2) “L’antroposofia è mediatrice di conoscenze ottenute per via spirituale. Ma lo è solo perché la vita quotidiana e la scienza fondata sulla percezione dei sensi e sull’attività dell’intelletto conducono a un limite del sentiero della vita, raggiunto il quale l’esistenza animica umana dovrebbe perire, se non fosse in grado di varcare il limite. La vita quotidiana e la scienza non conducono al limite nel modo che sia necessario arrestarvisi, ma a quel limite della percezione dei sensi, attraverso l’anima umana stessa si apre la vista sul mondo spirituale”.
Vedete, ove chiedessimo a un cattolico, o a un qualsiasi altro “uomo di fede”, se la nostra conoscenza è o non è limitata, ci risponderebbe che lo è, e che proprio per questo è necessario “credere”.
Ma qual è il problema? E’ che così si confonde la parte con il tutto: che si confonde, cioè, la conoscenza basata sui sensi e sull’intelletto, ch’è in effetti limitata, con la conoscenza tout court.
Il che è tanto scorretto quanto lo sarebbe l’estendere la limitatezza del singolo senso (la vista, ad esempio, non conosce i suoni, così come l’udito non conosce i colori) all’organizzazione sensoriale complessiva, dal momento ch’è proprio questa, avvalendosi di altri sensi (e ricordiamoci che la scienza dello spirito ne conosce ben dodici), a colmare le “lacune” che ciascuno di essi singolarmente presenta.
Occorre dunque distinguere, e non generalizzare o fare d’ogni erba un fascio.
Tutti sanno, al riguardo, che, al di sotto dell’ordinaria coscienza di veglia, si danno la coscienza di sogno, la coscienza di sonno e quella di morte; ma non tutti sanno che, al di sopra della stessa, è possibile sviluppare altri (corrispondenti) livelli di coscienza, in virtù dei quali si può conoscere quel che prima si pensava potesse essere, in quanto inconscio, solo oggetto di fede.
In virtù della scienza dello spirito, sappiamo infatti che come si può conoscere, grazie alla coscienza basata sui sensi e sull’intelletto, la realtà inorganica, così si possono conoscere, grazie alla coscienza immaginativa (a un “sognare vigile”), la realtà vivente, grazie alla coscienza ispirata (a un “dormire vigile”), la realtà animica, e, grazie alla coscienza intuitiva (a un “morire vigile”), la realtà spirituale.
Che ne consegue? Che potrebbe dirsi propriamente “illimitata” solo una conoscenza scaturente da un soggetto (da un Io) che si fosse conquistato la libertà di muoversi tra tali livelli, e di avere così accesso alla Verità, quale insieme di tutte le verità, o alla Realtà, quale insieme di tutte le realtà.
Un Io che fosse davvero un “Io”, o un essere umano che fosse davvero “umano” (un atman o un “uomo spirituale”), disporrebbe dunque, liberamente, di tutti i livelli di coscienza; e come gli apparirebbe fantasioso o superstizioso, ad esempio, affrontare immaginativamente la realtà inorganica, così gli apparirebbe fantasioso o superstizioso affrontare intellettualmente la realtà organica. Eppure è questo quello che oggi si fa, ed è proprio questo che alimenta a dismisura l’odierna superstizione materialistica. Si è infatti superstiziosi – me lo avete sentito dire altre volte – non solo quando si crede a ciò che non esiste, ma anche quando non si crede a ciò che esiste.
Considerate, inoltre, che l’evoluzione che ci ha portato alla cerebralità e all’intellettualità è la stessa che ora urge per portarci oltre la cerebralità e l’intellettualità (ossia, al pensiero e alla coscienza immaginativi).
Ricordo che Fausto Antonini (maestro dei miei 25 anni) stimava molto un libro di Renato Balbi in cui si sosteneva che la corteccia cerebrale è il più recente risultato di una graduale stratificazione neuronale (il risultato “storico”, per così dire, di una lunghissima evoluzione “preistorica”) (16).
Questo ci dice che c’è stata un’evoluzione umana pre-corticale (quella cui ci riferiamo quando parliamo, in termini antroposofici, dell’evoluzione del corpo fisico, del corpo eterico, del corpo senziente, dell’anima senziente e dell’anima razionale-affettiva), che c’è stata un’evoluzione corticale (quella scientifico-naturale dell’anima cosciente), e che ce n’è e ce ne sarà un’altra post-corticale (quella scientifico-spirituale della stessa anima cosciente).
Oggi si usa parlare – lo sapete – di “post-modernità”. Si avrebbe ragione di farlo, però, solo se con questa espressione ci si riferisse – il che non è – all’incipiente evoluzione post-corticale o post-intellettuale (eterica).
Con questo, sia chiaro, non dobbiamo pensare a un’abolizione della corteccia o dell’intelletto, bensì a uno sviluppo di livelli di coscienza che vadano ad aggiungersi a quello ordinario (così come lo sviluppo, che so, dell’olfatto non abolisce quello del gusto, ma vi si aggiunge).
Si tratta, insomma, di sviluppare e ampliare, in senso qualitativo e verticale, l’orizzonte della coscienza.
Ascoltate, al riguardo, quanto dice qui Steiner: “Oggi si è spesso dell’opinione che in qualche modo l’antroposofia prenda le mosse da uno di quei nebulosi atteggiamenti animici che nel presente si trovano in tendenze mistiche od occultistiche. Si sbaglia del tutto attribuendo all’antroposofia una base del genere, davvero molto opinabile. In effetti può farlo soltanto chi la conosca o solo superficialmente o attraverso i suoi avversari. L’orientamento di base della coscienza antroposofica non è soltanto nel senso da me indicato ieri, ma deriva in un senso ancora più esatto dalla tendenza scientifica del presente che in effetti non viene per nulla contestata per il suo carattere scientifico e per la sua importanza” (17).
3) “Vi sono uomini i quali credono che, coi limiti della percezione dei sensi, siano posti anche i limiti di o g n i altra cognizione. Se ponessero attenzione a c o m e essi diventino coscienti di quei limiti, scoprirebbero in questa coscienza anche le facoltà per varcare i limiti. Il pesce nuota al limite dell’acqua; deve ritrarsene, perché gli mancano gli organi fisici per vivere fuori dell’ acqua. L’uomo arriva al limite della percezione dei sensi; può riconoscere che, lungo la via fin lì, ha acquistato forze dell’anima per vivere animicamente nell’elemento che non è abbracciato dalla percezione dei sensi”.
E’ noto che un pazzo che riconosca di essere “pazzo”, non è pazzo. E perché? Perché per poter riconoscere la pazzia deve oggettivarla, e quindi distinguerla da sé.
Abbiamo quindi un “oggetto” (la pazzia), e un soggetto che in tanto è in grado di osservarlo e giudicarlo, in quanto ne sta fuori (fuori del suo confine o del suo limite).
Peccato, dunque, che non si faccia lo stesso ragionamento quando si parla dei limiti della conoscenza. Non a caso, Steiner fa l’esempio del pesce che, proprio per il fatto di non poter uscire dall’acqua, non è in grado di riconoscerla come un limite.
Se vivessimo solo all’interno del “finito” (del limitato), così come il pesce vive solo all’interno dell’acqua, non potremmo porci il finito come problema; se invece, come succede, lo poniamo come tale, vuol dire allora che ne abbiamo una qualche coscienza, e che in tanto l’abbiamo in quanto ne siamo, quali soggetti, al di fuori.
Non rendendoci però conto di questo, che cosa facciamo? Proiettiamo l’infinito (l’illimitato) all’esterno, attribuendolo così a un soggetto (materiale o spirituale) altro da noi. I materialisti lo proiettano infatti sulla materia o sull’energia (“tutto – dicono – è materia o energia”), quando non addirittura sul “caso” (come fa Jacques Monod) (18), mentre gli spiritualisti lo proiettano su una entità metafisica, che ritengono di conseguenza “onnisciente” (oltre che “onnipotente”).
Gli uni e gli altri immaginano dunque una “coscienza superiore” (o, per quanto concerne il caso, una ”incoscienza superiore”), ma la immaginano trascendente, e quindi irraggiungibile.
Partendo dalla coscienza del limite, si può però superare il limite senza rinunciare all’immanenza.
E qual è il limite? Lo abbiamo detto: quello della coscienza basata sulla percezione sensibile e sull’intelletto vincolato all’organo cerebrale.
All’interno di questo limite, ch’è quello “meccanico” o, potremmo anche dire, “computazionale” o “ingegneristico”, la coscienza intellettuale è maestra, assolutamente maestra. A tutti è dato infatti constatare la padronanza e l’efficacia con le quali l’intelletto opera nel campo della realtà inorganica: in quella cioè della morte; non solo, la tecnologia ci dimostra che l’intelletto, nella sfera della morte, riesce a essere perfino “creativo”.
Ma non c’è solo la realtà della morte; ci sono anche quelle della vita, dell’anima e dello spirito.
Ciò significa che, in virtù dell’ordinaria coscienza intellettuale, abbiamo accesso a un quarto della realtà, e ch’è appunto questo quarto a costituire il limite. Ove ponessimo perciò attenzione – secondo quanto dice Steiner – a come diventiamo coscienti di tale limite, scopriremmo in questa coscienza anche le facoltà atte a varcarlo.
Per scoprire, sia come diventiamo coscienti del limite, sia le facoltà che servono a varcarlo, non possiamo far altro, tuttavia, che rivolgerci a La filosofia della libertà, giacché questa ci permette di capire e di sperimentare che una cosa è il pensato (il limite), altra il pensare (che lo varca).
Ricordate? Il pensare che pensa l’oggetto gli è a tal punto dedito da dimenticare se stesso. La nostra attenzione è infatti rivolta interamente al pensato, e non al pensare che ci consente di determinarlo e conoscerlo. Come vedete, c’è anche qui una realtà che passa inosservata, e che sarebbe invece decisivo sforzarsi di osservare (per mezzo, ad esempio, dell’esercizio della concentrazione). (Scrive Steiner: “Per chiunque abbia la capacità di osservare il pensiero – e con un po’ di buona volontà questa capacità può averla ogni uomo normalmente organizzato – tale osservazione è la più straordinariamente importante di quante egli ne possa fare”) (19).
Fatto sta che, di notte, dormiamo rispetto al pensato, mentre, di giorno, dormiamo rispetto al pensare: ch’è come dire che, di notte, dormiamo rispetto al finito (al limitato), mentre, di giorno, dormiamo rispetto all’infinito (all’illimitato).
Ci potremmo risvegliare anche di giorno – è vero -, ma non tutti, purtroppo, hanno la buona volontà necessaria all’impresa.
Ascoltate quanto dice, a questo proposito, Steiner: “Per avvicinarsi alla scienza dello spirito antroposofica si pretende parecchio dagli uomini, il che non è facile. Oggi esistono delle correnti per un rinnovamento dello spirito, esiste gente che spiega agli uomini come sia per esempio sufficiente magari distendersi su di un divano e abbandonarsi a sé stessi: allora l’io superiore, e il Dio, e chi sa che altro ancora, si ravviverebbero nell’uomo, senza che sia necessario conquistarsi concetti così difficili, come si deve fare nella scienza dello spirito antroposofica (…) Si ascolta più volentieri tale gente che non piuttosto chi parli in modo scomodo di tutto quanto è possibile pur di portare gli uomini alla comprensione dei compiti dell’anima cosciente (…) Per arrivare a questo è certo necessario sorbirsi un discreto quantitativo di libri, il che è molto scomodo” (20).
Tornando a noi, dovremmo dunque imparare a distinguere il pensato (fisico) dal pensare (eterico), il pensare dalla coscienza pensante (astrale) e la coscienza pensante dall’Io (spirituale). Si tratta infatti di una gerarchia di livelli di coscienza o, per così dire, di una “scala” che dovremmo gradualmente risalire, muovendo dal livello più basso (quello rappresentativo del pensato, cui ci ha condotto l’evoluzione naturale).
Dite la verità: non vi è mai capitato di vedere degli atleti, degli acrobati o, che so, dei giocolieri fare cose che credevate impossibili? Ciò dimostra che, grazie a esercizi adeguati e a un allenamento costante, si possono superare i limiti delle persone normali. E per quale ragione, allora, quanto vale per le capacità fisiche non dovrebbe valere per le capacità animiche?
Sta di fatto che un esercizio appropriato può consentire al pensiero e alla coscienza di varcare i loro limiti ordinari.
Non certo – sarà bene sottolinearlo – per approdare a un aristocratico (e vanesio) “superomismo” (quale quello, ad esempio, celebrato da D’Annunzio ne Le vergini delle rocce) (21), bensì per ampliare quel movimento d’amore per l’oggetto che già vive (seppure inconsciamente) nella scienza naturale (galileiana).
Non è infatti il pensiero di questa scienza che, per amore dell’oggetto, dimentica – come abbiamo detto – se stesso?
E qual è allora il problema? Il problema è che questo movimento a un certo punto si è arrestato (al sensibile). Non si tratta perciò di rinnegarlo, ma di estenderlo o portarlo avanti, così che possa permetterci di conoscere non solo il corpo del mondo, ma anche la sua vita, la sua anima e il suo spirito (la sua essenza).
La scienza naturale ha solo varato tale movimento (e in questo sta la sua vera grandezza).
Vedete, lo scienziato, quando è un vero “scienziato” (e quindi una specie ormai in via di estinzione), “non parla – al pari dello Spirito Santo – da se stesso” come usa fare invece il filosofo (in cui prevale il “sentire nel pensare”); questi è più attento infatti ai concetti che ai percetti (ai contenuti della percezione sensibile), ed è soprattutto preoccupato di creare un sistema internamente privo di aporie o contraddizioni, come farebbe un compositore preoccupato di evitare stonature.
Lo scienziato (in cui prevale il “volere nel pensare”) è più attento invece ai percetti: ossia, alla realtà empirica.
Dovrebbe solo realizzare che la conoscenza che così ci dà del mondo fisico non è il fine, ma il mezzo (atto appunto ad acquistare – come dice Steiner – “forze dell’anima per vivere animicamente nell’elemento che non è abbracciato dalla percezione dei sensi”).
Fine della conoscenza umana è infatti l’uomo, e questi, lo abbiamo detto e ripetuto, non è solo corpo, ma anche anima e spirito.
Note:
1) cfr. R.Steiner: L’iniziazione – Antroposofica, Milano 1971;
2) cfr. F.Sarri: Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima – Vita e Pensiero, 1997;
3) cfr. F.Schiller: Educazione estetica – Armando, Roma 1971;
4) M.Scaligero: Tecniche della concentrazione interiore – Mediterranee, Roma 1985, p. 9;
5) L.Tolstoj: Le confessioni – Rizzoli, Milano 1979, p. 60;
6) R.Steiner: Osservazioni, Esperimenti, Matematica – Antroposofica, Milano 2009, p. 26;
7) R.Steiner: Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, p. 129;
8) F.Nietzsche: Schopenhauer come educatore – Rizzoli, Milano 2004, p. 82;
9) R.Steiner: Cultura e antroposofia – Antroposofica, Milano 1996, p. 18;
10) R.Steiner: Filosofia e antroposofia – Antroposofica, Milano 1980, p. 17;
11) ibid., p. 26;
12) R.Steiner: Formazione del destino e vita dopo la morte – Antroposofica, Milano 1995, p. 79;
13) cfr. V.Frankl: La sofferenza di una vita senza senso – elle di ci, Asti 1978;
14) F.Nietzsche: op. cit., p. 89;
15) ibid., p. 93;
16) cfr. R.Balbi: L’Evoluzione stratificata – Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1965;
17) R.Steiner: Cultura e antroposofia, p. 30;
18) cfr. J.Monod: Il caso e la necessità – Mondadori, Milano 2003;
19) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p. 38;
20) R.Steiner: Lo studio dei sintomi storici, pp. 116-117;
21) G.D’Annunzio: Le vergini delle rocce – Mondadori, Milano 1995.