Massime antroposofiche
4/5

M

4) “Per la sicurezza del suo sentire, per l’efficace esplicazione del suo volere, l’uomo ha bisogno di una conoscenza del mondo spirituale. Può sentire infatti nel modo più ampio la grandezza, la bellezza e la saggezza del mondo naturale; questo però non gli dà risposta alcuna alla domanda sul suo proprio essere. Il suo essere tiene unite nella viva forma umana le sostanze e le forze del mondo naturale, finché l’uomo non varca la soglia della morte. Allora di questa forma si impadronisce la natura. Quest’ultima non può tenerla unita, ma solo disperderla. La grande, bella, saggia natura dà bensì risposta alla domanda su come si dissolva la forma umana, non però all’altra su come sia tenuta insieme. Nessuna obiezione teoretica può estinguere nell’anima umana dotata di sensibilità, a meno che essa non si voglia stordire da sé, questa domanda, la cui presenza deve mantenere incessantemente viva in ogni anima umana, che sia davvero desta, l’aspirazione verso vie spirituali della conoscenza del mondo”.

Permettetemi, per cominciare, di dire qualcosa sull’evento della morte.
Sappiamo che l’uomo è un Io (uno spirito) che ha un corpo astrale (un’anima), un corpo eterico (una vita) e un corpo fisico.
Ma l’Io (che è) dove ha preso ciò che ha? Il corpo fisico lo ha preso dal mondo fisico, il corpo eterico dal mondo eterico e il corpo astrale dal mondo astrale.
Tutto ciò, dopo la morte, lo deve però restituire. Ora si sa che, morendo, restituiamo al mondo fisico il corpo fisico, ma non si sa che continuiamo in qualche modo a morire, restituendo successivamente il corpo eterico al mondo eterico e il corpo astrale al mondo astrale, così da poter infine portare nel mondo spirituale solo ciò che siamo: per l’appunto, un Io.
Per nascere, l’Io fa ovviamente il contrario: muove cioè dal mondo spirituale per rivestirsi dapprima di un corpo astrale, poi di un corpo eterico, e infine di un corpo fisico.
Nascendo, l’Io dunque si “veste”, mentre morendo si “sveste”.
Durante la vita, è questo stesso Io a tenere uniti tali corpi, così come tiene uniti, all’interno di ciascun corpo, i molteplici elementi che lo compongono: vale a dire, le qualità del corpo astrale, le forze del corpo eterico e le sostanze del corpo fisico.
L’essere dell’uomo (l’Io) – dice appunto Steiner – “tiene unite nella viva forma umana le sostanze e le forze del mondo naturale, finché l’uomo non varca la soglia della morte”. Varcata la soglia della morte, il corpo fisico infatti si decompone, restituendo così alla natura le sostanze di cui è composto.
Dunque, “la grande, bella, saggia natura – come dice ancora Steiner – dà bensì risposta alla domanda su come si dissolva la forma umana, non però all’altra su come sia tenuta insieme”.
Si tratta di una domanda (sull’Io che tiene insieme la “viva forma umana”) che solo l’uomo può porsi. Non se la pongono infatti né i minerali, né le piante, né gli animali. E perché? Perché non solo non possono pensare se stessi, ma anche perchè la loro esistenza esprime appieno la loro essenza.
I gerani, ad esempio, vivono da gerani, così come i gatti vivono da gatti. O vi è forse capitato d’incontrare un geranio che si rifiuta di vivere da geranio, o un gatto che si rifiuta di vivere da gatto? Non credo. E’ più facile che vi sia capitato d’incontrare degli uomini che si rifiutano di vivere da uomini, e che si lamentano della loro esistenza.
Questo che cosa significa? Significa che i gerani e i gatti possono esistere in accordo con la loro essenza anche se non la conoscono, mentre gli uomini possono esistere in accordo con la loro essenza solo se la conoscono.
Penso sappiate che gli esistenzialisti (basti pensare ad Heidegger) distinguono tra esistenza “autentica” ed esistenza “inautentica”. Ma come si fa, se si prescinde dalla sua essenza, a giudicare se un’esistenza è autentica o inautentica?
Prendiamo di nuovo il gatto. Quand’è che la sua esistenza è autentica? Quando esiste da gatto. E quando è invece inautentica? Quando non esiste da gatto.
Questo però non gli è concesso: i minerali, le piante e gli animali sono infatti costretti a vivere un’esistenza autentica (e questo è il determinismo). La loro esistenza è quindi autentica, ma incosciente (morta nei minerali, dormiente nelle piante, sognante negli animali), mentre quella dell’uomo è inautentica, ma cosciente (desta).
Sulla terra, l’uomo è dunque il solo essere la cui esistenza non viene determinata dalla sua essenza, ma dalla coscienza della sua essenza (e questa è la libertà).
Siamo pertanto responsabili della nostra esistenza (e quindi della coscienza della nostra essenza): esistenza che può essere “autentica” o “umana”, se in accordo con la nostra essenza, oppure “inautentica” o “inumana”, se in disaccordo con essa.
Ascoltate, in proposito, queste parole di Nietzsche: “Io vedo al di sopra di me qualcosa di più alto e di più umano di quel che sono io stesso: aiutatemi, voi tutti, a raggiungerlo, come io aiuterò chiunque riconosca la stessa cosa e soffra per la stessa cosa: perché alfine rinasca l’uomo che si sente pieno e infinito nel conoscere e nell’amare, nel contemplare e nel fare, e sta con tutta la sua integrità nella natura e colla natura, come giudice e misura del valore delle cose” (1).
E com’è un’esistenza “inautentica” o “in-umana”? E’ un’esistenza vuota e infelice, giacché il conoscere o il non conoscere la propria essenza coinvolge non solo il pensare, ma anche il sentire e il volere.
Dice appunto Steiner: “Per la sicurezza del suo sentire, per l’efficace esplicazione del suo volere, l’uomo ha bisogno di una conoscenza del mondo spirituale”.
Perché ne ha bisogno? Perché conoscere il mondo spirituale significa conoscere la propria essenza spirituale, e quindi se stessi.
L’ho detto altre volte: non c’è cosa più ridicola del “senso d’insicurezza” di cui parlano gli psicologi. Non sappiamo perché si nasce e si muore, non sappiamo perché si è sani o malati, non sappiamo perché si è felici o infelici, e ciò nonostante si pretenderebbe che ci sentissimo sicuri. Ma come si può pensare che un uomo che nulla sappia di sé, possa sentirsi forte e sicuro, e quindi capace di esplicare con efficacia il proprio volere?
In realtà, il “senso d’insicurezza” è il prezzo che paghiamo per la nostra ignoranza o nescienza. Questa instabilità o fragilità “ontologica” ci rende ad esempio sempre meno attivi (poiché l’agire è dell’Io) e sempre più agitati (poiché l’agitarsi è del corpo astrale).

5) “Per la quiete interiore l’uomo ha bisogno di conoscere se stesso nello spirito. Egli trova se stesso nel suo pensare, sentire e volere. Nelle loro esplicazioni devono seguire la salute, la malattia, il rinvigorimento e il deperimento del corpo. Ogni sonno li estingue. L’esperienza comune della vita mostra la massima dipendenza della vita spirituale dell’uomo dall’esistenza corporea. Qui si sveglia nell’uomo la coscienza che nell’esperienza comune della vita l’autoconoscenza potrebbe essere andata perduta. Sorge allora l’ansiosa domanda se possa esservi un’autoconoscenza che trascenda l’esperienza comune della vita e arrivi alla certezza intorno ad un vero sé. L’antroposofia vuol dare una risposta a questa domanda sulla base di una sicura esperienza dello spirito. Per tanto non si fonda su opinioni o credenze, ma su esperienze nello spirito le quali, nella loro entità, non sono meno certe di quelle vissute nel corpo”.

La “quiete interiore” – di cui qui si parla – non è un dono di natura (una flemma), bensì una conquista dello spirito: una dimensione che riguarda perciò le profondità dell’anima, e non la sua superficie.
Qual è allora l’arte? Quella di accompagnare con la calma interiore (la pax profunda) le prove che il destino ci chiama a sostenere, dentro e fuori di noi.
Questo non significa – badate – stare “al di sopra” delle cose, bensì stare “tra” le cose, nonostante ciò comporti il rischio di rendersi – come dice Dante – “a Dio spiacenti e a’ nimici sui”.
Ricordo sempre un pensiero che Scaligero mi propose di meditare: “La quiete operosa delle Gerarchie”.
Quella delle Gerarchie (spirituali) è infatti una “quiete operosa”, mentre la nostra quiete è in genere inoperosa (oziosa) e la nostra operosità è in genere inquieta (agitata).
L’uomo – dice Steiner – “trova se stesso nel suo pensare, sentire e volere”.
Al “penso, dunque sono” di Cartesio, dovremmo quindi aggiungere un “sento, dunque sono” e un “voglio, dunque sono”.
Dovremmo andarci però cauti con queste affermazioni, perché il pensare, il sentire e il volere “nelle loro esplicazioni devono seguire la salute, la malattia, il rinvigorimento e il deperimento del corpo” e ”ogni sonno li estingue”.
Se è vero, dunque, che “sono” in quanto penso, sento e voglio, è anche vero, allora, che “non sono” quando, a causa del sonno o di un qualsiasi accidente, non penso, non sento e non voglio.
Per questo, Steiner aggiunge, non solo che “l’esperienza comune della vita mostra la massima dipendenza della vita spirituale dell’uomo dall’esistenza corporea”, ma anche, se non soprattutto, che in tale esperienza “l’autoconoscenza potrebbe essere andata perduta”.
Fatto si è che affermare: “Penso, sento e voglio, dunque sono” (anziché, come si dovrebbe: “Sono, dunque penso, sento e voglio”), equivale ad affermare: “Ho un’anima (una psiche), dunque sono un Io” (anziché, come si dovrebbe: “Sono un Io, dunque ho un’anima”).
E nella vita ordinaria (nell’“esperienza comune della vita”) l’Io non s’identifica appunto con le attività del pensare, del sentire e del volere, e quindi con l’anima (con la psiche)?
Fate attenzione, però, perché Steiner precisa che il pensare, il sentire e il volere seguono, sì, “la salute, la malattia, il rinvigorimento e il deperimento del corpo”, così come l’avvicendarsi del sonno e della veglia, ma li seguono soltanto “nelle loro esplicazioni”.
Il che vuol dire che stiamo parlando, non dell’essere del pensare, dell’essere del sentire e dell’essere del volere, ma delle loro manifestazioni: che stiamo parlando, cioè, non del pensare (in sé), del sentire (in sé) e del volere (in sé), ma della nostra coscienza del pensare, della nostra coscienza del sentire e della nostra coscienza del volere.
Il sonno, ad esempio, non estingue il pensare, il sentire e il volere, bensì la nostra coscienza del pensare, del sentire e del volere, così come non estingue l’Io, bensì la nostra coscienza dell’Io.
Ma quale coscienza estingue? Estingue la coscienza ordinaria, basata sui sensi e sull’attività del cervello.
Si tratta dunque di una coscienza che non può prescindere da uno stato di salute dei suoi strumenti. Quando il corpo fisico non è in ordine, ne risente perciò la coscienza del pensare, del sentire e del volere, ma non ne risentono il pensare, il sentire e il volere.
Parliamo del pensare. Non siamo abituati a distinguere il pensare (in sé) dalla coscienza del pensare (dal pensare per sé) perché crediamo che sia il cervello (la corteccia) a pensare. Ma non è il cervello a pensare: è il cuore. Il cervello serve solo a renderci coscienti di quello che il cuore pensa.
Una cosa, insomma, è la realtà, altra la coscienza della realtà. Non è difficile capirlo finché distinguiamo, che so, un armadio o una sedia dalla nostra coscienza dell’armadio o della sedia: lo diventa, invece, quando si tratta di distinguere il pensare dalla coscienza del pensare.
Ricordo che fu un vero sconcerto, per me (che venivo dagli studi psicoanalitici), scoprire, grazie alla scienza dello spirito, che siamo in primo luogo incoscienti della coscienza. Sembra un paradosso, ma sta di fatto che siamo abitualmente “inconsciamente coscienti”: che siamo cioè coscienti senza saperne il perché.
Riflettete: siamo di fronte a una cosa e, fintantoché la guardiamo, ne abbiamo l’immagine percettiva; poi chiudiamo gli occhi e ne abbiamo la rappresentazione. Non sappiamo, di norma, nient’altro. Ignoriamo, infatti, tanto che cosa ci sia al di là della immagine percettiva (e come questa si formi), quanto che cosa ci sia al di qua della rappresentazione (e come questa si formi). Non sappiamo nulla, insomma, di quel che c’è al di là di queste due “colonne d’Ercole” della coscienza ordinaria.
Grazie soprattutto a La filosofia della libertà, Steiner ci consente però di scoprire che, al di là dell’immagine percettiva e al di qua della rappresentazione, c’è il mondo incosciente o precosciente dello spirito (quello dei noumeni o dei percetti-concetti), ch’è unità di “soggetto” e “oggetto”, di “conoscente” e “conosciuto”.
L’antroposofia – dice – “non si fonda su opinioni o credenze, ma su esperienze nello spirito le quali, nella loro entità, non sono meno certe di quelle vissute nel corpo”.
Vedete, se l’antroposofia vuole essere una “scienza” spirituale, deve allora fondarsi sull’esperienza della realtà; non solo però, come fa la scienza naturale, su quella data dai sensi fisici, ma anche sull’esperienza della realtà che questi non danno.
Sarà banale ricordarlo, ma, della realtà, fanno parte non solo le cose, ma anche i pensieri, i sentimenti e gli impulsi della volontà relativi alle cose.
Prendete una persona che sorride. Che ne dite: è contenta perché sorride o sorride perché è contenta? Magari fosse contenta (si fa per dire) perché sorride: in questo caso, basterebbe infatti bloccarle la bocca e le labbra nella posizione del sorriso per renderla eternamente contenta.
Ma non è così. Si sorride quando si è contenti, e il sorriso esteriore e visibile non fa che esprimere la contentezza interiore e invisibile.
Dal punto di vista materialistico, questa è però un’assurdità: come può un effetto concreto (il sorriso visibile) essere il prodotto di una causa astratta (la contentezza invisibile)?
Ma “astratta” non è la contentezza, bensì la nostra ordinaria coscienza della contentezza.
Il problema è dunque nostro, e non della contentezza. Siamo noi a essere incapaci di sperimentare la realtà (extrasensibile) della contentezza con la stessa pregnanza ed evidenza con cui sperimentiamo quella (sensibile) del sorriso.
Fatto sta che la realtà, se la si vuole conoscere, bisogna amarla, ed essere perciò pronti a sacrificarle le opinioni personali. Queste non ci parlano infatti della realtà, bensì sempre e soltanto di noi stessi (del nostro modo di reagire alla realtà).
Siamo soliti dire, ad esempio, “io penso questo”, “io penso quello”, “io sento questo”, “io sento quello”, “io faccio questo”, “io faccio quello”, ignorando che l’“io” di cui parliamo non è il vero Io, ma l’ego: ossia il soggetto della sola coscienza corporea o spaziale dell’Io.
L’intelletto, del resto, è deputato a conoscere appunto lo spazio (la res extensa, di Cartesio), e a conoscerlo in modo analitico e discreto (sincopato o algoritmico).
Ascoltate quanto dice Steiner (riferendosi all’idea goethiana della metamorfosi): “Nella conoscenza dell’inorganico un concetto viene allineato accanto all’altro, per abbracciare con lo sguardo il nesso tra le forze che producono un effetto nella natura. Per l’organico è necessario invece far sì che i concetti si sviluppino l’uno dall’altro, in modo che, nella loro progressiva vivente trasmutazione, sorgano immagini di ciò che in natura appare nell’aspetto di esseri formati” (2).
Potremmo anche dire, volendo, che l’intelletto è deputato a conoscere il “segmento” (discontinuo), ma non la “retta” (continua), e quindi lo spazio, ma non il tempo.
Questa – sia ben chiaro – non è una “critica” dell’intelletto (che, al contrario dell’”intellettualismo”, è uno dei doni dello Spirito Santo), ma solo un’illustrazione del suo modo di “funzionare” (Gli ingegneri – titola un libro che ho visto di recente – non vivono, funzionano) (3).
Ma la nostra vita è forse un “segmento”? Lo è, ma solo se la si considera limitata, a un estremo, dalla nascita e, all’altro, dalla morte.
Per conoscere tutta la nostra vita, e non solo un suo segmento, per conoscere, cioè, tanto la vita che precede la nascita, quanto quella che segue la morte, occorre dunque superare il livello della coscienza intellettuale e svilupparne un altro capace (come quello immaginativo) di sperimentare la continuità.
Pensate alla cosiddetta “quadratura del cerchio”. Per quale ragione è un problema intellettualmente insolubile? Per la semplice ragione che tra il quadrato e la circonferenza c’è un salto di qualità: il primo è infatti discontinuo (in quanto fatto di quattro segmenti), mentre la seconda è continua.
Un conto, dunque, è pensare la nostra vita come un segmento, altro pensarla, più ancora che come una retta, come una circonferenza. Pensarla come una circonferenza vuol dire infatti pensarla, non come spazio, bensì come tempo, non come “stato” (participio passato di “essere”), ma come “divenire”.
Fate attenzione, però, perché il tempo di cui parliamo sempre non è il tempo: il tempo noi in realtà lo ignoriamo; ci limitiamo a misurarlo, spazializzandolo, con l’orologio.
Di norma, non abbiamo quindi solo una coscienza spaziale dell’Io, ma anche una coscienza spaziale del tempo. Ciò è d’altronde inevitabile, perché quella intellettuale è una coscienza spaziale, e come tale spazializza tutto ciò che incontra.
“Sorge allora l’ansiosa domanda – dice Steiner – se possa esservi un’autoconoscenza che trascenda l’esperienza comune della vita e arrivi alla certezza intorno ad un vero sé”.
Certo che può esservi, a condizione, però, che si “trascenda l’esperienza comune della vita” (quella del cosiddetto “lume naturale”), conquistando, per cominciare, l’esperienza “immaginativa”.
Avete mai letto una biografia, che so, di Mozart, che non parli unicamente del tempo che ha trascorso, in stato di veglia, dalla nascita alla morte? Non credo. Eppure, tanto l’Io di Mozart, quanto il nostro, non solo vivono di giorno e di notte (per di più sognando), ma anche prima della nascita e dopo la morte.
D’altro canto, come non esistono, per un cieco, i colori, o come non esistono, per un sordo, i suoni, così non esistono, per l’intelletto, la vita, l’anima e lo spirito.
Poco male sarebbe, tuttavia, se i cosiddetti “intellettuali” (i maitres a penser) si limitassero a dire: “Sulle realtà della vita, dell’anima e dello spirito, non ci pronunciamo, perché la nostra conoscenza sa solo del corpo o dello spazio”.
Che cosa fanno invece? Pungolati e sferzati dallo spirito della morte (dal demone dell’intellettualismo o dello scientismo), cercano, in tutti i modi, di ridurre la vita, l’anima e lo spirito, che non conoscono, al corpo che conoscono (o che credono di conoscere).
Quanti soggiacciono a questa tentazione, non elevano dunque la loro coscienza, per portarla all’altezza del fenomeno, ma abbassano il fenomeno, per portarlo all’altezza – ma sarebbe meglio dire alla “bassezza” – della loro coscienza.

Note:

1) F.Nietzsche: Schopenhauer come educatore – Rizzoli, Milano 2004, p. 112;
2) R.Steiner: La mia vita – Antroposofica, Milano 1992, p. 86;
3) cfr. F.Bellucci: Gli ingegneri non vivono, funzionano – L’Autore Libri, Firenze 2007.

Scarica PDF

Di Lucio Russo
Per qualsiasi informazione o commento, potete inviare una e-mail al seguente indirizzo: info@ospi.it



Nel campo sottostante è possibile inserire un nome o una parola. Cliccando sul pulsante cerca verranno visualizzati tutti gli articoli, noterelle o corrispondenze in cui quel nome o parola è presente