Antropologia (31)

A

Abbiamo visto, la volta scorsa, che il tronco e gli arti impediscono alle forme animali attive nella testa di prendere “corpo”, mentre la testa e gli arti lo impediscono alle forme vegetali attive nel tronco. Vedremo adesso che sono soprattutto gli arti a neutralizzare le forme minerali delle sostanze che assumiamo nutrendoci.
Prima, però, sarà opportuno fare qualche altra breve considerazione sul problema delle malattie.

Dice Steiner: “Così s’intreccia quel fine tessuto di processi che la medicina e l’igiene del futuro dovranno studiare in modo del tutto speciale (…) In rapporto a questi fatti la medicina odierna si trova ancora ai suoi primissimi inizi: essa, per esempio, attribuisce maggior valore alla scoperta di bacilli, di batteri, come cause di forme patologiche, e quando li ha trovati è contenta. Ma è molto più importante riconoscere come accada che l’uomo, a un certo momento della sua vita, sia capace di sviluppare in sé un leggerissimo processo di vegetazione, in modo che i bacilli vi sentano un luogo di soggiorno gradevole. L’importante è che noi conserviamo la nostra costituzione fisica in uno stato tale che essa non possa diventare un luogo di soggiorno favorevole per nessuna genìa vegetale; se faremo ciò, i signori bacilli non potranno prosperare troppo dentro di noi” (pp. 177-178).

Penso sappiate che tra le numerose fobie vi è anche la “patofobia”: ovvero, la fobia delle malattie. Si tratta indubbiamente di uno stato morboso, ma non si può negare che l’odierna mentalità medica (allopatica) favorisca non poco il suo insorgere. Pensare che le malattie siano l’effetto e i batteri o i virus la causa, pensare cioè di vivere in un ambiente affollato da innumerevoli microrganismi pronti direttamente o indirettamente (mediante il contagio) ad aggredirci, infirmando o distruggendo così la nostra salute, può fare in effetti paura (se non addirittura generare, per reazione, degli stati paranoidei).
Basterebbe però riflettere sul fatto che esistono i cosiddetti “portatori sani”, ossia coloro che, pur ospitando nel loro organismo il presunto ”agente patogeno”, non sviluppano la malattia, per realizzare che tale spiegazione meccanicistica dell’insorgere delle malattie lascia molto a desiderare.
Fatto si è che i “signori bacilli” possono “prosperare” soltanto quando trovano, in noi, un habitat a loro favorevole. E quando ve lo trovano? Quando non funziona a dovere il cosiddetto “sistema immunitario”: ovvero, quando il tronco e gli arti non neutralizzano l’attività “animale” della testa, quando la testa e gli arti non neutralizzano l’attività “vegetale” del tronco, o quando gli arti non neutralizzano l’attività “minerale” delle sostanze ingerite con l’alimentazione; quando l’uomo, insomma, avvicinandosi troppo alla vita animale, vegetale o minerale, perde il suo (instabile) equilibrio umano.
Se è vero, come ho ricordato giovedì scorso, che “in medio stat virtus”, ancor più vero, dunque, è che “in medio stat humanitas” (tant’è – afferma Steiner – che l’uomo autentico è quello del tronco, mentre l’uomo della testa è arimanizzato e quello delle membra è luciferizzato).
La malattia rappresenta quindi una perdita di humanitas, mentre la guarigione ne rappresenta il ritrovamento.
In quanto membri di un’umanità “caduta” (“l’uomo – afferma Scaligero – è un malato in via di guarigione”), ci troviamo tuttavia in una condizione nella quale la malattia (quale “negazione di una negazione”), può rappresentare, al contrario, il ritrovamento dell’humanitas o, per meglio dire, un’opportunità o un’occasione di ritrovarla (non a caso, le entità luciferiche e arimaniche si tengono prudentemente alla larga dagli ospedali, o da qualsiasi altro luogo di sofferenza).
Dice infatti il Cristo, riferendosi a Lazzaro: “Questa non è una malattia da morirne, ma è per la gloria di Dio, affinché il Figlio di Dio ne sia glorificato”.

Dice Steiner: “Ora resta ancora una questione da studiare: come si comportano, nell’insieme dei processi vitali umani, lo scheletro e i muscoli, quando esaminiamo il corpo umano nei suoi rapporti col mondo esterno? Arriviamo così a qualcosa che dovete assolutamente afferrare se volete comprendere l’uomo, ma di cui la scienza moderna non ha ancora intravisto quasi nulla (…) Pensate di poter fotografare, per mezzo di un processo ingegnoso, non l’uomo che cammina, ma le forze che egli adopera quando cammina, per alzare la gamba, per posarla di nuovo, per alzare l’altra gamba, e via di seguito. Dell’uomo, dunque, non si fotograferebbe nulla; soltanto le forze in gioco. Se poi poteste vedere svilupparsi queste forze, vedreste la fotografia di un’ombra, anzi, nella marcia, di una serie di ombre. Commettete un grave errore se credete che il vostro io viva nei vostri muscoli, nella vostra carne. Anche quando siete svegli, il vostro io non vive nei muscoli e nella carne, ma vive principalmente nelle ombre che risulterebbero dalle suddette fotografie, cioè nelle forze mediante le quali il vostro corpo compie i suoi movimenti (…) Voi vivete continuamente entro delle forze” (pp. 178-179).

Una cosa è il movimento, altra il mosso. Noi ad esempio ci muoviamo, mentre i pantaloni, i calzini o le scarpe che indossiamo sono mossi.
Ebbene, l’intero corpo fisico (minerale) non si muove, ma è mosso. Che cos’è infatti il corpo fisico? E’ ciò che Steiner chiama, nelle sue Massime, l’”opera compiuta” (dell’”Entità divino-spirituale”): ossia, il “fatto”, il “finito” o il “divenuto”.
L’Io vive dunque nel movimento (“entro delle forze”), e non nel mosso (“nei muscoli e nella carne”). Il mosso (il corpo fisico) è infatti una forma o un’immagine dell’Io che, se non fosse mossa dalla forza dell’Io, non si muoverebbe (così come non si muove il cadavere, in quanto abbandonato appunto dall’Io).
Il movimento è tempo e vita. Non si possono perciò pensare il tempo e la vita se non si sa pensare il movimento. E come s’impara a pensare il movimento? Muovendo il pensiero e osservandolo (mediante l’esercizio della concentrazione).
Ascoltate quanto scrive Scaligero (in Tecniche della concentrazione interiore – Mediterranee, Roma 1985): “Delle tre facoltà, pensare, sentire, volere, che l’uomo moderno ha unicamente riflesse dal fisico, una sola può essere da lui ripercorsa a ritroso sino alla radice metafisica: il pensare (…) Il pensiero può ripercorrere il proprio processo: con ciò attua il proprio autentico movimento, il movimento puro, indipendente dalla cerebralità…”.

Dice Steiner: “Quando vi nutrite, accogliete in voi anche sostanze minerali di tutti i generi. Anche quando non salate fortemente la minestra, assorbite lo stesso delle sostanze minerali, perché tutti gli alimenti ne contengono. Avete bisogno di assorbire sostanze minerali. E che cosa fate di tali sostanze? La vostra testa non può fare gran che con esse; e neppure il sistema del petto e del tronco. Ma il sistema delle membra, invece, impedisce che queste sostanze minerali prendano entro di voi la forma cristallina che ad esse è propria. Se non sviluppaste le forze del sistema degli arti, diventereste un cubo di sale non appena aveste ingerito del sale. Il sistema degli arti, lo scheletro e il sistema dei muscoli hanno la tendenza continua ad agire in senso opposto alla formazione di minerali come l’ha la terra; cioè tendono a dissolvere i minerali. Le forze che nell’uomo dissolvono i minerali, provengono dal sistema degli arti” (pp. 179-180).

Fuori dell’uomo, il minerale fa il minerale, il vegetale fa il vegetale e l’animale fa l’animale; dentro l’uomo, invece, il minerale, il vegetale e l’animale devono fare soltanto ciò di cui l’umano ha bisogno. A tal fine, l’Io deve incessantemente mantenere entro i limiti umani l’attività del corpo astrale (animale), utilizzando al contempo il corpo astrale, per mantenere entro i limiti umani l’attività del corpo eterico (vegetale), e il corpo eterico, per mantenere entro gli stessi limiti l’attività del corpo fisico (minerale).

Dice Steiner: “Quando un processo patologico sorpassa lo stadio puramente vegetativo, cioè quando il corpo ha la tendenza a lasciar sviluppare in sé non solo il vegetale, ma anche a permettere un processo di cristallizzazione dei minerali, allora si tratta di una forma di malattia molto più grave, più distruttiva, come per esempio il diabete” (p. 180).

Vorrei approfittare di questo accenno al diabete, per cercare di chiarire ancora una volta l’equivoco di cui è solitamente vittima il concetto di forza o di volontà.
Affermare – come fa Steiner – che “le forze che nell’uomo dissolvono i minerali, provengono dal sistema degli arti” equivale infatti a dire che provengono, dal punto di vista animico, dalla volontà. E che cosa dovremmo pensare, allora, vedendo distruggere dal diabete – come a me è purtroppo capitato – proprio un uomo del “fare”, cioè un uomo intraprendente, attivo, aggressivo, e giudicato quindi “forte” o “volitivo”?
Dovremmo concludere che un caso del genere ci obbliga a rivedere quanto sostenuto da Steiner? Niente affatto. Dovremmo piuttosto concludere che ci obbliga a rivedere la nostra rappresentazione della forza o della volontà. Questa, infatti, è normalmente ipotecata da Arimane.
Ricordo ancora quanto mi disse una volta Scaligero: “E’ facile essere forti quando si è cattivi; è facile essere buoni quando si è deboli; difficile è essere forti perché buoni, e buoni perché forti”.
Qual è dunque il nostro compito? Strappare ad Arimane l’idea della forza per restituirla al Cristo. Ma non a quello del solo Venerdì santo o della sola passione e morte, che, nell’apparirci – come si usa appunto dire – un “povero Cristo”, finisce di fatto col riconfermare l’idea che la forza stia altrove, bensì al Cristo del Venerdì santo e della Pasqua, ossia della morte e della resurrezione.
La vera forza, dunque, è quella dell’anima unita amorevolmente allo spirito (“il Signore è con te”): la forza di Lucifero (apparente come debolezza umana) è infatti quella di un’anima senza spirito, mentre quella di Arimane (apparente come forza umana) è quella di uno spirito senz’anima.
Abbiamo finito la dodicesima conferenza. Cominciamo subito la tredicesima.

Dice Steiner: “Dobbiamo prendere in considerazione un duplice aspetto del rapporto dell’uomo col mondo perché, come abbiamo detto, la conformazione degli arti è del tutto opposta a quella della testa. Dobbiamo renderci familiare la difficile idea secondo la quale non possiamo comprendere la forma degli arti se non ci rappresentiamo la forma della testa per analogia con un guanto o con una calza che vengono rovesciati. Il fenomeno che viene ad esprimersi in questo modo è di grandissima importanza per tutta la vita umana. Se rappresentiamo ciò con un disegno (con quello a p. 182 – nda), le cose stanno così: la testa è formata in modo che vi si eserciti una pressione dall’interno verso l’esterno ed essa venga come gonfiata da dentro. Se invece pensiamo agli arti, dobbiamo rappresentarci che, per effetto del rovesciamento di cui abbiamo parlato, la pressione su di essi viene esercitata dall’esterno verso l’interno; ciò ha un grande significato per la vita umana. Immaginatevi che ciò che costituisce il vostro essere interiore prema dall’interno contro la vostra fronte: ora, la superficie interna delle vostre mani e dei vostri piedi risente anch’essa continuamente una pressione che è uguale a quella che si esercita dall’interno sulla fronte, ma che è diretta in senso contrario. Mentre poi portate la mano incontro al mondo esterno o appoggiate la pianta del piede sopra il suolo, entra in voi, attraverso la mano o il piede, una corrente dall’esterno che è la stessa che fa pressione dall’interno contro la fronte” (pp. 182-183).

Possiamo farci un’idea di queste due opposte correnti, pensando a quelle animiche del pensare e del percepire. La prima (efferente) esercita infatti “una pressione dall’interno verso l’esterno”, mentre la seconda (afferente) l’esercita “dall’esterno verso l’interno”. Se poi ci ricordiamo che il percetto è quella metà dell’entelechia (dell’essenza dell’oggetto o del fenomeno) che muove dall’oggetto incontro al soggetto, mentre il concetto è quella metà della stessa che muove dal soggetto incontro all’oggetto, possiamo anche capire il perché Steiner dica che si tratta di due pressioni o correnti uguali. Per questo – come pure ricorderete – ho sempre parlato dell’immagine percettiva come del risultato dell’incontro o dello scontro dell’essenza dell’oggetto con quella del soggetto (con l’Io).

Dice Steiner: “E che cos’è l’uomo di fronte a questo elemento animico-spirituale che scorre in lui? Immaginate un corso d’acqua che incontri uno sbarramento: esso si arresta e rifluisce indietro. Così nell’uomo rifluisce la corrente animico-spirituale, l’uomo è come uno sbarramento per questa corrente. Essa vorrebbe passare liberamente attraverso il corpo umano, ma ne viene trattenuta e deve rallentare, fino ad arrestarsi (…) E come agisce essa nei riguardi del corpo fisico? Tende continuamente a succhiarlo, ad assorbirlo. L’uomo si distingue dal mondo esterno, ma le forze animico-spirituali che stanno in quel mondo cercano continuamente di assorbirlo. Perciò noi ci sfaldiamo continuamente (…) Effettivamente lo spirito, venendo dall’esterno vuole distruggerci succhiandoci; esso tende a distruggere tutto, ma il corpo si oppone a questa azione distruggitrice. Nell’uomo deve essere creato un equilibrio tra le forze distruggitrici del mondo animico-spirituale, e quelle incessantemente costruttrici del corpo. Il sistema del petto e dell’addome è inserito in questa corrente, ed è quello che si oppone alla distruzione cui tende l’animico-spirituale; è anche quello che rifornisce di materia l’uomo intero” (pp. 183-184).

Benché si stia parlando del corpo, torniamo ancora una volta, per aiutarci, a La filosofia della libertà. Abbiamo detto che il percetto è quella metà dell’entelechia (dell’essenza dell’oggetto o del fenomeno) che muove dall’oggetto incontro al soggetto, mentre il concetto è quella metà della stessa che muove dal soggetto incontro all’oggetto. E’ solo però nell’incontro o nello scontro con l’uomo che l’entelechia si divide in queste due metà. Ecco lo “sbarramento”: ed ecco quindi come nasce un essere destinato non soltanto, come tutti gli altri, a esistere, ma a divenire cosciente della propria esistenza ed essenza.
Ricordo, a questo proposito, di aver detto, una sera (cfr. 17° incontro), che il circolo o l’anello della natura (l’inconscia continuità naturale) deve spezzarsi, se si vuole che una sua estremità possa osservare e pensare, avendola di fronte a sé, l’altra.
Da questo punto di vista, l’uomo è un’autentica “zeppa” inserita nel corpo della natura. Pensate che Paolo Flores d’Arcais, nel suo L’individuo libertario (cfr. L’individuo libertario, 2 febbraio 2002 – ndr), definisce, quella umana, “una specie zoologica contro-natura”, senza rendersi conto che tale specie in tanto è “contro-natura” in quanto è spirituale e non “zoologica” o naturale, e che non è “zoologica” o naturale proprio perché impedisce alle forze animico-spirituali del mondo di fare con gli uomini quel che fanno con i minerali, i vegetali e gli animali.
Se dipendesse dalla natura, cioè a dire dalle forze animico-spirituali che vi operano, verremmo, come uomini, distrutti.
Considerate, ad esempio, quei processi infiammatori che comportano, come nel caso della tisi, un dissolvimento o una distruzione della sostanza. Un tempo, di qualcuno morto di tisi, non si diceva che era morto appunto di “consunzione”?
Da sole, dunque, sia la corrente cosmica che preme (nella testa) dall’interno verso l’esterno, sia quella che preme (negli arti) dall’esterno verso l’interno, non consentirebbero all’uomo di essere (anche fisicamente) quello che è; è perciò necessario che intervenga, come sempre, una “terza” corrente (quella “del petto e dell’addome”) a contrastare, bilanciare e armonizzare le opposte azioni delle prime due.
In ogni caso, che le une si mostrino “distruggitrici” e le altre “creatrici” dipende dal punto di vista da cui le si osserva.
Osservate dal punto di vista della coscienza (del nervo), risultano ad esempio “creatrici” le correnti o le forze che per la vita sono “distruggitrici”; osservate dal punto di vista della vita (del sangue), risultano invece “creatrici” quelle che per la coscienza sono “distruggitrici”.
Ci fermiamo qui. Continueremo la prossima volta.

Roma, 15 giugno 2000

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Di Lucio Russo
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