…”). Che questa affermazione risuoni oggi alle orecchie dei più (in specie se intellettuali) ingenua, banale o retorica, se non addirittura ridicola, può bastare a illuminarci sul carattere dei tempi in cui viviamo.
Abbiamo finito la quarta conferenza. Giovedì prossimo cominceremo la quinta.

Roma, 24 febbraio 2000

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Di Lucio Russo
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