47) “Quanto è riposto nella configurazione del destino umano non penetra che in minima parte nella coscienza solita, bensì vige per lo più nell’incosciente. Ma appunto scoprendo ciò che è conforme al destino, si mostra come l’incosciente possa venir reso cosciente. Ha cioè torto chi parla dell’incosciente, che è tale temporaneamente, come se dovesse restare per sempre nel dominio dell’ignoto e costituisse così un limite della conoscenza. Con ogni frammento che del suo destino si svela all’uomo, questi innalza ciò che prima era incosciente all’ambito della coscienza”.
E’ così: il destino ci si presenta inizialmente in “frammenti” paragonabili alle tessere di un mosaico o ai pezzi di un puzzle.
Solo raccogliendoli e ricomponendoli pazientemente (e con l’aiuto di Dio) possiamo scoprire pian piano l’insieme (il destino) di cui sono parte e per ciò stesso il senso o il significato della nostra esistenza.
Conoscete “la pista cifrata”? E’ un giochino de La Settimana Enigmistica che consiste nell’unire con un tratto di matita i punti numerati che vi si trovano, così che alla fine emerga una figura.
Questo gioco potrebbe esemplificare, volendo, come il disegno del nostro destino (ch’è tutt’altro, ovviamente, che un gioco da bambini) tanto più emerga, quanti più eventi ci riesca di collegare tra loro.
Perdonate se racconto, a titolo d’esempio, un fatto personale.
Quando avevo circa dieci anni, tutte le volte che, per andare a scuola, passavo per quella strada che costeggia i mercati di Traiano, venivo preso, guardando quelle rovine, da un turbamento simile a un lieve stato d’angoscia.
M’immaginavo gli uomini che avevano vissuto un tempo in quel luogo, che erano entrati e usciti da quegli edifici, che avevano salito e sceso quelle scale, che intorno a quelle colonne avevano trattato, disputato o combattuto, e mi domandavo: a che pro tutto questo? Che fine hanno fatto? E perché tutto ciò non è ormai che una rovina?
La cosa, per fortuna, col tempo svanì, e finii col dimenticarla.
Oggi penso che sia stata una fortuna, perché non avrei avuto certamente modo, a quell’età, di rimediare al mio stato d’animo dando una risposta a quegli interrogativi. Diciamo che il cielo mi ha aiutato a riporli in un cassetto: in un cassetto dal quale li ho potuti però riestrarre, sempre grazie al cielo, venti anni dopo, allorché, incontrando la psicologia del profondo (in specie quella junghiana), cominciai a capire che le risposte che cercavo erano in me, racchiuse in quell’”incosciente” che può “venir reso – come dice Steiner – cosciente”.
Considerate che questa sua affermazione potrebbe dimostrare, da sola, tutta la modernità dell’antroposofia, e dare al tempo stesso ragione del perché non possa che essere incompresa o fraintesa da quanti vivono ancora nell’anima razionale-affettiva, se non addirittura nell’anima senziente.
Non ci si rende conto, infatti, che da quando le forze progressive dello spirito hanno cominciato a essere veicolate dall’anima cosciente (1413 d.C.), al loro posto, nell’anima senziente (3564/747 a.C.) e nell’anima razionale-affettiva (747 a.C./1413 d.C.), che le avevano veicolate in precedenza, sono subentrate le forze ostacolatrici.
L’anima razionale-affettiva, ad esempio, è ormai uno strumento delle forze arimaniche e luciferiche: delle prime, per quanto riguarda il suo lato razionale; delle seconde, per quanto riguarda il suo lato affettivo.
Ha torto, dice Steiner, “chi parla dell’incosciente, che è tale temporaneamente, come se dovesse restare per sempre nel dominio dell’ignoto e costituisse così un limite della conoscenza”.
Aveva dunque torto Eduard von Hartmann (è all’autore della Filosofia dell’inconscio che allude infatti Steiner) (1), mentre avevano ragione Freud e Jung a voler tentare d’innalzare, in modo scientifico, “ciò che prima era incosciente all’ambito della coscienza”.
Un tentativo purtroppo fallito, dal momento che il loro proposito non si è poi inverato in un giusto modo di procedere (in un modo di procedere scientifico-spirituale) (2).
Lasciamo stare comunque la psicoanalisi (giacché ne abbiamo parlato in tante altre occasioni), e pensiamo invece alla filosofia (o alla teologia).
Ebbene, quanto l’anima razionale-affettiva si ostina a trattare (astrattamente) in termini di “immanenza” e “trascendenza”, viene tradotto, dall’anima cosciente, in termini di “coscienza” e “incoscienza”.
E’ l’incosciente, infatti, a essere sperimentato come un “trascendente”: come un qualcosa, cioè, che è (e sempre sarà) al di là della portata della coscienza umana.
Che ne consegue? Ne consegue che quanti vogliono affermare l’immanente, e quindi il cosciente (come ad esempio gli illuministi o i razionalisti), negano allora, insieme al trascendente, l’incosciente, mentre quanti vogliono affermare il trascendente, e quindi l’incosciente (come ad esempio i romantici o i credenti), negano allora che l’incosciente possa essere reso cosciente.
Fatto sta, però, che l’evoluzione animico-spirituale dell’umanità consiste proprio nell’innalzare gradualmente alla coscienza ciò che vive e opera nell’incoscienza.
Ascoltate ciò che dice Scaligero: “Il sonno è la trascendenza incosciente, la Morte è la trascendenza realizzata a prezzo della vita, cioè a condizione di perdere la vita, che invece esige la propria immortalità nella vita stessa: la vita esige la trascendenza cosciente, cioè il pensiero cosciente, per conseguire la sua unità (…) La trascendenza è immanente al pensiero. Il pensiero è l’immanenza continua della trascendenza…” (3).
L’incosciente, insomma, è “tale – come dice Steiner – temporaneamente”.
In questo incosciente è custodito il compito per il quale e con il quale siamo venuti al mondo. E qual è questo compito? Quello di portare avanti la nostra evoluzione e di realizzare la nostra umanità. “Uomo” infatti si diventa: ma lo si diventa soltanto se l’Io umano accoglie l’”Io sono” divino (“Ma a quanti l’accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede il potere di diventare figli di Dio” – Gv 1,12).
L’”Io sono” divino, il Logos, è infatti l’Archetipo dell’uomo (l’Ecce Homo): Archetipo ch’è possibile trovare e incontrare solo sulla Terra, quale suo Spirito o suo Sole.
Il nostro compito è dunque spirituale, e non materiale: non veniamo cioè al mondo per fare questa o quella cosa, ma per fare qualsiasi cosa con lo spirito giusto. E’ meglio infatti fare una piccola cosa con lo spirito giusto che non una grande cosa con lo spirito sbagliato.
Sentite queste affermazioni di Steiner: “Noi non abbiamo solo il compito di far questo o quello, bensì il dovere di far di noi stessi quanto più possiamo (…) Ciò che l’ordine cosmico divino-spirituale vorrà poi intraprendere con quanto abbiamo fatto della nostra anima, lo dobbiamo lasciare appunto all’ordine cosmico divino-spirituale (…) Si sarebbe portati a ritenere che l’antroposofo migliore sia colui che dapprima lavora su se stesso, per poi sviluppare una attività esteriore benefica. Ma può darsi il caso che noi, nella nostra posizione esteriore nella vita, non siamo in grado di usare nel mondo quel che elaboriamo nell’anima. Questo pensiero, secondo cui sarebbe un buon antroposofo solo chi realizzasse anche nel mondo ciò che ha appreso, potrebbe essere il pensiero più falso che si possa avere (…) Dobbiamo sapere quel che siamo in grado di fare ed anche che potremo usare le nostre capacità al momento giusto, ad un segnale del karma” (4).
Per attendere i segnali del karma, occorre tuttavia raffrenare quella brama o impazienza che vorrebbe far decidere all’ego, anziché all’”ordine cosmico divino-spirituale”, il “quando” e il “cosa” sia opportuno intraprendere.
Consideriamo, comunque, ch’è un bene che si facciano cose diverse, perché se facessimo tutti la stessa cosa, non potremmo aiutarci l’un l’altro.
Non potremmo però aiutarci l’un l’altro (com’è dolorosamente dimostrato dalla nostra odierna esistenza) se, pur facendo cose diverse, non fossimo animati da uno stesso spirito: da quello, cioè, della fraternità o dell’amore.
48) “Per tale elevazione, ci si accorge come quel che è conforme al destino non si ordisca nella vita fra nascita e morte; si viene anzi condotti, appunto nel problema del destino, all’osservazione della vita fra morte e nuova nascita”.
Poiché abbiamo già parlato di questo, vorrei leggervi, rimanendo in tema, questo passo di Steiner: “Ciò che dall’ambiente fisico ha azione determinante sull’anima umana si presenta nel medesimo rapporto che le cose sperimentate dalla vita fisica in un tempo successivo hanno con quelle che in modo analogo furono sperimentate prima” (5).
Vi sembrerà forse strano, ma il significato di questo passo mi divenne chiaro una domenica mattina, allorché, salito in macchina per andare a pranzo da amici, mi ritrovai sulla strada che facevo ogni giorno per andare, in tutt’altra direzione, al lavoro.
“Ciò che dall’ambiente fisico” aveva avuto “azione determinante sulla mia anima” (determinante un’abitudine) si presentava infatti “nel medesimo rapporto che le cose sperimentate dalla vita fisica in un tempo successivo” (il mio andare a pranzo da amici la domenica) “hanno con quelle che in modo analogo furono sperimentate prima” (con il mio andare al lavoro tutti i giorni feriali).
In altri termini, la mia tendenza, inclinazione o attitudine a prendere la solita strada si dimostrava effetto, non, come altre, della mia personale natura (della mia costituzione, del mio temperamento o del mio carattere), bensì di un’abitudine acquisita: ossia, di quanto avevo materialmente fatto, e non di quanto animicamente ero.
Un conto, tuttavia, è il “materialmente fatto” che si può ritrovare (come nel mio caso) nel passato di una stessa vita, altro il “materialmente fatto” che non vi si può ritrovare.
Morale della favola: la vita prenatale (spirituale) può essere causa di molte cose, ma non di quelle che si rivelano frutto di un esercizio reiterato in questa o in una precedente vita terrena.
Conclude appunto Steiner: “Chi penetra queste cose perviene alla rappresentazione di vite terrene che debbono aver preceduto l’attuale. Non può arrestarsi col pensiero ad esperienze puramente spirituali anteriori a questa vita terrena” (6).
49) “Nel trattare di questa esperienza umana che, nel problema del destino, trascende se stessa, si potrà sviluppare un vero senso per il rapporto fra il sensibile e lo spirituale. Chi vede agire il destino nell’essere dell’uomo è già inserito nello spirituale, perché le concatenazioni del destino non hanno in sé nulla di naturale”.
I singoli fatti di destino hanno natura sensibile, mentre le loro concatenazioni o i loro nessi, hanno, al pari di ogni altra relazione, natura extrasensibile.
Ogni relazione è infatti espressione o frutto di un pensare (nel caso specifico, di un pensare nel volere), e, in quanto tale, presuppone necessariamente un autore (un “pensante”).
Abbiamo visto, infatti, che “autore” del karma, quale “creazione morale”, è il mondo delle Gerarchie.
Dobbiamo comunque distinguere i nessi biografici (le relazioni tra i fatti di una stessa vita) dai nessi karmici (dalle relazioni tra i fatti di una vita terrena e quelli di un’altra).
Per quanto riguarda la ricerca dei primi, può aiutare molto la conoscenza delle relazioni che intercorrono tra i settenni che scandiscono la prima e la seconda metà della vita; per quanto riguarda la ricerca dei secondi, non posso invece far altro che rimandarvi ai sei volumi delle Considerazioni esoteriche su nessi karmici di Steiner (7).
Grazie a queste e ad altre conferenze, sappiamo, ad esempio, che è stata una stessa individualità (uno stesso Io) a incarnarsi nelle personalità di Elia (tra la fine del X sec. a.C. e l’850 a.C.), di Giovanni Battista (morto circa nel 35 d.C.), di Raffaello (tra il 1483 e il 1520) e di Novalis (tra il 1772 e il 1801).
Nonostante le loro evidenti differenze, balza anche agli occhi di noi sprovveduti che tra queste esistenze c’è una sottile continuità o una sottile linea evolutiva: balza agli occhi, cioè, che si tratta di un Io che, in veste di Elia, ha sperimentato, da profeta (volto cioè al futuro), l’Antico Testamento nell’anima senziente; che, in veste di Giovanni Battista, è stato strumento (grazie al Battesimo nel Giordano) del passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento; che, in veste di Raffaello, ha sperimentato, da pittore (in modo immaginativo), le realtà della Sophia e del Cristo nella neonata anima cosciente; e che, in veste di Novalis, ha sperimentato, da poeta (in modo ispirato), le stesse realtà in un’anima cosciente già protesa verso l’evoluzione del “Sé spirituale” (8).
Lasciate che vi legga, al riguardo, questo passo di Carl Unger: “I fatti delle vite successive di grandi anime devono essere tenuti ad altezza spirituale e morale; essi sono una fonte di ispirazione sempre attiva. Vi sono le grandi epoche storiche che si rivolgono al nostro ricordare cosmico; vi si trova la domanda spesso ripetuta: “Dove sono andati i grandi iniziati delle epoche antiche? Che cosa ne è divenuto delle loro conquiste, nel nostro tempo abbandonato dallo spirito?”. Molti vissero nel nostro tempo, ma non poterono manifestare il loro essere a causa degli enormi ostacoli della civiltà, dell’educazione e della corporeità. Viene fatto appello alla nostra intima partecipazione per la loro umana tragicità. Il poderoso impulso di quelle immagini di umanità, i cui luminosi colori appaiono sullo sfondo dorato delle descrizioni di Rudolf Steiner, ci dice: “Modificate l’atteggiamento, modificate tutta la forma della vita presente affinché le grandi anime possano ritornare e manifestare il loro essere, affinché possano venir giustamente riconosciute; altrimenti muoiono le ispirazioni dell’umanità! Esse devono venir ritrovate quando verranno a scadenza le grandi decisioni di tutto il nostro tempo”” (9).
Note:
01) E.von Hartmann: Philosophy of the unconscious – Routledge, London 2001;
02) cfr. Freud, Jung, Steiner, 15 novembre 2003;
03) M.Scaligero: Iside-Sophia – La dea ignota – Mediterranee, Roma 1980, pp. 90 e 92;
04) R.Steiner: Sulla via di Damasco – Tilopa, Roma 1990, pp. 62-63;
05) R.Steiner: Teosofia – Antroposofica, Milano 1957, p. 52;
06) ibid., p. 52;
07) R.Steiner: Considerazioni esoteriche su nessi karmici – Antroposofica, Milano 1985, 1987, 1988, 1989, 1990, 1992;
08) R.Steiner: Storia occulta – Antroposofica, Milano 1972, pp. 103-104;
09) C.Unger: Il linguaggio dell’anima cosciente – Antroposofica, Milano 1970, pp. 122-123.