Massime antroposofiche
62/63/64/65 e 66/67/68 – 1°

M

Questi due gruppi di massime seguono la lettera intitolata: Del comprendere lo spirito e dello sperimentare il destino (13 luglio 1924). Anche questa volta, ci occuperemo prima della lettera e poi delle massime.
Vi dico subito che per intendere quanto dice qui Steiner, dobbiamo avere di nuovo presente quello schema in cui l’Io sta al centro, tra l’ego, collegato al pensare, e il non-ego, collegato al volere.
Tale schema ci consente infatti di realizzare che, tanto l’ego (o quella che Steiner chiama, in Una fisiologia occulta (1), l’“organizzazione cosciente dell’io”), quanto il non-ego (o quella che Steiner chiama, nella stessa sede, l’“organizzazione incosciente dell’io”), sono manifestazioni o articolazioni dell’Io, e quindi, in sostanza, “Io”.
Questo significa che l’Io è allo stesso tempo soggetto e oggetto, interno ed esterno, uomo e mondo; vuol dire insomma che l’Io non ci viene incontro solo dall’interno, ma anche dall’esterno, in veste, come stiamo appunto per vedere, di destino.
Ricordate questo passo di Teosofia? “Chi rifletta così, non cercherà più il suo “Io” nei soli impulsi di evoluzione che scaturiscono dall’interiorità, ma anche in ciò che esercita da fuori un’azione formatrice sulla sua vita. In quello che gli “accade” egli riconoscerà il proprio “Io”” (2).

(…) Se l’uomo dirige l’attenzione al mondo nel quale viene a nascere e dal quale esce al momento della morte, innanzitutto egli ha intorno a sé la folla delle sue impressioni sensorie. E su tali impressioni dei sensi egli si forma dei pensieri.
Portando a coscienza il pensiero:”Io mi formo dei pensieri sul mondo che i miei sensi mi manifestano”, egli può già dare inizio all’auto-osservazione. Può dirsi:“Nei miei pensieri vivo “io”. Il mondo mi dà occasione di sperimentarmi in pensieri. Considerando il mondo, io trovo me stesso nei miei pensieri”.
Proseguendo così nella riflessione, l’uomo perde il mondo nella sua coscienza, e l’io entra in essa. Egli cessa di rappresentarsi il mondo; comincia a sperimentare il sé
” (p. 39).

Osservando il mondo, abbiamo anzitutto delle percezioni, e su queste ci formiamo dei pensieri. E’ la nostra attività ordinaria: un’attività che la scienza naturale (con l’ausilio o meno di strumenti) non fa che perfezionare e affinare.
Realizzando che ci formiamo dei pensieri sulle percezioni, ci è dato realizzare che, essendo noi a formarli (quali rappresentazioni), siamo appunto degli “Io” (degli ego). Dobbiamo perciò essere grati al mondo perché, conoscendo l’oggetto, conosciamo il soggetto (ossia noi stessi), pervenendo così al primo (basale) grado dell’autocoscienza.
Guadagnando questa autocoscienza (dell’Io quale ego), perdiamo però la coscienza del mondo (dell’Io quale mondo). Il che ci limita, perché non potremo mai venire a capo dell’enigma del destino se non sapremo vedere noi stessi nel mondo (ossia, nel nostro schema: l’Io nel volere, nell’oggetto o nell’esterno).
Quanto ci succede, quanto proviene dal mondo, è infatti la manifestazione di un destino in cui opera la nostra volontà prenatale, e quindi una volontà ordinariamente sconosciuta.
Mi avete sentito spesso dire che, per svolgere fino in fondo il cosiddetto “esercizio della positività”, dovremmo imparare a capire in che cosa hanno ragione coloro che hanno torto.
Che cosa sostiene, ad esempio, la psicologia comportamentale? Lo abbiamo detto: che non saremmo altro che il risultato dell’azione che il mondo esterno esercita su di noi. Perfino il behaviourismo contiene dunque una parte di verità, ma una parte che i suoi seguaci hanno il torto di considerare (a modo loro) l’intera verità.
E’ vero, il mondo esterno esercita un’azione su di noi, ma attraverso il mondo esterno, l’oggetto o il non-ego (il “non-ego” – si badi – non il “non-Io”) opera l’Io.

Se al contrario l’attenzione vien diretta all’interiorità, nella quale il mondo si rispecchia, emergono nella coscienza i fatti del destino della vita nei quali il sé umano è fluito a partire dal momento fino al quale si risale con la memoria. Si sperimenta la propria esistenza nella successione di tali esperienze del destino.
Mentre ci portiamo alla coscienza: “Col mio sé ho sperimentato un destino”, si può cominciare con l’osservazione del mondo. Ci si può dire: “Nel mio destino io non ero solo; nel mio sperimentare interveniva il mondo; io volevo una cosa o l’altra, e nel mio volere fluiva il mondo. Io trovo il mondo nel mio volere sperimentando il volere nell’auto-osservazione
” (pp. 39/40).

Abbiamo detto e ridetto che solo rafforzando il volere nel pensare (portando l’inconscio alla coscienza) si può immettere il pensare nel volere (portare la luce nella tenebra), e quindi riconoscere, nella trama del destino, la volontà dell’Io.
Un obiettivo del genere non può essere ovviamente raggiunto dall’ordinario pensiero astratto. Il pensiero “debole” (astratto) mai potrebbe infatti penetrare nel cuore degli eventi che il pensiero “forte” (vivente) ci porta incontro attraverso il flusso o il divenire del nostro destino.
Sappiamo, però, che il pensiero è divenuto tanto più “debole” quanto più è divenuto intellettuale: quanto più si è andato vincolando, cioè, ai sensi fisici e al cervello.
Un tempo, infatti, i pensieri non erano, come sono oggi per noi, “meri pensieri” (aria fritta), bensì forme che veicolavano la forza o la volontà del mondo spirituale, e che l’uomo, non tanto perciò “pensava”, quanto piuttosto recepiva e accoglieva come immaginazioni, ispirazioni o intuizioni (“Cantami, o Diva…”).
Tali forme possedevano dunque una forza di coercizione che impediva all’uomo di esercitare la propria volontà. Perché l’uomo potesse divenire autonomo e indipendente, si sono dovute pertanto svuotare di contenuto: ossia, di sentimento e di volontà o, in una parola, di peso o forza morale.
Mors tua, vita mea: l’uomo ha dunque pagato la nascita della propria volontà con la morte del pensiero (quale veicolo della volontà degli Déi).
Questa è la condizione della moderna umanità, e per questo parliamo di una “via del pensiero”, ossia di un pensiero che va riportato in vita o di un pensiero che ha bisogno di ritrovare la volontà.
Di che cosa si parla in questa lettera? Appunto del fatto che mediante il pensare ci guadagniamo la coscienza del soggetto (dell’ego), ma non dell’oggetto, mentre, mediante il volere, ci guadagniamo l’esperienza dell’oggetto (del non-ego), ma non del soggetto.
Non usiamo infatti chiamare “fortune” o “disgrazie” gli accadimenti felici o infelici della vita, e non li attribuiamo spesso al “caso” (“cinico e baro”), proprio perché non siamo assolutamente in grado di riconoscervi la nostra volontà (quella dell’Io)?
Ricordo che, in un’occasione in cui fui chiamato a parlare della Teoria dei colori di Goethe, mi sforzai di far notare che tale teoria ci pone di fronte a una realtà che riguarda tanto il mondo che l’uomo, giacché l’incontro-scontro della luce con la tenebra che dà origine, nel mondo, ai colori, dà invece origine, nell’anima, ai sentimenti, quali risultati appunto dell’incontro-scontro del pensare (della luce) con il volere (con la tenebra).
Il che significa che i colori del mondo sono sentimenti visti dall’esterno, mentre i sentimenti dell’anima sono colori visti dall’interno.
Badate, però, che Goethe non si era affatto riproposto, studiando i colori, di scoprire qualcosa che riguardasse anche l’uomo; intendeva soltanto scoprire l’essenza di tale fenomeno fisico, ma tale essenza, una volta scoperta, si è rivelata anche essenza di un fenomeno animico umano.

Continuando così a penetrare nel proprio sé, l’uomo perde il sé nella sua coscienza, e in questa entra il mondo. Egli cessa dallo sperimentare il sé, e nel sentire comincia ad avvertire il mondo. Io penso fuori nel mondo, e là trovo me; io mi immergo in me stesso, e qui trovo il mondo. Quando l’uomo sente ciò in modo sufficientemente forte, egli è inserito negli enigmi universali e umani” (p. 40).

Rileggiamo questo passo, pensando proprio alla Teoria dei colori di Goethe: “Io penso fuori nel mondo [i colori], e là trovo me [i miei sentimenti]; io mi immergo in me stesso [nei miei sentimenti], e qui trovo il mondo [i colori]”.
Non lo si può esemplificare altrimenti (ricorrendo, ad esempio, alla teoria dei colori di Newton), giacché la scienza contemporanea ha carattere quantitativo, e non qualitativo; possiamo però ritrovare e riconoscere noi stessi solo in una scienza del mondo che sia anche qualitativa (come dimostra, per fare un solo esempio, Rudolf Hauschka, nel suo La natura della sostanza) (3).
Ma torniamo al nostro schema. L’Io reale, abbiamo detto, si riconosce in uno dei suoi due arti quale “soggetto” o “ego”, ma non nell’altro, che chiama, proprio per questo, “oggetto” o “non-ego”.
Il che significa che come l’oggetto è il soggetto sconosciuto, così il mondo è l’uomo sconosciuto.
Quest’affermazione potrebbe sembrare a prima vista strana. Sappiamo però, grazie alla scienza dello spirito, che l’uomo è nato (quale “primogenito”) sull’antico-Saturno, e ch’è soltanto nelle successive fasi evolutive (antico-solare, antico-lunare e terrestre) che sono venuti al mondo gli animali, i vegetali e i minerali, quali “frammenti umani” deputati a popolare la natura.
Riflettete: uno scultore che abbia finito di modellare la sua opera, non avrà dinanzi a sé, oltre la statua, anche tutto ciò che ha dovuto eliminare per darle la forma voluta?

(…) L’antroposofia fa infatti rilevare che esiste uno sperimentare spirituale il quale nel pensare non perde il mondo; anche nel pensare si può ancora vivere. Nella meditazione essa indica uno sperimentare interiore nel quale, pensando, non si perde il mondo dei sensi, ma si guadagna il mondo dello spirito. Invece di penetrare nell’io, nel quale si sente che scompare il mondo dei sensi, si penetra nel mondo spirituale, nel quale si sente rafforzato l’io” (p. 40).

Perché, ne La filosofia della libertà, viene dedicato tanto spazio a Kant? Perché si tratta del massimo rappresentante di uno “sperimentare spirituale” che perde, nel pensare, il mondo.
Ricorderete che definii la sua rivoluzione gnoseologica “incompiuta”, giacché le va riconosciuto il merito di aver scoperto che la rappresentazione interiore dell’oggetto esteriore è un’attiva produzione o creazione del soggetto (e non una passiva ri-produzione dell’oggetto, come crede il realismo ingenuo), ma le va riconosciuto al contempo il torto di aver poi imprigionato (incistato) il soggetto nel mondo delle sue rappresentazioni.
E perché ve lo ha imprigionato? Perché a Kant non è riuscito di scoprire, com’è riuscito invece a Steiner ne La filosofia della libertà, che la rappresentazione (animica) nasce dall’incontro della percezione (sensibile) col concetto (spirituale).
Morale della favola: in virtù del realismo ingenuo (del “percezionismo”), prendiamo coscienza della realtà sensibile della percezione; in virtù dell’idealismo critico, prendiamo coscienza della realtà sensibile della percezione e di quella animica della rappresentazione; in virtù dell’”idealismo empirico” di Steiner, prendiamo coscienza della realtà sensibile della percezione, della realtà animica della rappresentazione, della realtà spirituale del concetto, nonché di quella dei loro reciproci e dinamici rapporti.
Dal momento che il concetto è mondo (sperimentato spiritualmente), è solo trovando il concetto che il pensare può dunque trovare il mondo, e non perderlo.
“Nella meditazione – dice Steiner – essa [l’antroposofia] indica uno sperimentare interiore nel quale, pensando, non si perde il mondo dei sensi, ma si guadagna il mondo dello spirito”.
Meditando, non si perde il percetto (il contenuto della percezione sensibile), giacché, guadagnando il concetto (il mondo dello spirito), si guadagna proprio ciò che si presenta, ai sensi, quale percetto e, allo spirito o all’Io, quale concetto.
“Invece di penetrare nell’io – conclude -, nel quale si sente che scompare il mondo dei sensi, si penetra nel mondo spirituale, nel quale si sente rafforzato l’io”.
Con la percezione (sensibile) e con la rappresentazione penetriamo infatti nel mondo dell’ego, mentre con il concetto penetriamo in quello dell’Io reale o spirituale.

L’antroposofia mostra inoltre che vi è uno sperimentare del destino nel quale non si perde il sé. Anche nel destino si può sperimentare se stessi attivi. Nella contemplazione non egoistica del destino umano essa suggerisce un’esperienza nella quale s’impara ad amare non soltanto la propria esistenza, ma il mondo. Invece di fissare il mondo che nella ventura e nella sventura porta l’io sui suoi flutti, si trova l’io che, volente, plasma il proprio destino. Invece di cozzare contro il mondo frantumando l’io, si penetra nel sé che si sente congiunto col divenire universale” (p. 41).

Qualcuno potrebbe domandarsi: dal momento che l’Io reale si presenta in veste di soggetto o ego nel pensare e in veste di oggetto o di non-ego nel volere, per quale ragione muoviamo allora dal pensare, e non dal volere? E’ presto detto: perché dobbiamo muovere dalla coscienza (ordinaria) e arrivare a scoprire, sviluppandola, che il concetto è il percetto, e quindi mondo.
Partendo dal volere, cioè dall’oggetto o dal non-ego, partiremmo viceversa dall’inconscio, rischiando così di cadere nello stessa trappola in cui è caduta la psicoanalisi o la cosiddetta “psicologia del profondo” (cos’altro sono, infatti, l’”inconscio personale” di Freud e l’”inconscio collettivo” di Jung, se non appunto il non-ego?).
E’ vero, dunque, come afferma Scaligero ne La logica contro l’uomo (4), che il pensare è percepire, e che il percepire è pensare, ma non meno è vero che, dovendo elaborare un metodo per arrivare a realizzare tale verità, occorre decidere se prendere le mosse dal percepire o dal pensare. E la nostra è una “via del pensiero” proprio perché prende le mosse (con spirito scientifico, e non filosofico) dal pensare.
Percorrendo questa via, prima o poi ci si accorge che, risalendo i gradi della coscienza, si discendono, simultaneamente, quelli dell’incoscienza, e si ritrova così ciò che stava inizialmente dall’altra parte, vale a dire, il percepire, il volere, l’oggetto, il non-ego, il mondo o, in breve, la sfera del destino.
Sta di fatto che non c’è altra via che permetta d’imparare, come dice Steiner, “ad amare non soltanto la propria esistenza, ma il mondo” (quale parte o momento della nostra esistenza).
La nostra, ad esempio, è la storia di tanti eventi, ma anche, se non soprattutto, di tante altre persone: dei nostri genitori, dei nostri figli, dei nostri parenti, dei nostri insegnanti, dei nostri compagni di scuola, dei nostri amici, e così via.
Ebbene, è appunto in queste “altre” storie che dovremmo arrivare a scoprire l’agire della nostra volontà, e quindi la presenza dell’Io.
Non è facile. Pensate ad esempio a una persona che debba andare, che so, in Australia, per stipularvi un contratto. Salirà sull’aereo, ben consapevole di quanto dovrà fare, di chi dovrà incontrare, di come dovrà trattare e di quando dovrà tornare. Immaginate, però, che, una volta atterrata in Australia, non si ricordi più niente.
E’ questo, grosso modo, quello che ci succede quando torniamo sulla Terra, tant’è che qualcuno comincia a un certo punto a chiedersi: “Ma che ci sto a fare a questo mondo?”, oppure a dirsi, come pare abbia fatto Fryderyk Chopin: “E’ evidente che la morte è il migliore degli atti. Qual è dunque il peggiore? La nascita, poiché è il contrario del migliore degli atti. Ho dunque ragione di deplorare d’essere venuto sulla Terra. Perché non mi è stato permesso di non venirci, visto che sono qui inattivo? A che serve la mia esistenza?” (5).
Possiamo dire, in ogni caso, che il karma si realizza in prevalenza durante la prima metà della vita, e ch’è soprattutto nel corso della seconda metà che dovremmo sforzarci di comprenderlo, per poter fare finalmente pace con noi stessi, con gli altri e col mondo: una pace che diviene gratitudine, sia verso gli altri e il mondo, sia verso la saggezza che ha ordito la trama del nostro destino.
(Considerate, per inciso, che il non riuscire ad accogliere, nel corso della seconda metà della vita, l’impulso del Cristo, è un’autentica “sciagura”. La seconda metà della vita, per il fatto di avere carattere involutivo, dovrebbe essere infatti vissuta nel segno dell’” in Christo morimur”: nel segno cioè di quel Cristo-Gesù che non l’ha vissuta – in quanto morto a 33 anni – proprio per poter far dono agli uomini della forza necessaria a spiritualizzarla o santificarla.)
Chiunque scopra l’Io nel mondo scopre dunque che non ci sono la “fortuna”, la “sfortuna”, il “fato” o il “caso”, ma che c’è invece un destino che, per poter essere amato, deve essere portato a coscienza.
(“Gli animi forti e puri – scrive Croce -, tutti intenti alla loro opera, si disinteressano degli eventi, perché sanno che gli eventi non sono mai né buoni né cattivi, né favorevoli né sfavorevoli, ma solamente nuove condizioni per nuove azioni” [6].)
Considerate che l’insoddisfazione, il rancore o l’invidia (il ressentiment di Nietzsche) non sono che dei sinistri e venefici surrogati della gratitudine: dei surrogati che non a caso dileguano non appena il pensare riesce a far luce, anche soltanto un poco, sul vero significato degli eventi del nostro destino.

Il destino dell’uomo gli viene preparato dal mondo che i suoi sensi gli manifestano. Se nell’agire del destino egli trova la propria attività, allora il suo sé, nella sua sostanza, gli sorge dinanzi non solo dalla propria interiorità, ma dal mondo dei sensi” (p. 41).

Vedete? “Il suo sé”, ossia l’Io, gli sorge dinanzi non solo dalla parte del pensare (“dalla propria interiorità”), ma anche dalla parte del volere (“dal mondo dei sensi”): gli sorge dinanzi, cioè, non solo dal concetto, ma anche dal percetto, non solo quale ego o soggetto, ma anche quale non-ego od oggetto.
(Scrive Schelling: “Non si può realmente pensare il soggetto-oggetto, senza distinguere tre momenti: 1) Soggetto, 2) Oggetto, 3) (o come terzo) Soggetto-Oggetto […] né il soggetto, né l’oggetto, e neppure il terzo o il soggetto-oggetto, nessuno di questi, né l’1, né il 2, né il 3 (se li indichiamo con dei numeri), sono per sé soli l’ente. L’ente stesso è soltanto ciò che è l’1+2+3”) (7).

Se, anche sommessamente, si riesce a sentire come nel sé il mondo appaia come spiritualità, e come nel mondo dei sensi il sé si dimostri attivo, già si è inseriti in una sicura comprensione dell’antroposofia” (p. 41).

Lo studio e l’approfondimento della gnoseologia, cioè de La filosofia della libertà e dei libri che l’hanno preceduta e preparata, ci aiuta a sviluppare, anche solo in modo “sommesso”, questo sentire.
Ciò significa che il sentire l’Io attivo nel mondo dei sensi in modo schietto e sincero, deve essere preparato dal pensare.

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Di Lucio Russo
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