Antropologia (25)

A

Abbiamo concluso il nostro ultimo incontro dicendo che bisogna nutrire l’anima dei fanciulli con dei concetti viventi, e non con dei concetti morti.
Riprendiamo quindi l’argomento, proseguendo la lettura.

Dice Steiner: “L’educatore deve essere attento a trasmettere al bambino concetti in modo che l’uomo non li conservi più tardi tali e quali, ma che invece possano trasformarsi. Se farete ciò inoculerete nel bambino dei concetti viventi. Gli darete invece dei concetti morti quando gli presenterete continuamente delle definizioni, quando gli direte: “un leone è… ecc.”, e gli farete imparare questo a memoria (…) Le eccessive definizioni sono la morte dell’insegnamento vivente. Che cosa dunque dobbiamo fare? Nell’insegnamento non dobbiamo definire, ma dobbiamo cercare di caratterizzare, e faremo questo se presenteremo le cose dai punti di vista più diversi possibili” (p. 136).

Per capire quanto afferma qui Steiner, occorre avere ben chiara la differenza tra il concetto “vivente” e il concetto “morto”.
Un concetto “vive” finché è un “concetto”, mentre “muore” quando si trasforma in una determinata (definita) “rappresentazione”.
Caratterizzare, presentando “le cose dai punti di vista più diversi possibili”, vuol dire perciò caratterizzare un concetto (che non ha forma), presentandolo attraverso il maggior numero possibile di rappresentazioni (che hanno forma).
Abbiamo detto, a suo tempo, che l’Io va immaginato non come un “punto” (fermo), bensì come un “seme” o un “germe”. Ebbene, ove immaginassimo allo stesso modo il concetto, subito realizzeremmo che fornire al bambino dei concetti che, quali semi, germi o realtà in divenire (quali future rappresentazioni), sono in grado di svilupparsi con lui, è cosa ben diversa dal fornirgli delle rappresentazioni che, quali realtà ormai divenute (quali passati concetti), non sono in grado di fare altrettanto.
Risulterà però difficile capirlo, se non ci sarà chiaro – come insegna La filosofia della libertà – che è la rappresentazione a nascere dal concetto, e non viceversa (come sostengono i realisti ingenui o, più in generale, i nominalisti).
Prendiamo, ad esempio, il concetto di “amore”. Ce lo possiamo rappresentare in molti modi: seguendo Platone, ad esempio, come érōs, come philía o come agápē; oppure, seguendo Denis de Rougemont, come “amore-passione” o come “amore-azione” (cfr. L’amore e l’Occidente – Rizzoli, Milano 1998 – ndr).
Come si vede, benché il concetto sia sempre lo stesso, è possibile rappresentarselo diversamente e, in specie, in modo più o meno maturo: più o meno aderente, cioè, alla realtà qualitativa o essenziale del concetto (tanto che si potrebbe dire: “Dimmi come te lo rappresenti, e ti dirò chi sei”). Ma è forse possibile – potremmo domandarci – rappresentarsi “perfettamente” un concetto? Certo che lo è.
Vedete, noi distinguiamo la rappresentazione dall’immaginazione perché la prima è un’immagine vincolata alla percezione sensibile, mentre la seconda ne è libera. Seppure a livelli diversi (l’uno fisico e l’altro eterico), ambedue rendono dunque “visibile” il concetto (che le trascende).
Ebbene, come caratterizza Scaligero la “Iside-Sophia”? Come appunto la “trascendenza visibile” (cfr. Iside-Sophia. La dea ignota – Mediterranee, Roma 1980). Il che sta a significare che c’è un livello di coscienza (“sofianico”) al quale i concetti si rivelano per quello che sono, e ch’è possibile raggiungere questo livello solare e “trasparente” (vergine o immacolato) sviluppando quello lunare e “opaco” della rappresentazione.
L’evolversi del rappresentare, ossia la sua graduale trasformazione nell’immaginare, nell’ispirare e nell’intuire, coincide quindi con l’evolversi della coscienza, così come l’evolversi della coscienza coincide, a sua volta, con l’evolversi dell’Io.
Non dimentichiamo che i concetti sono “mondo” al pari dei percetti: che fanno cioè parte della realtà. All’uomo (checché ne pensi Kant) non appartiene pertanto il concetto, bensì la coscienza del concetto, che si dà appunto, ordinariamente, in forma di rappresentazione.
Ma torniamo a noi. “Nell’insegnamento – abbiamo letto – non dobbiamo definire, ma dobbiamo cercare di caratterizzare, e faremo questo se presenteremo le cose dai punti di vista più diversi possibili”. Ciò che conta, infatti, è presentare la realtà come un insieme di verità che ci si possono gradualmente rivelare, crescendo e maturando.
Le età della vita – afferma Steiner – sono “organi di conoscenza”. Quanto è possibile capire magari a quarant’anni non lo si può quindi capire a venti, né tantomeno a dieci.
Per questo, l’insegnamento dovrebbe essere non tanto “attivo”, quanto piuttosto “attivante” o stimolante.

Dice Steiner: “Dovrete anche pensare che bisogna dare al bambino qualcosa che gli resti per tutta la vita. Non dovrete dargli, sulle particolarità della vita e del mondo, dei concetti morti, che non devono permanere in lui; dovrete dargli dei concetti viventi che si sviluppino organicamente insieme con lui. Ma per ciò dovrete mettere tutto in rapporto con l’uomo. In ultima analisi, nella concezione del bambino tutto dovrà confluire nell’idea dell’uomo. E questa idea può rimanere. Tutto ciò che date al bambino quando gli raccontate una favola e l’applicate all’uomo, quando nella storia naturale mettete in relazione la seppia e il topo con l’uomo (cfr. seconda e terza parte dell’Arte dell’educazionenda), quando, a proposito del telegrafo Morse, suscitate un sentimento del miracolo che si compie per mezzo della corrente sotterranea, tutte queste sono cose che uniscono l’uomo con le singole particolarità dell’intero mondo. Questo è qualcosa che può rimanere. Ma il concetto di uomo si costruisce soltanto a poco a poco; non si può fornire al bambino un concetto già pronto dell’essere umano. Se invece lo si costruisce progressivamente, esso può permanere. La cosa più bella che si possa dare al bambino nella scuola e che lo accompagni nella vita è un’idea dell’uomo; e che sia il più possibile ricca di aspetti e di contenuto” (p. 137).

Abbiamo appena detto che ciò che conta è presentare la realtà come un insieme di verità. Possiamo adesso aggiungere che l’uomo è per l’appunto un tale “insieme” di verità.
Prendiamo ad esempio il corpo astrale. Si tratta in un certo senso di uno “zoo”, popolato dalle qualità di tutte le specie animali. Ben lo sapevano, ad esempio, Esopo (VI sec. a.C.) e Fedro (20 a.C.?- 50 d.C.?) che, nelle loro favole, hanno parlato degli uomini, servendosi degli animali; e lo sanno, in qualche modo, anche gli psicoterapeuti, che sono spesso alle prese con gli animali che appaiono nei sogni dei loro pazienti.
Possiamo comunque immaginare come queste ultime affermazioni di Steiner si prestino a essere tacciate di “antropomorfismo”. Ma sarebbe un’ingenuità, poiché tutto ciò che fa l’uomo non può essere che antropomorfico, così come tutto ciò che fanno, che so, i galli o i topi non può essere che “gallomorfico” o “topomorfico” (osserva giusto Goethe: “L’uomo non comprende mai quanto sia antropomorfico”). O forse qualcuno s’illude che definendo l’uomo – come fa oggi la scienza – uno “psicozoo” o una “macchina” si sfugga all’antropomorfismo? Ma questa è appunto un’illusione, dal momento che a definirlo uno “psicozoo” o una “macchina” sono quegli esseri umani che, anziché pensarlo con il loro Io (umano), lo pensano rispettivamente (e senza rendersene ovviamente conto) per mezzo del loro corpo astrale (animale) o per mezzo del loro corpo fisico (minerale).
Scrive, al riguardo, Heschel: “L’uomo è un essere specifico che vuole comprendere la sua unicità: non la sua animalità, ma la sua umanità (non il suo corpo astrale, ma il suo Io – nda) (…) Siamo in grado di cogliere la pura animalità, non mescolata con l’umanità? L’animalità dell’essere umano è identica a quella dell’animale? E’ forse legittimo definire la scimmia come un essere umano privo della facoltà della ragione e dell’arte di fabbricare utensili? (…) Oltre alla sua inadeguatezza descrittiva, il significato suggestivo ed evocativo del termine “animale pensante” distorce non meno di quanto riesca a chiarire. Ogni generazione formula la definizione di uomo che si merita (se ne fa la rappresentazione che si merita – nda). Tuttavia mi sembra che la nostra generazione abbia avuto una sorte peggiore di quanto meritasse. L’accettare una definizione è il modo con cui l’uomo identifica se stesso, scrutando in uno specchio il proprio volto. La situazione interiore dell’uomo contemporaneo esige che il modo plausibile di identificare se stesso consista nel considerarsi una macchina. “La macchina umana” è oggi una descrizione (arimanica – nda) dell’uomo più accettabile di quanto non lo sia quella (luciferica – nda) dell’animale umano” (cfr. 3° incontro – ndr).
Fatto sta che, convivendo nell’uomo la realtà umana (l’Io), la realtà animale (il corpo astrale), la realtà vegetale (il corpo eterico) e quella minerale (il corpo fisico), può essere propriamente “umana” solo quella scienza che sia fatta consapevolmente dall’Io, mentre sono di fatto non-umane, in-umane o dis-umane quelle fatte inconsapevolmente dal corpo astrale, dal corpo eterico e dal corpo fisico o, per essere più precisi, da un Io identificato (inconsciamente) con uno di questi corpi. Ma riprendiamo il nostro passo. Per quale ragione, trattando di storia naturale, dovremmo – come dice Steiner – “mettere in relazione la seppia e il topo con l’uomo”? Per la semplice ragione che la seppia e il topo (al pari di tutti gli altri animali) sono parti dell’uomo, e ch’è impossibile perciò capire che cosa siano davvero quelli se non si capisce questo.
Afferma Steiner che “la cosa più bella che si possa dare al bambino nella scuola e che lo accompagni nella vita è un’idea dell’uomo”.
Potremmo anche dire, però, che la “cosa più bella” che ci dà la scienza dello spirito è l’opportunità, invero straordinaria, di conoscere il mondo conoscendo l’uomo, e di conoscere l’uomo conoscendo il mondo. Le scienze naturali ci offrono infatti (arimanicamente) una conoscenza del mondo che non è, insieme, una conoscenza dell’uomo, mentre le cosiddette scienze umane ci offrono (lucifericamente) una conoscenza dell’uomo che non è, insieme, una conoscenza del mondo.

Dice Steiner: “Ciò che nell’uomo è vivo ha la tendenza a trasformarsi anche nella vita in modo realmente vivente. Se voi farete sì che il bambino abbia un concetto vivo della venerazione, del rispetto per tutto ciò che in senso lato possiamo comprendere sotto il nome di “stato d’animo di preghiera”, una simile rappresentazione resterà qualcosa di vivente fin nella più tarda età e si trasformerà, in vecchiaia, nella facoltà di benedire, di distribuire agli altri i risultati di quello stato d’animo di preghiera. L’ho espresso un giorno dicendo che nessun vecchio potrà veramente benedire in modo buono, se non avrà pregato in modo giusto da bambino. Se il bambino avrà pregato in modo giusto, potrà poi, da vecchio, benedire col massimo di forza ed efficacia” (p. 138).

Risposta a una domanda
Finché si sarà convinti, come oggi, che l’uomo è un “animale intelligente” ci si dovrà rassegnare a vivere in una società “animalesco-intelligente”: vale a dire, in una società in cui si sviluppano sempre più, da un lato, l’intelligenza (più o meno artificiale) e, dall’altro, la bestialità. Ho detto a bella posta “bestialità”, perché un conto è l’animale fuori dell’uomo, altro l’animale nell’uomo. Il primo è infatti innocente (come ha cercato di dimostrare, a suo modo, Konrad Lorenz ne Il cosiddetto male. Per una storia naturale dell’aggressività – Adelphi, Milano 1963), mentre il secondo è per l’appunto bestiale.
Ricorda che cosa si dice infatti, in Marco? “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”.
Afferma Heschel che “l’enigma dell’essere umano non consiste in ciò che egli è, ma in ciò che è in grado di essere”, poiché “quel che è palese nell’uomo non è che una minima parte di quanto è in lui latente”. E’ vero: l’ego, “che è palese nell’uomo”, non è “che una minima parte” dell’Io, che “è in lui latente”; ciò che l’uomo “è in grado di essere” altro non è, però, che “ciò che egli è” (ricorda Nietzsche? “Come si diventa ciò che si è”). La qualità del suo esistere (individuale e collettivo) non dipende perciò da quella del suo essere (come in tutti gli altri esseri della natura), ma dalla qualità (dal livello o dal grado) della coscienza del suo essere, ossia della sua autocoscienza.

Torniamo a noi. Scrive ancora Heschel che “il sacro può essere percepito solo con il senso del sacro”, e che “sentire il sacro è sentire che cosa è caro a Dio”.
E che cosa è più caro a Dio? Senza dubbio l’uomo; ma l’uomo, oggi, pur essendo sempre caro a Dio, non è più caro all’uomo.
“L’uomo – osserva appunto Heschel – ha ben pochi amici in questo mondo, di certo ben pochi nella letteratura contemporanea che si occupa di lui. Forse il Signore del cielo è l’ultimo suo amico sulla terra. Non sarà forse possibile che la furia a cui assistiamo derivi dal fatto di essere insidiati da un soverchiante autodisprezzo, da un superiore senso d’inferiorità? La tragedia di questa strisciante autodenigrazione consiste nel fatto che essa alimenta il dubbio se l’uomo meriti di essere salvato. La massiccia diffamazione dell’uomo può significare la condanna di noi tutti. L’annullamento morale conduce allo sterminio fisico (…) Una delle prospettive più terrificanti è che la nostra terra possa esser popolata da esseri che, pur appartenendo secondo la biologia al genere dell’homo sapiens, siano privi di quelle qualità che differenziano spiritualmente l’uomo dalle altre creature organiche”.
Siamo naturalmente d’accordo con Heschel, anche se questi, quale seguace dell’Antico Testamento, ignora che, in virtù dell’incarnazione del Logos, il “Signore del cielo” (l’ultimo amico dell’uomo) è ormai Signore anche della Terra, così come ignora che gli odierni esseri umani non sono insidiati da una “strisciante autodenigrazione” o da un “soverchiante autodisprezzo”, bensì dalla forza fredda e dis-umana di Arimane.
Ascoltate, al riguardo, quanto scrive Steiner (nelle Massime antroposofichendr): “L’intellettualità emana da Arimane come un cosmico impulso gelido, senz’anima. E gli uomini che vengono presi da quell’impulso sviluppano una logica che sembra parlare di per sé stessa, senza pietà e senza amore (in realtà è Arimane che parla per suo mezzo), una logica in cui non si mostra per nulla il giusto e intimo collegamento dell’anima e del cuore con ciò che l’uomo pensa, dice e fa”.
Ma andiamo avanti. Abbiamo parlato, all’inizio, dell’érōs. Ebbene, non è significativo che tanto l’érōs quanto la venerazione siano in rapporto con Venere? E come mai, allora, ci preoccupiamo (anche troppo) di educare il primo (mediante la famosa “educazione sessuale”), mentre non ci preoccupiamo affatto di educare la seconda, se non affidandone l’onere ai preti?
Un fatto è certo: se le nostre anime fossero meno frigide, già sentiremmo, contemplando la natura, lo “stato d’animo di preghiera” di cui parla Steiner. Al punto che un’anima, cui sia riuscito di conservare e accrescere la propria sensibilità, può sentirsi perfino in difetto di fronte alla silenziosa, casta e umile santità degli esseri naturali.
Ma quante anime riescono a conservare e accrescere quel profondo sentimento religioso che si ha da bambini? Pensate che Vladimir Solov’ev, nel suo Il bene nella natura umana (Paravia, Torino 1925), parla del pudore (o della vergogna) come del sentimento che ci lega a quanto sta “sotto” di noi, della compassione (o della pietà) come del sentimento che ci lega a quanto sta al nostro stesso livello, e della venerazione (o della devozione) come del sentimento che ci lega a quanto sta “sopra” di noi. E’ bene tenere presente, però, che è il nostro stesso essere (prima ancora di quello divino) a stare “sopra” di noi: che è l’Io, cioè, a stare “al di sopra” dell’ego. Tarpare, in un modo o nell’altro, le ali alla venerazione o alla devozione significa dunque impedire all’uomo di vivere in rapporto non solo con Dio, ma anche, e in primo luogo, con se stesso.
Diceva Goethe: “Perché l’uomo possa compiere tutto ciò che si esige da lui, deve credere di valere più di quanto non valga”; e diceva Marco Aurelio (121-180), come ho altre volte ricordato: “Se l’uomo guardasse sempre in cielo, finirebbe con l’avere le ali”.
Ebbene, che cosa ci si può attendere, allora, da uomini cui viene fatto credere di valere meno di quanto valgono (o poco più di quanto valgono gli scimpanzé), o da uomini cui viene insegnato a guardare sempre in basso?
Dovremmo ben sapere, d’altronde, che se Lucifero è un “mitomane-megalomane”, Arimane è invece, per così dire, un “mitomane-micromane”.

Roma, 4 maggio 2000

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Di Lucio Russo
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