Massime antroposofiche
103/104/105 – 1°

M

Affronteremo stasera una nuova lettera, intitolata: La via prima di Michele e la via di Michele (12 ottobre 1924).
Prima di cominciare, però, vorrei riprendere brevemente il problema del movimento del pensare, dal momento, come dice Steiner, che “i pensieri, per quanto riguarda il loro contenuto, ci arrivano da fuori”, mentre “la loro elaborazione proviene da noi stessi” (1): cioè appunto dal movimento o dall’attività del nostro pensare.
Abbiamo detto che si deve distinguere il movimento ordinario, discreto, del pensare da quello immaginativo, continuo, e abbiamo visto che Arimane entra in azione, in qualità di ostacolatore, non quando il pensare si limita a muoversi in modo meccanico, ma quando, pur continuando a muoversi così, pretenderebbe di comprendere e spiegare la vita, l’anima e lo spirito.
Una cosa è dunque il pensare astratto, ad esempio quello della matematica pura (nata all’incirca 2500 anni fa, nell’epoca dell’anima razionale-affettiva), altra il pensare concreto, quello (galileiano) della matematica applicata alla realtà inorganica (nato nell’epoca dell’anima cosciente quale “concretezza sensibile”, e destinato a svilupparsi, in virtù dell’impulso di Michele, in “concretezza sovrasensibile”), e altra ancora il pensare riduttivo (arimanico), quello del pensare concreto applicato non solo alla realtà inorganica, ma anche a quelle della vita dell’anima e dello spirito: “riduttivo” perché Arimane è non solo menzognero, ma anche, all’opposto del “megalomane” Lucifero, un vero e proprio “micromane”.
Sere fa, durante un dibattito televisivo sulla cosiddetta “fecondazione assistita”, uno dei partecipanti ha affermato che l’embrione non è un essere umano, perché secondo il principio d’identità e di non contraddizione, l’embrione è l’embrione (A è A), il neonato è il neonato (B è B), ergo l’embrione non è il neonato (A non è B) e il neonato non è l’embrione (B non è A) (2).
Lì per lì, la cosa mi ha ricordato la storiella di quel Tizio che, avendo visto in un museo un teschio e domandato al custode che cosa fosse, si sentì rispondere: “E’ il teschio di Alessandro Volta”; e che poi, avendone visto in un’altra teca uno più piccolo e domandato di nuovo al custode che cosa fosse, si sentì rispondere “E’ il teschio di Alessandro Volta da bambino”.
In realtà c’è poco da ridere, perché dall’applicare a quanto vive nel tempo la logica di quanto giace nello spazio, ossia dal muovere il pensare per cogliere un fenomeno organico così come lo si muove quando si tratta di coglierne uno inorganico, possono derivare, come nel caso appunto dell’embrione, gravi conseguenze.
Il processo evolutivo o di metamorfosi che va dall’embrione al feto e dal feto al neonato è infatti espressione di un movimento che dovrebbe essere compreso immaginativamente, e non meccanicamente (in questo caso, infatti, A diviene B e B diviene C, giacché C è una metamorfosi di B, e B una metamorfosi di A).
E’ vero, quindi, che Arimane media il movimento discreto del pensare quantitativo, è anche vero, però, che finché si limita a svolgere questa funzione non ci ostacola, ma ci permette anzi di accedere, in virtù dell’impulso del Cristo, alla conoscenza della sua realtà, ch’è quella morta del mondo (scrive Steiner: “… quando l’evento del Golgota si fu compiuto, quando fu sofferta la morte sulla croce, il Cristo apparve nel mondo in cui le anime dimorano dopo la morte e rimise la potenza di Arimane nei suoi limiti”) (3).
Diventa invece un ostacolatore allorché tenta di ridurre l’intera realtà alla sua dimensione, costringendoci a pensare in modo discreto o quantitativo anche i fenomeni che dovrebbero essere pensati diversamente.
Qui comincia lo scontro tra Michele e Arimane: ossia quello tra il pensare vivente del primo (“fiume d’acqua viva” sgorgante dal Cristo) e il pensare riduttivo e menzognero del secondo.
Ho già ricordato, una sera, il Michele di Guido Reni che tiene a bada Arimane senza trafiggerlo, quasi che gli dicesse: “Fermo là! Resta dove sei deputato a prestare servizio all’umanità, e non provare a tirare verso di te ciò che non rientra nella tua sfera di competenza”.
Detto questo, cominciamo a leggere la lettera.

(…) Oggi si pensa: fuori di noi vi è la natura con i suoi processi e i suoi esseri; nell’interiorità vi sono le idee. Queste rappresentano concetti di esseri naturali, o anche cosiddette leggi naturali. Quello che più importa ai pensatori, a questo proposito, è di mostrare come si formino le idee che hanno il giusto rapporto con gli esseri naturali o che contengono le vere leggi della natura. Si annette invece poco valore alla relazione in cui queste idee stanno con l’uomo che le ha” (p. 70).

Dice Steiner: “Quello che più importa ai pensatori (…) è di mostrare come si formino le idee che hanno il giusto rapporto con gli esseri naturali o che contengono le vere leggi della natura. Si annette invece poco valore alla relazione in cui queste idee stanno con l’uomo che le ha”.
Pensate ai razionalisti e agli empiristi. Per i primi (ad esempio, per Leibniz), le idee “che contengono le vere leggi della natura” erano innate (congenite); per i secondi (ad esempio, per Locke), erano invece ricavate dall’esperienza sensibile (acquisite). Osservavano dunque il modo in cui le idee stanno in rapporto (esteriore) con i fatti, ma non il modo in cui stanno in rapporto (interiore) col soggetto che le ha o che le esprime (con l’Io).
Ben sappiamo, però, che due individui possono avere la stessa idea: l’uno perché ripete (più o meno “a pappagallo”) ciò che ha sentito dire da altri; l’altro perché ha invece pensato, riflettuto e meditato.
Il rapporto tra l’idea e il soggetto può essere quindi tanto “passivo” che “attivo”; solo quello “attivo”, in quanto rapporto dell’idea con l’Io, può però permetterci di sperimentare la “certezza” o la “persuasione” che si dà quando la verità è nell’Io e l’Io è nella verità (cioè in se stesso).
Superfluo aggiungere che si tratta di una meta ch’è possibile raggiungere per mezzo della conoscenza, e non della fede.

Eppure non potremo intendere l’essenziale, se non solleveremo anzitutto la domanda: che cosa sperimenta l’uomo nelle idee della scienza moderna?
Potremmo arrivare ad una risposta nel modo seguente.
Oggi l’uomo sente che le idee vengono formate in lui mediante l’attività della sua anima. Ha il sentimento di essere l’artefice delle idee, e che soltanto le percezioni gli giungono dal di fuori
” (p. 70).

Abbiamo già visto che l’uomo non ha avuto sempre “il sentimento di essere l’artefice delle idee, e che soltanto le percezioni gli giungono dal di fuori”, ma che ha cominciato ad averlo soltanto dopo l’avvento dell’anima cosciente.
Pensiamo a Kant. Non è appunto convinto che l’uomo, alle percezioni che gli giungono dal di fuori, aggiunge, di suo (soggettivamente e formalmente), i concetti o le categorie?
Sta di fatto, invece (come insegna La filosofia della libertà), che l’unica cosa che l’uomo mette di suo (di soggettivo) nella cosiddetta “cognizione sensibile” è, in un primo momento, la separazione tra il volere che gli dà il percetto e il pensare che gli dà il concetto, e, in un secondo momento, la riunione del percetto e del concetto in forma di rappresentazione.
Suo non è dunque il percetto, giacché proviene dal mondo “esterno” (sensibile), suo non è il concetto, giacché proviene dal mondo “esterno dell’interno” (spirituale), mentre sua è la rappresentazione alla quale dà forma “mediante l’attività della sua anima” (mediante il suo mondo “interno”).
Di norma, però, sappiamo che ci giunge da fuori il percetto, ma non che ci giunge da fuori il concetto (e che percetto e concetto sono una sola cosa): non sappiamo, cioè, che il pensare non fa che illuminare, in forma di concetto, il contenuto che il percepire (volere) ha afferrato nell’oscurità, in forma di percetto.
(Scrive Steiner: “Il vero contenuto del dato [della percezione] viene posto per l’io soltanto dal dato stesso; ma l’io non avrebbe alcuna spinta a porre in sé l’essenza di un dato [il concetto], se prima non vedesse davanti a sé la cosa in modo del tutto privo di determinazione [nel modo del percetto]. Ciò che dunque vien posto dall’io come essenza del mondo non vien posto senza l’io [né soggettivamente dall’io] ma [oggettivamente dal dato] per suo mezzo [per mezzo dell’io]” [4].)
Il “sentimento di essere l’artefice delle idee”, quando si riferisca alle idee o ai concetti, e non alle rappresentazioni, è dunque frutto, da parte dell’ego, di un’“appropriazione indebita”.

L’uomo non ebbe sempre questo sentimento. In epoche più remote egli non sentiva il contenuto delle idee come cosa da lui stesso creata, ma come cosa ricevuta per ispirazione dal mondo soprasensibile.
Questo sentimento si è modificato per gradi, e precisamente a seconda con quale parte l’essere dell’uomo sperimentava ciò che oggi egli chiama le sue idee
” (p. 70).

Quando l’uomo non sentiva di essere l’artefice delle idee, giacché queste scendevano come la manna dal cielo, non sentiva nemmeno, ovviamente, di doverle raggiungere mediante un proprio sforzo, un proprio sviluppo o una propria elevazione.
“Questo sentimento – dice Steiner – si è modificato per gradi, e precisamente a seconda con quale parte l’essere dell’uomo sperimentava ciò che oggi egli chiama le sue idee”.
Che cosa vuol dire? Vuol dire che l’uomo può sperimentare le idee per mezzo dell’Io, così come può sperimentarle per mezzo del corpo astrale, del corpo eterico e del corpo fisico.
Un conto, tuttavia, è che l’idea venga sperimentata mediante il corpo fisico in veste di rappresentazione, mediante il corpo eterico in veste d’immaginazione, mediante il corpo astrale in veste d’ispirazione, altro che venga sperimentata mediante l’Io in veste d’intuizione, e quindi per ciò che realmente è: ossia, un’essenza o un’entità spirituale.

(…) È possibile risalire ad epoche nelle quali i pensieri erano vissuti immediatamente nell’”io”. Ma là non erano ombre come oggi; né erano solamente viventi: erano permeati di anima e compenetrati di spirito. Vale a dire cioè: l’uomo non pensava dei pensieri, ma sperimentava la percezione di concrete entità spirituali” (p. 71).

I pensieri erano vissuti “immediatamente” nell’Io, quando non erano ancora “mediati” dal corpo astrale, dal corpo eterico e dal corpo fisico.
Non erano pertanto “ombre come oggi”, in quanto mediati dal corpo fisico, né “solamente viventi”, in quanto mediati dal corpo eterico, ma erano “permeati di anima”, perché mediati dal corpo astrale, e “compenetrati di spirito”, perché percepiti o sperimentati dall’Io.

Si troverà una simile coscienza, che eleva così lo sguardo a un mondo di entità spirituali, nei tempi preistorici di ogni popolo. Quello che storicamente se ne è conservato si qualifica oggi come coscienza formatrice di miti, e non le si attribuisce speciale importanza per l’intendimento del mondo reale. – Eppure, con quella coscienza, l’uomo sta nel suo mondo, nel mondo della sua origine, mentre con la coscienza di oggi egli si toglie da quel suo mondo.
L’uomo è spirito. E il suo mondo è quello degli spiriti
” (p. 71).

Ciò che per noi deve essere, oggi, una consapevole ascesa, è viceversa stata, un tempo, una inconsapevole discesa. Si tratta, sia chiaro, di un giudizio di fatto, e non di valore, giacché senza tale discesa (la “felix culpa” di Agostino) mai avremmo raggiunto la libertà (“da”).
Scrive appunto Hegel: “Solo il bambino, l’animale sono innocenti, l’uomo deve commettere qualcosa” (5).

Un secondo gradino è quello in cui il pensiero non viene più vissuto dall’”io”, ma dal corpo astrale. Qui la spiritualità immediata va perduta per la visione animica. Il pensiero appare come cosa vivente permeata di anima.
Al primo gradino, quello della visione della concreta sostanzialità spirituale, (…) I fenomeni sensibili del mondo si rilevano sì come le azioni di ciò che si contempla soprasensibilmente, ma non si sente il bisogno di elaborare una scienza speciale di quello che è immediatamente percepibile allo “sguardo spirituale”. Inoltre, ciò che appare come mondo degli esseri spirituali ha tale magnificenza, da richiamare l’attenzione su di sé al di sopra di ogni altra cosa
” (pp. 71-72).

Che cosa succede a questo secondo livello? Succede che l’uomo sperimenta la manifestazione animica dei pensieri, ma non più la loro essenza spirituale: non più cioè lo spirito come “spirito”, ma lo spirito come “anima” o “qualità”.
Per la “visione animica”, va così perduta la “spiritualità immediata”, ma non ancora la sua anima, il suo suono, il suo profumo o il suo sapore (la sua “aura”).
“I fenomeni sensibili del mondo – prosegue Steiner – si rilevano sì come le azioni di ciò che si contempla soprasensibilmente, ma non si sente il bisogno di elaborare una scienza speciale di quello che è immediatamente percepibile allo “sguardo spirituale”. Inoltre, ciò che appare come mondo degli esseri spirituali ha tale magnificenza, da richiamare l’attenzione su di sé al di sopra di ogni altra cosa”.
Che cosa cerchiamo, infatti, elaborando una scienza “di quello che è immediatamente percepibile” ai sensi, se non la sua legge o la sua essenza? Ma ne avremmo bisogno se questa fosse “immediatamente percepibile allo “sguardo spirituale””? No di certo. Non si cerca infatti ciò che si ha, ma ciò che non si ha o che si è perduto (non a caso, “desiderare” viene – dice lo Zingarelli – “dal lat. desiderāre, letteralmente “cessare (-) di contemplare le stelle (siderāre da sīdus, genit. siděris “stella”) a scopo augurale”, quindi “bramare””).
Fatto si è che quando l’esperienza spirituale è diretta, non c’è nient’altro da cercare (la parola greca alétheia significa “verità”, ma anche “reminiscenza” [a-Lete] o [come sottolinea in particolare Heidegger] “disvelamento”).
E’ da quando prende a scendere sugli occhi dell’anima il velo dell’oblio o della tenebra (avviando così il processo che porterà, più tardi, all’”età oscura”) che viene infatti colta, non l’essenza, ma solo la sua manifestazione.

(…) Qui le concrete entità spirituali si nascondono; appare il loro riflesso, come vita permeata di anima. Si comincia ad avvicinare “la vita della natura” a questa “vita delle anime”. Si cercano negli esseri e nei processi della natura le entità spirituali operanti e le loro azioni. In quella che sorse più tardi come ricerca alchimistica, è storicamente da vedersi una specie di “sedimento” di questa tappa della coscienza” (p. 72).

Che cos’era l’alchimia? E’ presto detto: una chimica qualitativa (ovviamente, nei suoi rappresentanti più seri o “visitati – per dirla con Steiner – dagli esseri elementari”).
Penso sappiate che una delle opere principali di Jung è intitolata: Psicologia e alchimia (6). Si tratta di un lavoro che ha il pregio di cogliere l’elemento qualitativo dell’alchimia, ma al contempo il difetto di ridurlo a fatto simbolico e psichico: di considerarlo cioè un elemento non appartenente alla natura, ma proiettato da noi (inconsciamente) sulla natura.
Niente di nuovo, perciò, dal momento che anche la scienza naturale confina e reclude la qualità nella sfera soggettiva dell’esperienza umana (“In natura – scrive Boncinelli – l’odore di violette non esiste, come non esiste un accordo in Do o il giallo paglierino. Ciascuno di questi è un segmento di realtà ritagliato da uno dei nostri sensi e da essi elevato al rango di sensazione”) (7).
(Riguardo a questo cruciale aspetto della conoscenza scientifica, vi consiglio ancora di meditare il ciclo di conferenze di Steiner intitolato: Nascita e sviluppo storico della scienza) (8).
Quando gli alchimisti parlavano, ad esempio, del “sale”, del “mercurio” e dello “zolfo”, non pensavano, come faremmo noi, al sale da cucina, al mercurio che sta (o stava) nei termometri o allo zolfo delle solfatare, ma pensavano a tre diverse qualità presenti, sia nella natura, sia nell’essere umano, e rispettivamente caratterizzanti, in questo, i processi cefalici (corticali), i processi ritmici e quelli metabolici (non si dice ancor oggi, di qualcuno, che ha “sale in zucca” o “fuoco nelle vene”?).
Lo stesso si potrebbe dire riguardo ai cosiddetti “quattro elementi”: “fuoco”, “aria”, “acqua” e “terra”. “Terra” stava infatti per le qualità del freddo e del secco; “acqua” per le qualità del freddo e dell’umido; “aria” per le qualità del caldo e dell’umido; “fuoco” per le qualità del caldo e del secco.
Tali elementi rappresentavano dunque delle qualità presenti, sia nella natura, sia nel temperamento e, di riflesso, nel carattere dell’essere umano.
Pensiamo, in proposito, ai cosiddetti “presocratici” (leggendo, magari, La nascita della filosofia di Giorgio Colli) (9). Siamo sinceri: non ci sembra oggi assurdo che un Talete (uno dei “sette sapienti”) possa aver visto l’origine del mondo nell’acqua, o che un Eraclito possa averla vista nel fuoco?
Ma in tanto ci sembra assurdo in quanto siamo noi a non saper più vedere, nell’acqua, che la “cosa” con cui si lava e, nel fuoco, la “cosa” con cui si cuoce.
E’ solo dunque educando e sviluppando la coscienza ispirata ch’è possibile passare qualitativamente dalla natura all’uomo.

Come l’uomo, al primo gradino della coscienza, “pensando” esseri spirituali viveva ancora pienamente nel suo essere, così, al secondo gradino, egli è ancora vicino a sé stesso e alla sua origine.
Ma con ciò, a entrambi questi gradini, rimane escluso che in senso vero e proprio l’uomo possa arrivare ad un suo proprio impulso interiore all’azione.
In lui agisce un elemento spirituale, a lui affine. Quello che egli sembra fare, è la rivelazione di processi che si svolgono per mezzo di esseri spirituali. Ciò che l’uomo fa è la manifestazione sensibile-fisica di un reale operare divino spirituale che sta dietro
” (p. 72).

Abbiamo detto, altre volte, che il vero Io è l’essenza dell’anima e che la vera anima è la manifestazione dell’Io (“il Signore è con te”).
E’ in ragione di questo loro legame, ad esempio, che, durante il sonno, si trovano tutti e due separati, al di là della soglia, dal corpo eterico-fisico.
Può aiutarci a cogliere la loro differenza l’associare all’idea dell’essenza quella del suono e all’idea della manifestazione quella del colore.
Sentite che cosa dice Steiner: “Dall’immagine colorata parla il suono, si percepisce un risuonare. In questo momento l’uomo ha raggiunto il devachan, si trova nel vero mondo spirituale (…) Il pittore dipinge colori astrali. Il musicista, invece, fa risuonare il mondo devachanico dentro il mondo terrestre (…) Nel devachan noi siamo nella nostra patria, là vive qualcosa di eterno, e quando all’uomo vien dato quaggiù qualcosa che proviene dalla patria d’origine non deve meravigliare se egli ne venga afferrato. Perciò l’influenza della musica è così grande anche sull’uomo più semplice, il quale non ha la più lontana idea di quello che, nelle note della musica, gli parla dicendo: “Io sono te, e tu sei della mia specie”” (10).
“A entrambi questi gradini” non è naturalmente possibile alcuna libertà, poiché la volontà dell’uomo è ancora “la manifestazione sensibile-fisica” del volere degli “esseri spirituali”.
Perché la libertà diventi possibile, occorre scendere più in basso.

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Di Lucio Russo
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