Cominciamo la settima conferenza.
Dice Steiner: “Quando studiamo l’uomo dal punto di vista animico, diamo importanza soprattutto a scoprire nell’ambito delle leggi universali le antipatie e le simpatie; quando invece lo studiamo dal punto di vista spirituale, dobbiamo dare la massima importanza alla scoperta dei diversi stati di coscienza. Infatti ci siamo già ieri occupati dei tre principali stati di coscienza che dominano nell’uomo: lo stato di piena veglia, lo stato di sogno e lo stato di sonno, mostrando come la piena veglia esista veramente soltanto nel conoscere pensante, mentre il sogno vive nel sentire e il sonno nel volere. Comprendere è, in sostanza, riferire una cosa ad un’altra. Nel mondo non si comprende in altro modo che riferendo una cosa ad un’altra” (p. 102).
Ho fatto spesso, a questo proposito, l’esempio del puzzle: “Comprendiamo”, per così dire, ogni suo singolo pezzo quando sappiamo in qual modo sta in rapporto o si “riferisce” agli altri.
Steiner, ne La filosofia della libertà, afferma appunto che l’enigmaticità di un oggetto risiede nella sua singolarità, nel suo isolamento. Che cosa fa infatti l’intelletto (vincolato alla percezione sensibile)? Trasforma l’unità (incosciente) del mondo in una molteplicità di elementi (coscienti); e che cosa fa invece la ragione? Trasforma la molteplicità di tali elementi nell’unità (cosciente) del mondo.
Dice Steiner: “Nel metterci in relazione col mondo a mezzo della conoscenza, prima di tutto noi osserviamo. Possiamo osservare per mezzo dei nostri sensi, come facciamo nella vita solita, oppure, se ci sviluppiamo più oltre, possiamo osservare per mezzo dell’anima e dello spirito, come si fa nell’immaginazione, nell’ispirazione e nell’intuizione. Ma anche l’osservazione spirituale è appunto solo un “osservare”, ed ogni osservare è necessario che sia da noi integrato dal “comprendere”” (pp. 102-103).
Una cosa, infatti, è la coscienza immaginativa del “veggente”, altra la coscienza ispirativa dell’”illuminato”: un conto, cioè, è il vedere, altro il comprendere (quanto si è visto). Ci sono persone che hanno – com’è noto – delle esperienze “particolari” (cosiddette “parapsicologiche”); sarebbe meglio tuttavia che non le avessero, perché raramente le sanno pensare correttamente.
Fatto si è che il nostro pensare dovrebbe essere sempre all’altezza delle nostre esperienze; quanto più profonde o elevate sono queste, tanto più profondo o elevato dovrebbe essere perciò il nostro pensare.
E’ insomma rischioso, per il nostro equilibrio interiore, avere esperienze “extraordinarie” e cercare di comprenderle col pensiero “ordinario”.
Dice Steiner: “Se guardate il neonato, nelle sue forme, nei suoi movimenti, nel suo modo di gridare e balbettare, otterrete piuttosto un’immagine del corpo umano. Ma anche tale immagine non sarà compiuta, se non posta in relazione con l’età adulta e con la vecchiaia. Nella sua età mediana, l’uomo è piuttosto di natura animica, nella vecchiaia è al massimo grado spirituale” (p. 103).
Anche l’adulto e il vecchio sono ovviamente “corpo” (eterico-fisico); ma nell’infanzia (o, grosso modo, durante i primi tre settenni) lo spirito è immerso nella corporeità, mentre, nell’età mediana (nei secondi tre settenni), e ancor più nella vecchiaia (nei terzi tre settenni), ne emerge e se ne rende sempre più indipendente.
Dice Steiner: “E’ facile contestare quest’ultima asserzione, facendo notare che spesso i vecchi diventano deboli di mente” (p. 103).
In realtà, come un grande pianista (che so, un Wilhelm Backhaus o un Arturo Benedetti Michelangeli) non potrebbe mostrare il suo talento ove fosse costretto a servirsi di uno strumento inadeguato, così i vecchi non possono spesso manifestare la loro spiritualità o la loro saggezza (frutto della loro esperienza di vita) perché dispongono di uno strumento corporeo che non glielo consente.
Ciò potrebbe permetterci peraltro di capire il perché, a un certo punto (e senza rendercene lucidamente conto) vogliamo morire. In specie nell’infanzia e nella vecchiaia, c’è infatti una certa sfasatura tra la nostra parte animico-spirituale e quella eterico-fisica. Nasciamo, ad esempio, e le forze che edificano la nostra presente corporeità vengono dal passato. Disponiamo quindi di un corpo (soprattutto di una testa) che dipende dalla vita precedente, ma cerchiamo, pur vivendo in tale corpo, di portare avanti la nostra evoluzione animico-spirituale e di guadagnarci nuove forze. Non sempre, tuttavia, le forze che abbiamo così conquistato si prestano a essere espresse mediante il nostro vecchio strumento corporeo, e non ci resta allora che cambiarlo.
Dice Steiner: “Il fatto che numerose persone siano molto prive d’anima nella loro età di mezzo, non prova il contrario di quanto abbiamo detto, e cioè che l’età di mezzo è quella veramente animica. Se confrontiamo la natura corporea del bambino, sempre in una attività inconscia, sempre in movimento, con la natura corporea del vegliardo, calma e contemplativa, vedremo da un lato, nel bambino, un corpo che palesa specialmente la natura corporea, dall’altro, nel vecchio, un corpo nel quale la corporeità fisica come tale retrocede, rinnega per così dire se stessa (…) Nel bambino, nell’immagine animica ch’esso ci mostra, abbiamo un’unione strettissima tra volere e sentire; essi sono intimamente connessi (…) Contrario è il caso del vecchio. In questo sono strettamente uniti il conoscere pensante ed il sentire; mentre il volere si manifesta in certo modo autonomo. Dunque la vita umana si svolge così che il sentire, che da prima è legato al volere, se ne svincola a poco a poco nel corso della vita. Appunto tale dissociazione tra sentire e volere occupa grandemente l’educatore. Più tardi il sentire, staccato dal volere, si congiunge col conoscere pensante” (pp. 104-105).
Il sentire dunque si sposta: all’inizio è legato al volere, poi va a collocarsi tra il volere e il pensare, e infine si lega al pensare. Il nostro “maturare” non dipende, in definitiva, che da questo spostamento.
Il pensiero degli anziani, ad esempio, non è quasi mai astratto come quello degli adolescenti, non foss’altro per il fatto ch’è colmo della luce e del calore dei ricordi e delle esperienze vissute.
Oggi si ha però paura d’invecchiare, e si può purtroppo finire, così, col rendersi ridicoli o patetici. Ciò dipende appunto dal fatto che il sentire, anziché spostarsi pian piano verso il pensare, viene anacronisticamente trattenuto presso il volere.
C’è comunque da dire che una cultura a un tempo “greve” e astratta come quella contemporanea non sollecita di certo il sentire a staccarsi dal volere (dal calore degli istinti) per avvicinarsi al pensare (all’”aria fritta” o “mefitica”).
Dice Steiner: “In ogni nostra osservazione del mondo vi è però un fatto che si presenta per primo, e tutte le psicologie lo descrivono come tale: la sensazione. Ogni qualvolta uno qualunque dei nostri sensi entra in contatto col mondo circostante, si ha una sensazione: di colore, di suono, di calore, di freddo. Ma il modo in cui la sensazione viene generalmente descritta dai testi di psicologia, non ce ne trasmette una giusta rappresentazione. Vi è detto: fuori di noi, nel mondo, si svolge un certo processo fisico, avvengono vibrazioni nell’etere luminoso o nell’aria, le quali venendo in contatto col nostro organo di senso, lo eccitano. Allora si parla di “stimolo”, e ci si slancia a formulare un termine, senza però volerlo portare a una vera comprensione, perché, attraverso l’organo di senso, lo stimolo suscita nella nostra anima la sensazione, del tutto qualitativa, che si produce attraverso il fisico, per esempio attraverso le onde dell’aria nel fenomeno auditivo. Ma la psicologia e, in genere, la scienza attuale non sono in grado di dirci come ciò si produca” (p. 106).
Ricordiamoci, anzitutto, che quando parliamo di “percezione” parliamo del corpo (fisico, eterico e senziente), mentre quando parliamo di “sensazione” parliamo dell’anima (senziente).
La sensazione, infatti, è la prima manifestazione della vita animica. Ben si capisce, perciò, che ove non si considerino – come fa la scienza attuale – la vita dello spirito e quella dell’anima, è giocoforza ridurre ogni fenomeno alla vita del corpo.
Dice Steiner che la sensazione è “del tutto qualitativa”. Che cosa abbiamo sempre detto, infatti? Che l’anima è qualità, e che L’uomo senza qualità di Musil non è perciò che “l’uomo senz’anima” (voluto da Arimane). “Senza qualità”, tuttavia, è anche la scienza contemporanea, nella misura in cui è scienza della sola “quantità” (e quindi di soli numeri).
Il processo (afferente) è invero questo: il cosiddetto “stimolo” parte da una sorgente, attraversa un mezzo (per esempio, l’aria) producendovi degli effetti (per esempio, delle vibrazioni) la cui natura dipende dalla qualità del mezzo e non da quella dello stimolo, e si presenta all’organo di senso (per esempio, all’orecchio) come una modificazione del mezzo (dell’ambiente); prende poi a viaggiare lungo i nervi, e raggiunge infine il cervello, nel quale – come riconosce John Eccles, nel suo Come l’Io controlla il suo cervello (cfr. 9° incontro – ndr), non ingenera però alcuna sensazione. Non ve la ingenera perché in forma di sensazione non si manifesta un evento del corpo senziente, bensì la reazione dell’anima senziente a tale evento (degli “psiconi” ai “dendroni”, direbbe sempre Eccles, o degli “psicostati” ai “neurostati”, direbbero altri).
Potrebbe essere illuminante, al riguardo, il fenomeno delle fobie. Le angosce, ad esempio, di un claustrofobo o di un agorafobo non vengono infatti scatenate dalla mera percezione, che so, di un ascensore o di una vasta piazza, bensì appunto dalla reazione (animica) che suscita nella loro anima tale percezione (fisica).
Dice Steiner: “Se con un’adeguata auto-osservazione si riconosce davvero che cosa sia la sensazione, ci si accorge ch’essa è di natura volitiva con inserzioni di sentimento. Essa, da prima, non è affine alla conoscenza pensante, bensì al volere senziente, o al sentire volitivo. Non so quali delle psicologie correnti abbiano riconosciuto tale parentela della sensazione col sentire volitivo o volere senziente (e, naturalmente, è impossibile conoscere tutte le innumerevoli psicologie oggi esistenti). Se si dice che la sensazione è affine alla volontà, ciò non è un parlare esatto, poiché la sensazione è affine al sentimento volitivo e al volere senziente” (pp. 106-107).
Proprio l’esempio delle fobie aiuta a capire che la sensazione è, come dice Steiner, “di natura volitiva con inserzioni di sentimento”.
Che sia di natura volitiva lo dimostra il fatto che una sensazione fobica può produrre degli effetti somatici anche gravi (pallori, sudori, tremori, svenimenti, ecc.); che abbia al contempo natura di sentimento lo dimostra il fatto che tale sensazione altro non è, a ben vedere, che un’anti-patia parossistica.
Dice Steiner: “Dunque la sensazione, quale appare nell’uomo, è sentire volente, o volere senziente. Possiamo quindi dire: dove esteriormente è diffusa la sfera dei sensi (perché più o meno i sensi sono verso l’esterno del nostro corpo), là vi è nell’uomo volere senziente, sentire volente. In uno schema dell’uomo, possiamo dire (tenendo conto però che tutto è inteso schematicamente): alla superficie esterna dell’uomo abbiamo la sfera dei sensi, dove si manifesta il sentire volente, il volere senziente. Che cosa facciamo in quella sfera? Esercitiamo un’attività che è per metà di sogno e per metà di sonno” (p. 108).
Come ormai sappiamo, il contenuto della nostra percezione (il percetto) si trasforma in chiara rappresentazione solo nell’anima cosciente. Prima di raggiungerla, deve però attraversare il corpo, arrivare all’Io, e attraversare poi l’anima senziente e l’anima razionale o affettiva.
Si tratta dunque di un contenuto inizialmente oscuro (una X) che, in virtù di tale viaggio, viene pian piano a schiarirsi; o, in altri termini, di un contenuto che parte dalla sfera di sonno per arrivare, dopo essere transitato per quella di sogno, alla sfera di veglia. Il che vuol dire – come ho spesso sottolineato – che nella sensazione è già presente o implicato quel concetto che si esplicherà come tale solo nell’anima razionale o affettiva (nella quale – non lo si dimentichi – è attivo il giudicare), e che si consoliderà come rappresentazione solo nell’anima cosciente.
Dice Steiner: “Nel bambino dobbiamo ricercare la sfera volitiva e senziente anche nei suoi sensi. Perciò si richiede qui con tanta insistenza che, mentre educhiamo il bambino intellettualmente, si agisca continuamente anche sulla sua volontà perché, in tutto quello che il bambino deve percepire e guardare, vanno coltivati anche il volere e il sentire; altrimenti ci mettiamo in contraddizione col sentimento infantile. Solo al vecchio, giunto al tramonto della vita, possiamo parlare in un modo che implichi una già avvenuta metamorfosi delle sensazioni. Nel vecchio, infatti, anche la sensazione è già passata dal volere senziente al pensare senziente o sentire pensante (…) Così perveniamo a un reale concetto della sensazione soltanto quando sappiamo ch’essa nasce nel bambino come sentire volente o volere senziente, ancora alla periferia del corpo, pel fatto che, rispetto all’interiorità dell’adulto, questa periferia dorme e insieme sogna. Dunque non solamente noi siamo pienamente svegli solo nella conoscenza pensante, ma siamo pienamente svegli solo nell’interno del nostro corpo. Alla periferia del corpo, alla sua superficie, dormiamo pure continuamente. Inoltre, ciò che avviene intorno al corpo, o meglio, alla sua superficie, avviene in modo analogo anche nella testa, e tanto più fortemente quanto più penetriamo nell’interno, nei muscoli, nel sangue. Là dentro l’uomo dorme, e dormendo sogna. Alla superficie l’uomo dorme e sogna, e dorme e sogna anche a misura che ci inoltriamo verso l’interno (…) E dove siamo dunque pienamente svegli? Nella zona intermedia, quando ci troviamo nella coscienza diurna (…) L’uomo, visto dal punto di vista spirituale, è tale che alla sua superficie e nei suoi organi interni dorme, e può essere totalmente sveglio durante la vita tra la nascita e la morte, soltanto nella zona intermedia” (pp. 108-109-110-111).
Nella sfera del conoscere, la “zona intermedia”, in cui “ci troviamo nella coscienza diurna”, è per l’appunto la zona che si trova tra l’immagine percettiva (tridimensionale) e la rappresentazione (bidimensionale). Abbiamo infatti ricordato, a suo tempo (cfr. 11° incontro – ndr), che siamo normalmente inconsci, sia di quanto sta all’origine dell’immagine percettiva, sia di quanto sta all’origine della rappresentazione, e che ne siamo inconsci proprio perché, rispetto a ciò che origina tanto l’una che l’altra, dormiamo. Godiamo dunque di uno stato di veglia i cui limiti sono ordinariamente segnati, da una parte, dalle immagini percettive e, dall’altra, dalle rappresentazioni.
Risposta a una domanda
Quello “pre-cosciente” è, per così dire, uno stato di “dormi-veglia” (che sta cioè tra il sogno e la veglia), quelli di “sogno” e di “sonno”, sono invece, rispettivamente, stati di “subcoscienza” e di “incoscienza”. Tutto ciò che è pre-cosciente, subcosciente o incosciente deve essere però portato gradualmente alla coscienza.
Come tutti sanno, anche la psicoanalisi e la psicologia analitica vorrebbero portare l’inconscio alla coscienza (“Ove era l’Es, ivi regnerà l’io”, diceva Freud), ma l’assoluta originalità del metodo indicato da Steiner sta nel fatto che, per conseguire davvero tale obiettivo, occorre portare in primo luogo a coscienza la coscienza stessa (ossia, quell’inconscio immaginare, quell’inconscio giudicare e quegli inconsci concetti dai quali nascono le nostre coscienti rappresentazioni).
Che cos’è, in questo senso, l’inconscio? Null’altro che la coscienza di cui non siamo ancora coscienti, e quindi, in prima istanza, il pensare che non sappiamo ancora pensare.
Scrive Steiner (in una delle sue Massime antroposofiche): “Ha torto chi parla dell’incosciente, che è tale temporaneamente, come se dovesse restare per sempre nel dominio dell’ignoto e costituisse così un limite della conoscenza”.
Roma, 23 marzo 2000