Antropologia (26)

A

Ci siamo lasciati, la volta scorsa, parlando della venerazione. Prima di riprendere la lettura, vorrei in proposito ricordare quest’affermazione di Goethe: “Chi ha scienza e arte, ha pure religione; chi non ha scienza ed arte, abbia almeno religione”.
La verità della scienza e la bellezza (della verità) dell’arte sono già in grado, in effetti, di suscitare un sentimento religioso o – come dice Steiner – uno “stato d’animo di preghiera”.
Che cos’è infatti il vero? Il modo in cui l’”Entità divino-spirituale” (così la chiama Steiner nelle sue Massime) si dà al pensare; e che cos’è il bello? Il modo in cui si dà al sentire; e il buono? Il modo in cui si dà al volere.
E come si dà, questo stesso Essere, all’Io? Come Io (come “Io-sono”), poiché l’Io umano è stato creato “a immagine e somiglianza” dell’Io divino. Come dal seme di un albero si sprigionano la radice, il fusto e le foglie, così dal seme dell’Io si sprigionano dunque il pensare, il sentire e il volere e, per ciò stesso, il vero, il bello e il buono. Dall’essenza si sprigiona cioè l’esistenza: prima quella animica, e poi quella eterico-fisica (o spazio-temporale). Ciò che nell’Io è unità o sintesi, si manifesta quindi nell’anima come armonia: come quell’armonia (delle sfere) che può essere sperimentata – come sappiamo – dalla coscienza ispirativa o dall’udire spirituale.
Oggi, scrive Abraham Joshua Heschel, “colui che volesse scrivere un libro in lode dell’uomo, verrebbe ritenuto un idiota o un bugiardo”.
Noi pure, nel nostro piccolo, rischiamo perciò di essere ritenuti degli idioti o dei bugiardi (in specie dagli odierni “uomini di cultura”). Ci possiamo tuttavia consolare pensando che, in tal caso, verremmo a trovarci in compagnia di un Marsilio Ficino (1453-1499), che parlava dell’uomo come della “copula mundi”, ossia come dell’intermediario tra il divino e il terreno, o di un Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), autore dell’Oratio de hominis dignitate (del Discorso sulla dignità dell’uomo – Guanda, Milano 2003 – ndr).
Ma riprendiamo a leggere.

Dice Steiner: “Quando l’uomo abbandona il mondo animico-spirituale per rivestirsi di un corpo fisico, che cosa vuole egli veramente? Vuole realizzare nel mondo fisico il passato che egli ha vissuto nel mondo spirituale. Prima della seconda dentizione, l’essere umano è ancora in certo modo immerso del tutto nel suo passato. E’ ancora riempito della dedizione che si sviluppa nel mondo spirituale. Perciò egli si dà, si abbandona a quello che lo circonda, imitando gli altri uomini. Qual è dunque l’impulso fondamentale, l’atteggiamento, ancora del tutto incosciente, del bambino, fino al cambiamento dei denti? (…) E’ quello che deriva dalla seguente ipotesi, pure incosciente: l’intero mondo è morale (…) Quel che vi è di grande e di edificante nel contemplare dei bambini è il fatto che i bambini credono nella moralità del mondo, e perciò credono che il mondo dev’essere imitato. Il bambino vive nel passato, ed è un rivelatore del passato prenatale, non del passato fisico, ma di quello animico-spirituale” (pp. 138-139).

Quando recitiamo il Pater noster, diciamo: “Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra…”.
Orbene, nascendo, veniamo da un mondo, quello del “cielo” o del “regno” di Dio, in cui viene appunto “santificato” il Suo nome e “fatta” la Sua volontà, e ci aspettiamo quindi (inconsciamente) che sia così pure “in terra”.
E’ questo il fondamento delle nostre esigenze morali. Allorché aspiriamo, ad esempio, a creare un “mondo migliore”, ad altro non aspiriamo, in realtà, che a vivere “in terra” come si vive, e come noi stessi abbiamo vissuto, “in cielo”.
Tale aspirazione è dunque, in primo luogo, un fatto morale, e quindi un fatto che viene deriso cinicamente da Arimane o reso vago, sognante e utopico da Lucifero (un romanzo di Pier Paolo Pasolini s’intitola, per l’appunto: Il sogno di una cosa).

Dice Steiner: “Superata la seconda dentizione, il fanciullo, fino alla pubertà, vive nel presente e si interessa a ciò che è attuale. Se ne deve continuamente tener conto nell’educazione e nell’insegnamento: lo scolaro vuole vivere continuamente nel presente. Come ci si vive? Si vive nel presente quando si gusta – non in una maniera animale, ma in una maniera umana – il mondo intorno a sé (…) In questo campo i metodi moderni hanno fatto dappertutto buoni progressi, ma vi è in ciò qualcosa di pericoloso, ed è questo: che il principio di fare dell’insegnamento una fonte di gioia e di godimento possa facilmente travisarsi in qualcosa di pedestre. Ciò non deve accadere. Vi si può porre riparo se l’insegnante si sforza continuamente di innalzarsi al di sopra del pedestre. Questo può avvenire soltanto se egli non manca mai di fare del suo insegnamento un’arte veramente vivente. Infatti, quando si vuol godere il mondo – non da animali – si deve partire da una determinata premessa, e cioè che il mondo è bello. E da una premessa incosciente parte il bambino veramente, nel periodo fra il cambiamento dei denti e la pubertà: che egli possa trovare “bello” il mondo (…) Il continuo ricorrere ad esempi e modelli non serve a nulla. Non si tratta di prescrivere al maestro di scegliere in un modo o nell’altro i suoi modelli e i suoi esempi per l’insegnamento visivo; bisogna invece che il maestro curi egli stesso di vivere nell’arte e, in questo modo, faccia sì che le cose di cui parla ai fanciulli divengano per loro gustose” (pp. 139-140).

Immaginiamo un maestro che, dopo aver ascoltato queste parole, si dica tra sé e sé: “Effettivamente, dovrei recarmi più spesso a visitare mostre d’arte e musei, o mettermi a dipingere o scolpire”. Ecco la pedanteria!
Ciò che davvero importa, infatti, è che la gioia di colui che apprende sia la stessa di colui che insegna, e che questa scaturisca sua sponte dallo spirito che anima l’insegnamento.
Non si tratta, perciò, di apprendere una o più arti, bensì d’imparare a pensare “artisticamente” (immaginativamente), in modo tale da poter apprezzare la bellezza della verità (la bellezza senza verità è infatti luciferica, mentre la verità senza bellezza è arimanica).
Che cosa vuol dire, dunque, essere “pedestri” o pedanti? Vuol dire limitarsi ad assommare alla verità senza bellezza (della scienza materialistica), la bellezza senza verità (dell’estetica ordinaria), magari aggiungendovi il bene senza verità e senza bellezza (dell’”imperativo categorico”).
Il giusto cammino deve costituire invece un’anagogia (un innalzamento): prima si deve salire, infatti, dal pensare la verità al sentire la bellezza della verità, e poi si deve salire dal sentire la bellezza della verità al volere la bontà di tale bellezza.
Il bambino fa però questo cammino all’inverso: parte infatti (tra la nascita e i sette anni) dal volere (dal bene), sale poi (tra i sette e i quattordici anni) al sentire (al bello) e arriva infine (tra i quattordici e i ventuno anni) al pensare (al vero): arriva cioè a quel pensare dal quale deve prendere viceversa le mosse (in particolare tra i ventotto e i trentacinque anni) l’adulto.
Che cosa dovrebbe perciò fare l’insegnante? Aiutare il suo allievo, a mo’ di levatrice, a far nascere prima, dal buono, il bello, e poi, dal bello, il vero.

Dice Steiner: “Il primo periodo della vita infantile, fino al cambiamento dei denti, trascorre nell’ipotesi incosciente che il mondo è morale. Il secondo periodo, dal cambiamento dei denti alla pubertà, scorre nella premessa incosciente che il mondo è bello. E solo con la pubertà comincia veramente la disposizione a trovare anche che il mondo è vero. Soltanto allora l’insegnamento può, per questo fatto, cominciare a ricevere un carattere scientifico” (pp. 140-141).

Non è difficile pertanto capire – come abbiamo detto a suo tempo – che quanto più corretto sarà stato, durante la prima metà della vita, il cammino della nostra educazione, tanto meno arduo od ostico risulterà, durante la seconda metà della vita, quello della nostra autoeducazione (sul “sentiero della conoscenza”).
Abbiamo concluso la nona conferenza. Cominciamo subito la decima.

Dice Steiner: “Ora dovremo completare quanto abbiamo detto, cercando in un primo tempo di collegare il punto di vista spirituale, animico e corporeo, in modo da ottenere uno sguardo d’insieme completo sull’uomo, per poter poi passare alla comprensione anche della corporeità esteriore. Per cominciare, richiamiamo alla memoria quello che molte volte abbiamo messo in evidenza, e cioè che l’uomo ha forme diverse nelle tre parti del suo corpo. Abbiamo messo in rilievo (cfr. la seconda parte dell’Arte dell’educazionendr) che la forma del capo è essenzialmente sferica, e che, in questa forma sferica, risiede la vera essenza corporea della testa umana. Poi abbiamo rilevato che la parte “petto” dell’uomo è un frammento di sfera, sicché, disegnando schematicamente, diamo al capo una forma sferica, al petto una forma lunata, rendendoci conto che in tale forma lunata è contenuto un frammento, una parte di sfera” (p. 142).

Non possiamo qui prescindere dall’osservare con molta attenzione le due figure che corredano questa conferenza (una a pagina 143; l’altra a pagina 148).
Tali figure, benché “schematiche“, stimolano infatti la nostra immaginazione: ci stimolano cioè a modificare il punto di vista dal quale siamo abituati a osservare le cose: nel caso specifico, lo scheletro umano. Solo contemplandolo e muovendo al contempo il pensiero, è infatti possibile rendersi conto delle relazioni (morfologiche) che vigono tra le sue tre parti. Il fatto, ad esempio, che, le costole, nella parte posteriore del tronco, siano tutte unite alla colonna vertebrale, mentre, in quella anteriore, siano dapprima unite allo sterno, e poi, scendendo, siano invece aperte o dischiuse, non è privo di significato. Che cosa ci ricorda infatti il loro movimento? Non è difficile: quello di una pianta che si apre o dischiude nel fiore.
Ciò che la pianta, aprendosi o dischiudendosi, accoglie dall’alto, l’uomo lo accoglie però dal basso, poiché è una sorta di pianta rovesciata, che ha le radici nella testa, e il fiore nell’addome.

Dice Steiner: “Negli antichi tempi in cui si aveva molto più che non oggi la capacità di percepire le forme, non si aveva torto di parlare del sole in corrispondenza del capo, e di luna in corrispondenza del petto. Quando la luna non è piena, ne vediamo solamente un frammento, e così pure vediamo veramente solo un frammento del “petto” umano. Dunque, la forma fisica della testa umana è qualcosa di relativamente conchiuso; ed è, in certo modo, proprio quello che di sé ci mostra, senza nascondere di sé quasi nulla. La parte “petto” dell’uomo nasconde invece già molto di sé; lascia che rimanga nell’invisibile qualcosa della sua entità (…) La parte “petto” ci mostra, dal lato posteriore, la sua corporeità; dal lato anteriore, trapassa nell’animico. Il capo è tutto corpo; il petto è posteriormente corpo, anteriormente animico” (pp. 142-143).

Quanto la parte “petto” lascia, della sua intera entità, nell’invisibile lo possiamo rendere però “visibile” mediante l’immaginazione. Grazie a questa, infatti, possiamo non solo riconoscere nell’intera entità della parte “petto” la forma della luna piena, ma anche seguire quel movimento che la riduce, per un verso, a falce visibile (a corpo) e, per l’altro, a luna invisibile (ad anima).

Dice Steiner: “Dunque noi portiamo un vero corpo su di noi solo in quanto portiamo la nostra testa in riposo sulle spalle. Abbiamo corpo ed anima in quanto separiamo, per così dire, il nostro petto fisico dall’insieme della parte “petto”, e lo facciamo pervadere dal lavoro animico. Ora, in queste due parti dell’uomo, e specialmente per l’osservazione esteriore, sono inseriti, nel tronco, gli arti. La terza parte dell’uomo è infatti il sistema degli arti. Come possiamo veramente comprendere quest’ultimo? Possiamo comprenderlo se riconosciamo che, della forma sferica, sono residuate altre parti oltre quella del tronco. Nel tronco è residuato un frammento della periferia, negli arti è rimasto piuttosto una parte dell’interno dei raggi della sfera, sicché le parti interne della sfera sono attaccate come arti” (pp. 143-144).

Per capire queste ultime affermazioni, dobbiamo di nuovo ricorrere, ma con forza ancora maggiore, all’immaginazione.
Abbiamo detto, poco fa, che le figure che corredano questa conferenza ci sollecitano a modificare il punto di vista dal quale siamo soliti osservare le cose. Ebbene, come siamo soliti osservare le nostre braccia e le nostre gambe? E’ facile: come dei prolungamenti (dei tentacoli) che partono dal nostro corpo per spingersi verso il mondo. Ma per quale ragione, allora, Steiner afferma che gli arti “sono inseriti” nel tronco, quasi che si trattasse di realtà che partono viceversa dal mondo per “inserirsi” nel nostro corpo? Per la semplice ragione che un conto è osservare le cose dal punto di vista umano, altro osservarle dal punto di vista cosmico.
Può però adottare il secondo di questi due punti di vista solo chi si sia appropriato di quella logica della qualità che governa – come abbiamo ripetutamente detto – l’enantiodromia: ovvero, il rovesciamento nell’opposto. Cosa invero non facile (Steiner stesso dice: “Si arriva così a un capitolo molto difficile, forse il più difficile di tutti quelli che dobbiamo affrontare in queste conferenze pedagogiche” – p. 145).
Prendiamo ad esempio un guanto. Che cosa succede quando lo rovesciamo? E’ ovvio: che la parte interna diventa esterna, e viceversa. Con un guanto, o con qualunque altra realtà inorganica, la cosa finisce qui. Con la realtà organica è però diverso. Rovesciandola, infatti, non si ha solo il capovolgimento della forma, ma anche quello delle forze (morfogenetiche) che la creano; e queste, una volta passate dall’interno all’esterno, possono creare forme anche del tutto diverse.
“E’ relativamente facile – osserva appunto Steiner – riconoscere che le ossa del cranio procedono attraverso una metamorfosi, dalle vertebre. Ma diventa molto difficile comprendere come anche le ossa degli arti, e già quelle degli arti della testa (le due mascelle) siano la trasformazione, la metamorfosi delle vertebre (Goethe ha tentato di spiegarlo, ma ancora in modo esteriore)” (p. 146).
Cos’altro accade, infatti, quando le nostre ossa lunghe (il femore, la tibia. l’omero, ecc., o le nostre due mascelle) si metamorfosano, rovesciandosi, in ossa craniche? Ce lo spiega Steiner: “Disegnerò schematicamente una forma qualsiasi che prima sia bianca fuori e rossa dentro. La rovesciamo come un guanto, così che ora sia rossa all’esterno e bianca all’interno. Immaginiamo ora che la forma abbia forze interiori e che non possa semplicemente essere rovesciata come un guanto (che, se pur rovesciato, conserva la propria forma). Immaginiamo invece che la forma abbia forze diverse all’interno e all’esterno. Così vedremo che, rovesciandola, si produrrà una forma tutta diversa (…) Quando il rosso era all’interno non poteva sviluppare la propria forza; ora lo può, se è all’esterno. Lo stesso vale per il bianco, che riesce così a sviluppare la propria forza” (la citazione è tratta da una conferenza tenuta a Stoccarda il 1° gennaio 1921, ora pubblicata in Il rapporto delle diverse scienze con l’Astronomia – Antroposofica, Milano 2007 – ndr).

Dice Steiner: “Le ossa delle membra non sono dunque soltanto delle ossa craniche trasformate, ma anche rovesciate. Da che cosa dipende ciò? Dipende dal fatto che la testa ha il suo punto centrale nel suo interno. Invece il petto non ha il suo punto centrale nel mezzo della sfera, lo ha molto lontano (…) E il sistema delle membra, dove ha il suo punto centrale? Qui arriviamo a una seconda difficoltà. Il sistema delle membra ha il suo punto centrale su tutta la periferia. Il centro del sistema delle membra è una sfera, dunque proprio il contrario di un punto: una superficie sferica. Il punto centrale è propriamente dappertutto, perciò potete girarvi in ogni senso, e i raggi vi vengono incontro da tutte le direzioni e si riuniscono in voi. Quel che si trova nella testa, parte dalla testa. Quello che passa attraverso le membra si riunisce nell’uomo. Per questo, anche nelle altre conferenze (cfr. seconda parte dell’Arte dell’educazionendr) ho asserito che occorre pensare le membra come inserite nell’organismo umano. Noi siamo veramente un mondo intero; solo che quello che dall’esterno vuol penetrare entro di noi, finisce per condensarsi e diventare visibile. Un’infima parte di ciò che noi siamo diventa visibile nelle nostre membra, le quali rappresentano alcunché di corporeo, che però è solo una minima parte di ciò che si trova nel sistema delle membra dell’uomo. In questo sistema vi sono corpo, anima e spirito. Il corpo vi è solo accennato; ma vi è anche la parte animica, e vi è l’elemento spirituale che, in fondo, abbraccia tutto il cosmo” (pp. 146-147).

Essendo ormai tardi, ci occuperemo di questo passo la prossima volta. Nel frattempo, potremmo però prepararci, riflettendo, sia sul fatto che la struttura della testa è sferica, mentre quella degli arti non solo è raggiata, ma anche costituita da ossa (più o meno lunghe) che diminuiscono di numero man mano che ci si avvicina al tronco, sia soprattutto sul fatto che dobbiamo imparare a pensare immaginativamente il rapporto vigente tra il centro e la circonferenza di un cerchio.
Una cosa, infatti, è vedere (staticamente) nella circonferenza il luogo dei punti equidistanti da un ulteriore punto, detto “centro”, altra è immaginarla (dinamicamente) come il prodotto di un moto di espansione del centro, ed immaginare il centro come il prodotto di un moto di contrazione della circonferenza.
Steiner, nel Corso di pedagogia curativa (Antroposofica, Milano 1997 – ndr), suggerisce, in proposito, la seguente meditazione: “Alla sera ci poniamo davanti all’anima questa immagine: in me è Dio, e, la mattina dopo, l’altra: io sono in Dio. La figura superiore e quella inferiore sono un’unica cosa. Dobbiamo semplicemente capire che cosa è un cerchio e che cosa è un punto. Il punto alla sera non viene all’esterno, ma solo al mattino. Al mattino occorre pensare: “Questo è un cerchio, questo è un punto”. Si deve capire nel proprio intimo che un cerchio è un punto, che un punto è un cerchio”. (La figura superiore cui si riferisce Steiner è quella di un cerchio avente la circonferenza blu e il centro giallo, mentre la figura inferiore è quella di un cerchio avente, all’inverso, la circonferenza gialla e il centro blu. La mattina [“io sono in Dio”], l’Io umano, che si fa punto, è nell’Io divino, che si fa circonferenza, mentre, la sera [“in me è Dio”], l’Io divino, che si fa punto, è nell’Io umano, che si fa circonferenza).
Continueremo giovedì prossimo.

Roma, 11 maggio 2000

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Di Lucio Russo
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