Pensare il Novecento (1)

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Nel 1999, l’Associazione culturale SOURCE ONLUS ha pubblicato in un unico testo tre brevi scritti di Lucio Russo: L’anima cosciente e la modernità; Pensare il Novecento; Aspetti della “Questione Sociale” . Augurandoci di fare cosa gradita ai nostri lettori, pubblichiamo qui il secondo (diviso in tre parti), in una versione riveduta e aggiornata dall’autore.

Se oggi ci si accompagna alla gente che sta sulla destra (e naturalmente non lo si fa se si ha del criterio), si conserva una vecchia civiltà luciferica con i suoi residui; se ci si accompagna con gente della sinistra, ci si espone al pericolo di collaborare alla costruzione di un mondo che è puramente arimanico (…) Già oggi avviene che chi vede i problemi può in sostanza dire sempre e soltanto delle cose che in definitiva sono scomode per tutti gli uomini di oggi, di sinistra o di destra
Rudolf Steiner (O.O. 192, pp. 109 e 250)

Pensare il Novecento (1)

Scrive Marcello Veneziani: “Il dramma con cui si chiude il Novecento è la sua finale incomprensione. Strada facendo abbiamo perduto, dissipato e abiurato, tutte le idee-guida che davano un senso e una coerenza al Novecento. Nel bene e nel male. Idee-guida non solo nel senso di ideologie, ma anche di filosofie, concezioni del mondo, orientamenti etici e intellettuali per capire il nostro tempo e coglierne il nesso unitario. Pensavamo che la liberazione dalle idee-guida ci restituisse la storia nella sua nuda autenticità, nella sua realtà effettuale, senza filtri né lenti colorate; e invece, privi di un’idea, cogliamo la storia nella sua caotica insensatezza, attraverso brandelli inanimati, anche se a volte ancora sanguinanti. Non raccogliamo il Novecento ma lo vediamo sgranarsi, scivolare e disperdersi in tanti piccoli e astiosi secoli incomunicanti tra loro. Non riusciamo a pensare il Novecento” (1).
Ebbene, è plausibile che non si riesca a “pensare il Novecento” se si è riusciti a pensare la storia che l’ha preceduto? O non è più probabile che in tanto non lo si riesca a pensare in quanto non si riesce a pensare davvero la storia e, in primo luogo, gli uomini che la fanno?
“Per certi versi – scrive ancora – il Novecento appare come una malattia che produce stati d’amnesia e stati d’allucinazione” (2).
E se non fosse stato il Novecento a produrre tali stati morbosi, ma fossero stati questi a produrre il Novecento? Non è infatti la minaccia di un loro perdurare – come paventa Veneziani – che rischia di rendere il Novecento un “secolo sterminato”?
“Sterminato – spiega – perché pieno di eventi come mai era accaduto in precedenza: l’accelerazione della storia, la densa vastità dei suoi avvenimenti, la sua dilatazione a livello mondiale, danno una dimensione sterminata al secolo. Poi sterminato perché, pur giunto al suo capolinea cronologico, appare in realtà non terminato, non digerito né superato dai suoi abitanti, ma lasciato inconcluso, attraverso fughe, amnesie parziali e rimozioni collettive. E infine sterminato perché la sua storia è storia di stermini. Stermini di uomini, di popoli, di regimi, di idee, di ecosistemi, come mai era accaduto nella storia dell’uomo” (3).
Non si creda che sia il solo Veneziani a pensarla così.
Scrive, ad esempio, il sociologo ed economista James O’ Connor: “Un resoconto completo del ventesimo secolo è impossibile non solo a causa della complessità delle questioni e dell’opacità della storia mondiale ma anche a causa dello specialismo delle scienze sociali (…) La storia mondiale del ventesimo secolo è così opaca che gli studiosi di scienze sociali non sono in grado di analizzarla né di capirla nei suoi dettagli, usando i metodi storici a loro disposizione” (4).
Anche qui, ci si dovrebbe però domandare: è la storia mondiale del ventesimo secolo a essere “opaca”, o non è piuttosto la coscienza degli “studiosi di scienze sociali” a essere tale?
Fatto sta che se si vuole pensare davvero il Novecento (per magari ricavarne qualche utile lezione), e non limitarsi a definirlo il secolo “delle ideologie” (5), “dell’odio” (6), “da dimenticare” (O’ Connor), oppure “sterminato” (Veneziani), “breve” (7), “innominabile”, “doloroso”, “smisurato” o “futuro-dipendente” (8), s’impone allora la necessità di guardare con altri occhi agli eventi che hanno caratterizzato la seconda metà dell’Ottocento.
Afferma al riguardo Steiner: “Partendo dal 1845 e aggiungendo 33 anni si arriva al 1878, e questo era all’incirca l’anno fino al quale fu lasciato tempo all’umanità per penetrare la realtà delle idee sbocciate nel decennio 1840-50. Nell’evoluzione storica moderna è straordinariamente importante tener presente i tre o quattro decenni ricordati, perché proprio su di essi l’uomo odierno deve raggiungere la massima chiarezza, deve cioè divenire cosciente del fatto che fra il 1840 e il 1850 cominciarono a fluire nell’umanità in forma astratta le cosiddette idee liberali, e che all’umanità, per afferrarle e trasformarle in realtà, fu concesso tempo fin verso il 1880. La borghesia era portatrice di queste idee, ma essa mancò l’occasione di realizzarle” (9).
Quali erano queste idee?
Per rispondere a questa domanda, converrà fare un passo indietro e riprendere la celebre Lettera sulla tolleranza di John Locke (1689), dal momento che vi si trova espressa nel modo più chiaro la volontà liberale di emancipare la sfera politica o giuridica dalla soggezione a quella religiosa o spirituale.
Scrive Locke: “La rettitudine – che non è parte minima della religiosità e della vera devozione – interessa anche la vita civile; e in essa sta tanto la salvezza delle anime quanto quella dello stato. Le azioni morali sono dunque pertinenti sia al tribunale esteriore quanto a quello del proprio intimo; e sono soggette sia al reggitore civile sia a quello personale, vale a dire, cioè, tanto al magistrato quanto alla coscienza. E in ciò risiede un grande pericolo: che l’una di queste giurisdizioni non interferisca nell’altra e disaccordi non nascano fra il custode della quiete pubblica e quello dell’anima (…) La società civile è costituita al solo fine di assicurare ad ognuno il possesso delle cose terrene. La cura della propria anima e di tutto ciò che concerne il regno dei Cieli – che né compete allo stato né può essere ad esso soggetto – è interamente lasciato ai singoli individui (…) I capi della chiesa, spinti dall’avidità e da un’insaziabile brama di dominio, facendosi strumento della smodata ambizione dei magistrati e della superstizione della folla incostante, hanno acceso ed aizzato gli uni e l’altra contro quelli d’altra fede, predicando contro le leggi del Vangelo e i precetti della carità, che gli scismatici e gli eretici andavano spogliati d’ogni loro avere e annientati: e così facendo hanno confuso due cose ben diverse fra loro: chiesa e stato” (10); e così conclude: “Assoluta libertà, giusta e vera libertà, eguale ed imparziale libertà, ecco ciò di cui abbiamo bisogno” (11).
Ma che cosa è poi accaduto? Che la libertà, nell’intento di affermare il valore della soggettività e dello “Stato di diritto”, è entrata in conflitto con la verità.
Osserva appunto Ernesto De Marchi: “Il principio “critico” che il Locke pose a fondamento della sua dottrina sulla tolleranza non fu semplicemente il riflesso dei dubbi dogmatici e dello scetticismo scritturale del suo tempo; fu piuttosto, il principio metodologico che la scienza e la filosofia del suo tempo andava proponendo, principio che il Locke elaborò organicamente nel Saggio sull’intelletto umano. Il metodo critico è la grande conquista del secolo. Esso si identifica con una nuova concezione dell’uomo e una nuova concezione dei rapporti dell’uomo con la scienza e la filosofia. La scienza del Rinascimento, la filosofia di Descartes e di Bacone furono l’affermazione della libera ricerca contro i dogmi della cultura medievale, la ribellione dell’uomo contro gli idoli. Parallelamente, nel campo della fede religiosa, il secolo della riforma vide esplodere l’aspirazione alla interpretazione individuale del dogma anche contro i nuovi dogmi che la riforma stessa cercava di stabilire; e, nel mondo dei rapporti politici, l’individuo si affermò contro la rigida struttura degli ordinamenti medievali, determinando il prevalere del contratto sullo status. Ma questa fu solo la prima fase del processo. La seconda cominciò quando l’ansia di ricerca e di rinnovamento, che pervade la rivoluzione individualistica, ripiegò sul soggetto stesso di quella ricerca, nell’investigazione dei suoi limiti e delle sue debolezze. Da qui nacque il nuovo metodo. Lo applicò, senza averlo completamente elaborato, la pubblicistica politico-religiosa protestante, trasformando la sfida all’infallibilità della Chiesa di Roma in una sfida all’infallibilità senza aggettivi” (12).
Alla verità oggettiva e assoluta dell’autorità tradizionale, che limita o nega la libertà, il liberalismo oppone dunque una libertà soggettiva che relativizza o nega la verità.
Come abbiamo visto, sua prima preoccupazione è infatti quella di fare dello Stato il garante del diritto.
“La storia del liberalismo – afferma appunto Raimondo Cubeddu – può anche essere vista come una plurisecolare lotta per affrancare quella particolare costruzione, che è lo stato occidentale moderno, dalla religione e dall’etica” (13).
Nella sua fase iniziale, tale lotta si dirige contro la teocrazia, l’autocrazia o l’assolutismo: ossia, contro la subordinazione della sfera politica o giuridica a quella spirituale (papi, re o imperatori governano per “diritto divino”). In tempi più recenti, la stessa lotta si dirige invece contro le varie forme del cosiddetto “Stato etico” (o, come si preferisce dire oggi, “totalitario”): ossia, contro la subordinazione della sfera spirituale a quella politica o giuridica.
Proprio nel periodo indicato da Steiner (tra il 1845 e il 1878), appare il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels (pubblicato a Londra nel 1848); nel 1863, Ferdinand Lassalle fonda (in Germania) il primo partito “socialista; nel 1864, su iniziativa di Marx, viene fondata (a Londra) la Prima Internazionale socialista e, nel 1871, scoppia a Parigi una rivoluzione “socialcomunista” che dà vita alla Comune.
E’ in questo periodo, dunque, che esplode, in tutta la sua virulenza, la cosiddetta “questione sociale”, e che la borghesia, cedendo, da un lato, alla “brama del guadagno” (Sombart) del materialismo capitalista (il termine “capitalismo” fa la sua apparizione nel 1849, e si diffonde dopo il 1860) e, dall’altro, alla paura dell’aggressività e dell’odio del materialismo socialcomunista, rinnega i suoi trascorsi rivoluzionari, finendo col ripiegare su posizioni conservatrici (14).
Che cos’altro è infatti accaduto?
E’ accaduto che il liberalismo, impegnato a emancipare la sfera politica o giuridica da quella spirituale (ad esempio, con le Carte del 1689, 1776 e 1789), non solo ha trascurato di non subordinare quest’ultima alla sfera economica, ma, sulla scia della rivoluzione industriale (che si realizza, in Inghilterra, tra il 1760 e il 1830) (15), ve l’ha anzi vincolata, trasformandosi per ciò stesso in “liberismo” (utilitarista) (16).
“L’insegnamento essenziale del liberalismo – dichiara Ludwig von Mises – è che la cooperazione sociale e la divisione del lavoro possono essere raggiunte solo in un sistema di proprietà privata dei mezzi di produzione, cioè in una società di mercato, o capitalismo. Tutti gli altri principi del liberalismo, – democrazia, libertà personale dell’individuo, libertà di parola e di stampa, tolleranza religiosa, pace fra le nazioni – sono conseguenze di questo postulato basilare” (17).
Ben si comprende, quindi, il perché Marx abbia considerato la sfera politica o giuridica (insieme a quella spirituale) una mera “sovrastruttura” di quella economica, e, nel Manifesto, si sia rivolto ai borghesi in questi termini: “Il vostro diritto non è se non il volere della vostra classe elevato a legge, un volere il cui contenuto è già dato dalle condizioni materiali d’esistenza della vostra stessa classe” (18).
Quel ch’è certo, comunque, è ch’è impossibile comprendere questi eventi se si è all’oscuro del fatto che il processo grazie al quale vengono progressivamente ad articolarsi e differenziarsi l’attività spirituale, l’attività politica o giuridica e quella economica non è che la manifestazione esteriore di un processo che riguarda l’evoluzione interiore dell’uomo.
Questi – secondo quanto indicato da Steiner – dal 3654 a.C. (data d’inizio dello sviluppo dell’anima senziente) comincia infatti a passare, quale “uomo della testa” (di una testa ancora “vivente”), da un precedente e unitario stato inconscio e istintivo, “all’organizzazione sociale teocratica, in certo qual modo compenetrandosi di religiosità. Il resto rimane ancora istintivo; quanto si riferisce al secondo uomo, all’uomo del petto, all’uomo della respirazione e quanto si riferisce all’uomo del ricambio rimane istintivo. Allora l’uomo non pensava ancora di vedere ciò in qualche modo riflesso come immagine nell’ordinamento esteriore” (19).
Solo dal 747 a.C. (data d’inizio dello sviluppo dell’anima razionale-affettiva), “l’uomo – prosegue Steiner – pretese che nella struttura sociale esteriore si riflettessero due parti del suo essere: l’uomo della testa e l’uomo ritmico o del respiro, l’uomo del petto. Vi si doveva riflettere quello che era l’antico ordinamento teocratico, ma ora solo come una risonanza. In effetti gli ordinamenti teocratici veri e propri sono molto congeniali col terzo periodo postatlantico, e così anche è per gli ordinamenti cattolici. Tutto questo dunque continua e, nuovo, si aggiunge ciò che deriva specialmente dal periodo greco-latino: gli ordinamenti esteriori della res publica, gli ordinamenti che si riferiscono all’amministrazione della vita esteriore, in quanto amministrazione della giustizia e così via” (20).
L’uomo, dunque, “oggettiva” o “reifica” socialmente, in un primo tempo, la propria vita di pensiero nell’organizzazione spirituale e, in un secondo tempo, la vita del proprio sentire nell’organizzazione politica o giuridica.
A partire dal 1413 d.C. (data d’inizio dello sviluppo della moderna anima cosciente), l’uomo comincia tuttavia a pretendere – come dice sempre Steiner – “di vedere in immagine l’intero uomo triarticolato, anche nella struttura sociale in cui si trova. Pertanto al giorno d’oggi dobbiamo studiare l’uomo triarticolato, perché esso sviluppa l’istinto triarticolato di avere nella struttura esteriore, nella struttura sociale, quello che ho spiegato: in primo luogo un campo spirituale, che possiede un’amministrazione autonoma, una struttura propria; in secondo luogo un campo amministrativo, sicurezza pubblica e ordine civile, vale a dire un campo politico che pure possiede la propria autonomia, e come terzo un campo economico. Si verifica per la prima volta che anche per il settore economico il nostro periodo richiede un’organizzazione esteriore. Solo nel nostro periodo si manifesta come istinto l’esigenza di vedere realizzata nella struttura sociale l’immagine dell’uomo. Questa è la ragione più profonda per la quale non agisce più un semplice istinto economico, ma per cui la classe economica che è stata appena creata, il proletariato, si sforza di istituire esteriormente in modo cosciente la struttura economica, così come il quarto periodo postatlantico istituì la struttura amministrativa del diritto, e come il terzo periodo postatlantico, l’egizio-caldaico, istituì la struttura teocratica” (21).
Notiamo, dunque, che la “triarticolazione” dell’organismo sociale indicata da Steiner è cosa diversa da quella “tripartizione” dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) che, a partire da Montesquieu (Lo spirito delle leggi è del 1748), è stata propugnata dal costituzionalismo liberale: questa è infatti una tripartizione nello Stato, mentre la prima è, per così dire, una triarticolazione dello Stato.
Notiamo, inoltre, che la nota dottrina liberista del “laisser-faire” (del “lasciar fare e del lasciar passare”) altro non è che l’anacronistica espressione teorica di quel “semplice istinto economico” che ormai non opera più in modo sano, in quanto esige di essere sostituito da un’iniziativa e da un’attività coscienti.
Fatto si è che tutto l’impianto teorico (nominalistico) (22) del liberalismo “etico-politico” (Croce) affonda le sue radici nell’anima razionale-affettiva; ciò spiega il perché i suoi seguaci associno, in modo astratto (filosofico-teoretico), il momento “etico” al momento “politico” (giuridico-formale), e siano incapaci d’immaginare una concreta, viva e autonoma organizzazione spirituale.
(continua)

Note:

01) M.Veneziani: Il secolo sterminato – Rizzoli, Milano 1998, p. 7;
02) ibid., p. 9;
03) ibid., pp. 8-9;
04) J.O’Connor: Ventesimo secolo da dimenticare – Datanews, Roma 1998, pp. 32, 33 e 34;
05) K.D.Bracher: Il Novecento. Secolo delle ideologie – Laterza, Roma-Bari 1999;
06) G.Moriani: Il secolo dell’odio – Marsilio, Venezia 1999;
07) E.Hobsbawm: Il secolo breve – Rizzoli, Milano 1995;
08) AA.VV.: ’900 un secolo innominabile – Marsilio, Venezia 1998;
09) R.Steiner: Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, pp. 87-88. Nota allo stesso proposito Hobsbawm: “Gli anni dal 1789 al 1848 furono dominati da una duplice rivoluzione: quella industriale, inaugurata dalla Gran Bretagna e in larga misura ad essa circoscritta, e quella politica legata, e in larga misura circoscritta alla Francia”; nel 1848, però, “la rivoluzione politica passa in secondo piano” e “la rivoluzione industriale in primo”: ovvero, la rivoluzione inglese, liberista, fagocita quella francese, liberale (Il trionfo della borghesia (1848-1875) – Laterza, Bari 1994, p. 4);
10) J.Locke: Lettera sulla tolleranza – La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 71, 75 e 93;
11) ibid., p. 108;
12) E.De Marchi: introduzione alla citata Lettera sulla tolleranza di Locke;
13) R.Cubeddu: Atlante del liberalismo – Ideazione, Roma 1997, p. 12;
14) scrive Hobsbawm: “Da quando Parigi vide sorgere le sue barricate, tutti i liberali moderati (e, come notava Cavour, buona parte degli stessi radicali) divennero conservatori in potenza” (Il trionfo della borghesia, p. 20). “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, così si chiude – com’è noto – il Manifesto di Marx ed Engels; e Steiner commenta: tale unione si fonda “sul contrasto, sull’odio contro coloro che non sono proletari” (Esigenze sociali dei tempi nuovi – Antroposofica, Milano 1971, p. 166). Dichiara, ad esempio, il celebre filosofo e scrittore comunista Paul Nizan: “Non sia immune dall’ira alcuna delle nostre azioni (…) Se troverete che i vostri genitori e le vostre mogli sono del partito nemico, abbandonateli. Non bisogna temere di odiare. Non bisogna temere di essere dei fanatici (…) Spinoza dice che l’odio e il pentimento sono i due nemici del genere umano: ignorerò il pentimento, vivrò con l’odio” (Aden Arabie – Fahrenheit 451, Roma 1994, p. 179);
15) si tenga presente che quella “industriale”, dopo quella “scientifica” e quella “politica”, è la terza rivoluzione della modernità;
16) cfr. B.Croce – L.Einaudi: Liberismo e liberalismo – Ricciardi, Milano 1957;
17) L.von Mises: Lo Stato onnipotente – Rusconi, Milano 1995, p. 75;
18) cit. in G.Trevisani: Piccola enciclopedia del socialismo e del comunismo – Cultura nuova, Milano 1948, p. 105;
19) R.Steiner: Esigenze sociali dei tempi nuovi, p. 56;
20) ibid., p. 56;
21) ibid., pp. 57-58;
22) scrive von Mises: “Il contrasto tra realismo e nominalismo che attraversa, fin dai tempi di Platone e di Aristotele, la storia del pensiero umano, si manifesta anche in filosofia sociale. La differenza tra l’atteggiamento del collettivismo e quello dell’individualismo riguardo al problema delle istituzioni sociali non è diversa dalla differenza di atteggiamento dell’universalismo e del nominalismo sul problema del concetto di specie” (cit. in D.Antiseri: prefazione a F.A.von Hayek: Individualismo: quello vero e quello falso – Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, p. 6).

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Di Lucio Russo
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