Cominciamo subito a leggere questa lettera, intitolata: Come l’uomo sperimenta Michele-Cristo (9 novembre 1924).
“Chi accoglie nell’anima sua una visione interiore, sorretta da profondo sentimento, dell’essere e delle azioni di Michele, vede sorgere in sé la giusta comprensione di come l’uomo debba trattare un mondo che non è entità divina, o manifestazione divina, o effetto operante, ma che è opera compiuta degli dèi. Guardare questo mondo con conoscenza vuol dire avere davanti a sé forme e configurazioni che dovunque parlano forte del divino, nelle quali però, chi non si illude, non trova essere divino per sé vivente. Ma non si dovrà guardare solo alla conoscenza del mondo. Ad essa si manifesta sì, nel modo più chiaro, la configurazione del mondo che oggi circonda l’uomo. Ma per la vita quotidiana è più essenziale il sentire, il volere e il lavorare in un mondo che nella sua costituzione può sì venir sentito come divino, ma non sperimentato come vivificato dal divino. Per introdurre in questo mondo una vera vita morale, occorrono gli impulsi etici che ho disegnato nella mia Filosofia della libertà” (p. 90).
Scrive Paolo: “Non vogliate conformarvi al mondo presente ma trasformatevi, col rinnovare il vostro intelletto, affinché possiate distinguere qual è la volontà di Dio, quale il vero bene, che gli piace e ciò ch’è perfetto” (Rm 12, 2).
Chi fa la volontà di Dio trasforma dunque il mondo presente (a partire da se stesso e dal proprio intelletto), mentre chi fa la volontà di Arimane gli si conforma, e chi fa quella di Lucifero lo fugge.
Non dobbiamo mai dimenticare che “questo” mondo (“Il mio regno non è di questo mondo” Gv 18,36), non è “il” mondo, e che per poter essere del mondo non si può essere, costi quel che costi, di “questo” mondo (“Nessuno può servire a due padroni” Mt 6,24).
Una cosa, insomma, è vivere con dignità e coraggio in “questo” mondo che “non è entità divina, o manifestazione divina, o effetto operante, ma è opera compiuta degli dèi”, altra “militare” (come dice Paolo) per “questo” mondo.
Scrive Goethe: “Sempre resistere / alle forze contrarie; / mai non piegarsi, / mostrarsi saldi, / evoca l’aiuto / delle divinità” (1).
“In questo mondo dell’opera compiuta può risplendere per l’uomo dal sentimento verace l’essere e il presente mondo d’azioni di Michele. Michele, come presenza, non entra nel mondo fisico. Con tutto il suo operare, egli rimane in una regione soprasensibile immediatamente confinante col mondo fisico della fase attuale di evoluzione del mondo. Perciò non può mai verificarsi che, per le impressioni che ricevono dall’essere di Michele, gli uomini portino la concezione della natura al fantastico, o vogliano configurare la vita morale pratica, in un mondo creato dagli dèi, ma non da loro vivificato, come se fosse possibile l’esistenza di impulsi che non siano eticamente e spiritualmente portati dall’uomo stesso. Sia pensando sia volendo, si dovrà sempre, per giungere a Michele, trasferirsi nel dominio dello spirito” (pp. 90-91).
Abbiamo già detto che Michele “non entra nel mondo fisico”, in quanto agisce nella sfera eterica (“in una regione soprasensibile immediatamente confinante col mondo fisico”), e che detiene le chiavi che schiudono, al di là della soglia, l’accesso al mondo animico-spirituale. Soffermiamoci quindi sulle “impressioni” che riceviamo dal suo essere.
Quando ci occupammo de La filosofia della libertà, ricordai che, a detta di Croce, i tedeschi avevano il concetto della libertà, ma non la pratica, mentre gli inglesi ne avevano la pratica, ma non il concetto.
Evidentemente, i primi avevano letto solo la prima parte de La filosofia della libertà (dedicata appunto alla “scienza della libertà), mentre i secondi ne avevano letto solo la seconda (dedicata appunto alla “realtà della libertà”).
Scherzi a parte, sia i tedeschi, sia gli inglesi non avevano dunque la libertà, giacché questa può essere soltanto unità o sintesi di “concetto” e “pratica” o di “scienza” e “realtà”.
Mi è parso opportuno ricordarlo perché Steiner dice che “non può mai verificarsi che, per le impressioni che ricevono dall’essere di Michele, gli uomini portino la concezione della natura al fantastico, o vogliano configurare la vita morale pratica, in un mondo creato dagli dèi, ma non da loro vivificato, come se fosse possibile l’esistenza di impulsi che non siano eticamente e spiritualmente portati dall’uomo stesso”.
Si porta “la concezione della natura al fantastico” quando si crede (come ad esempio Schopenhauer) che sia un regno privo di pensiero, e si aspetta la manna dal cielo quando si crede (come ad esempio, vi dissi, Musatti) che l’uomo sia un essere privo di volontà.
Chi realizza, invece, che Dio è ormai nell’uomo, e che non è più possibile, perciò, “l’esistenza di impulsi che non siano eticamente e spiritualmente portati dall’uomo stesso”, non avrà difficoltà a comprendere che potrà esserci un mondo migliore solo quando noi stessi saremo migliori.
L’ho detto e ripetuto infinite volte: chi semina gli errori del pensare raccoglie gli orrori del volere.
Essendo abituati però a distinguere, sulla scia di Kant, la “ragion pura” dalla “ragion pratica”, crediamo che la conoscenza (il pensare) non abbia nulla a che fare con la moralità (con il volere). E’ per questo che si sente oggigiorno il bisogno di affiancare al lavoro dei ricercatori o degli scienziati quello dei cosiddetti “comitati-etici”.
Ma un vero conoscere, ossia un conoscere che fosse in grado di rapportarsi a ogni livello con la realtà, non avrebbe affatto bisogno di appoggiarsi a un’etica estrinseca, poiché sarebbe in grado di risvegliare, da sé, gli impulsi morali.
Ascoltate queste parole di Schelling: “E’ un’impresa della ragione davvero temeraria liberare l’umanità, sottraendola ai terrori del mondo oggettivo; ma è un’impresa che non può fallire, perché l’uomo diventa più grande a misura che impara a conoscere se stesso e la sua forza. Gli si dia la coscienza di ciò che è, ed egli imparerà ben presto a essere ciò che deve: gli si dia il rispetto teoretico per se stesso e ne deriverà ben presto anche quello pratico” (2).
Ricordate che cosa insegnava Socrate? Insegnava che il bene deriva dalla conoscenza, il male dall’ignoranza.
Molti storici della filosofia parlano, al riguardo, di “intellettualismo etico”, giacché, nulla sapendo dell’evoluzione dell’anima, ignorano che tale insegnamento si fondava sul fatto che non si era ancora instaurata, allora, una netta separazione tra il pensare e il volere (simbolicamente, Joachim e Boaz, le due colonne del Tempio di Salomone, oppure Psiche ed Eros).
Lasciate che vi legga, a proposito dell’evoluzione dell’anima, questa significativa pagina di Steiner: “Questo vediamo vivere nella coscienza di tutte le antiche epoche. Le personalità dirigenti, dalle figure degli eroi fino a Platone, venivano considerate come figli degli dèi; vale a dire, dietro alle personalità che appaiono nella storia, gli uomini scorgevano il divino quando riguardavano indietro ai tempi preistorici, a tempi sempre più lontani; in Platone e negli eroi ravvisavano esseri discesi, anzi persino generati da entità divine. Così vedevano unirsi i figli degli dèi con le figlie degli uomini al fine di far scendere l’elemento spirituale sul piano fisico. Così erano visti in quegli antichi tempi i figli degli dèi, i semidèi, cioè gli uomini il cui essere era connesso col divino. Dal momento invece in cui sentirono di poter parlare dell’azione dell’io nell’io [cioè nel corso dello sviluppo dell’anima razionale-affettiva], di quello che vi è nella personalità umana, i greci designano le loro somme guide col nome dei sette saggi, e indicano così ciò che era divenuto puro elemento umano, discendendo dai figli degli dèi. Che cosa doveva poi dire l’istinto dei popoli nei tempi successivi alla Grecia? Si trattava ora di presentare ciò che l’uomo elabora sul piano fisico, e come lo innalza con tutto il suo frutto al mondo spirituale. Se cioè nei tempi più antichi si sentiva di dover vedere prima dell’uomo, e l’uomo fisico come un’ombra, se durante il periodo greco si vedevano dei saggi che per così dire vivevano come io nell’io, nei tempi successivi alla Grecia si dovettero vedere delle personalità che vivevano sul piano fisico e si innalzavano poi allo spirito mediante ciò che vive nel fisico. Questo concetto è nato dall’istinto di un sapere. Come l’epoca pregreca ebbe figli di dèi, come i greci ebbero dei saggi, così i popoli che seguirono hanno dei santi che si elevano alla vita spirituale attraverso quello che si conquistano sul piano fisico con le loro azioni” (3).
“Sia pensando sia volendo – dice ancora Steiner -, si dovrà sempre, per giungere a Michele, trasferirsi nel dominio dello spirito”.
Per chiunque intenda seguire il cammino dell’antroposofia, è questo il primo passo o il primo impegno. Ce ne saranno altri, ma sarà impossibile affrontarli se non si sarà provveduto anzitutto a liberare il pensiero dalla forza arimanica che ordinariamente lo grava. E’ questa, infatti, a tenere attaccato il pensiero al cervello (alla materia) così come la forza magnetica tiene attaccato il ferro alla calamita.
(“Per gli antroposofi, è di straordinaria importanza familiarizzarsi con quei puri concetti mediante i quali, un gradino dopo l’altro, [si giunge a completare la rete concettuale]. E’ straordinariamente proficuo, e rappresenta un esercizio meditativo straordinariamente fecondo, vivere nella sfera dei cristallini concetti hegeliani; è un importante strumento di educazione dell’anima” [4].)
Pur di mantenere inalterato questo stato, Arimane, insieme a molte altre cose che vanno oggi di moda, ha inventato perfino un proverbio: “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quello che perde, ma non sa quello che trova”.
Grazie a Steiner, però, sappiamo che quello che perdiamo lasciando la via vecchia è meglio perderlo che trovarlo, e che quello che troviamo sulla via nuova è meglio trovarlo che perderlo.
“Così facendo si vivrà spiritualmente nel modo seguente: si prenderanno la conoscenza e la vita come appunto vanno prese ormai dal secolo quindicesimo in poi. Ma ci si atterrà alla rivelazione di Michele; la si lascerà risplendere come una luce entro i pensieri che si ricevono dalla natura, la si porterà nel cuore come calore mentre si vivrà conformemente al mondo divino dell’opera compiuta” (p. 91).
Vedete, viviamo in un mondo che è un’opera compiuta cui dobbiamo essere grati, perché, senza il suo sacrificio, mai avremmo raggiunto la coscienza dell’Io.
Perché l’Io potesse dire: “Io sono il soggetto (l’ego) e tu sei l’oggetto (il non-ego)”, è stato infatti necessario realizzare uno stato (cartesiano) in cui non si desse più quella che Lévy-Bruhl ha definito una participation mistique: vale a dire, uno stato in cui l’uomo non era ancora un “individuo” in grado di reggersi su di sé, e di dirsi quindi: ”Io sono”.
Questo Io (questo ego) occorre però santificarlo. Recitando il Pater Noster, diciamo: “Sia santificato il Tuo nome”. Ma qual è il Suo nome? Ce lo dice Dio stesso: “Mosè disse a Dio: “Ecco, io vado dai figli d’Israele e dico a loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha inviato a voi”. Mi diranno: “Quel è il suo nome?”. Che cosa risponderò loro?”. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono”. E aggiunse: “Così dirai ai figli d’Israele: Io-sono mi ha mandato da voi”” (Es 3, 13-14).
“Sia santificato il Tuo nome” significa dunque “Sia santificato l’Io” (l’ego). Quale frutto della coscienza corporea o spaziale dell’Io, l’ego non è infatti “santo” (spirituale), bensì “profano” (psico-fisico).
Abbiamo visto, infatti, che la coscienza dell’Io (l’autocoscienza) nasce sul piano dell’opera compiuta, perché è solo qui che il soggetto (l’ego) può contrapporsi a un oggetto (a un non-ego): a un oggetto ch’è tutto quello (tutto il mondo) che il soggetto non è (si potrebbe dire, dell’ego, ciò che dice Hegel, sul piano logico, dell’”essere per sé”: “Esso è uno, che ha relazione solo con se stesso e respinge da sé l’altro”; “L’uno è ciò che esiste per sé, che si distingue assolutamente dagli altri”) (5).
Ritrovare l’Io al di là dell’ego e del non-ego non è facile. Di norma, riusciamo a farlo soltanto durante il sonno.
Nostro compito, però, sarebbe quello di riuscire a superare (come abbiamo visto a suo tempo) il dualismo di soggetto e oggetto allo stato di veglia, riconoscendo l’Io, sia nell’ego, sia nel non-ego.
Per assolvere questo compito occorrono però pazienza, umiltà ed equilibrio (“In una vera conoscenza si rimane molto umili, perché si sa che si consegue una vera conoscenza soltanto nel corso del tempo. Se si vive nella conoscenza si sa quanto sia difficile conseguire la più semplice verità, magari cercata per decenni”) (6).
Pensate, per fare un esempio, all’idea della “triarticolazione dell’organismo sociale”. Capita, ogni tanto, che qualcuno venga preso dalla tentazione di battersi, sul piano politico, per realizzarla, nonostante Steiner abbia detto che “il rimedio non può consistere nel creare nuove posizioni di lotta” (7).
Ciò vuol forse dire che dobbiamo starcene con le mani in mano, e non fare nulla per realizzarla? Assolutamente no! Vuol dire, piuttosto, che dovremmo batterci per cominciare a realizzarla anzitutto nel nostro pensare e nel nostro sentire (“Sono in molti a dire di evitare di stare lì ad almanaccare e di vivere, invece, una vita d’azione. Come sarebbe meglio, per contro, se si evitasse di compiere tante azioni premature e la gente badasse un po’ di più a pensare!”) (8).
Ma davvero si crede che così come siamo, vale a dire degli ego non “triarticolati” (vedi L’iniziazione) (9), bensì “tutti d’un pezzo”, saremmo pronti a vivere in un organismo sociale nel quale la vita spirituale si fondasse sulla libertà, la vita giuridica sull’uguaglianza e quella economica sulla fraternità?
Si usa dire: “Fatta la legge, trovato l’inganno”; ebbene, quanto tempo (o quanta “fantasia immorale”) credete che occorrerebbe, a chi pensa e sente così, per mandare in malora un organismo sociale in tal modo rinnovato (nel quale, per dirne solo una, l’incentivo al lavoro non sarebbe più costituito dalla brama del guadagno personale)?
Stiamo attenti perciò a non illuderci e a non fare il passo più lungo della gamba. Guai, infatti, a voler raccogliere all’esterno (nella sfera del volere) quanto non si è prima seminato all’interno (nelle sfere del pensare e del sentire).
Penso sappiate, ad esempio, che la stampa, anni fa, dette notizia che la banca centrale degli Stati Uniti, la Federal Reserve, stava prendendo in considerazione l’idea (avanzata anche da Steiner) di una periodica scadenza del denaro (10).
Ma perché la stava prendendo in considerazione? E’ presto detto: per costringere la gente a spendere, dal momento che i consumi stavano diminuendo.
Ciò dimostra ch’è possibile espiantare dal corpo spirituale dell’antroposofia delle idee per trapiantarle in un altro, che gli è magari avverso (“Il materialismo nell’ambito della vita conoscitiva e l’utilitarismo nel campo della vita pratica sono due cose dello stesso genere”) (11).
Non dimentichiamolo: le idee sono importanti, ma ancora più importante è lo spirito che le anima e del quale sono (consciamente o inconsciamente) al servizio.
Come chiude infatti Steiner La filosofia della libertà? Rileggiamolo: “Questo libro non concepisce perciò il rapporto fra scienza e vita nel senso che l’uomo debba piegarsi all’idea e consacrare le proprie forze al suo servizio, ma nel senso che egli debba impadronirsi del mondo delle idee per adoperarlo per i propri fini umani, i quali vanno al di là di quelli puramente scientifici. Dobbiamo poterci mettere di fronte all’idea in modo vivente; altrimenti si diventa schiavi di essa” (12).
“Allora ci si porrà dinanzi agli occhi non solo l’osservazione e l’esperienza del mondo presente, ma anche ciò che Michele trasmette: una condizione passata del mondo, una condizione del mondo che appunto Michele, col suo essere e con le sue azioni, trasporta nel presente” (p. 91).
E’ questa quella che abbiamo chiamato la “nostalgia del futuro” (quella luciferica è l’abituale nostalgia del passato). Michele prende infatti il passato, vale a dire lo stato di comunione tra l’Entità divino-spirituale e la manifestazione, e lo trasporta nel presente, così che l’uomo possa fare del suo passato il suo futuro (“Questa proposizione è una regola aurea: ogni ideale è germe di futuri eventi naturali; ogni evento naturale è frutto di passati eventi spirituali”) (13).
Solo il nostro vero passato può essere dunque il nostro sano e santo futuro, giacché dobbiamo tornare donde siamo venuti (“Se non diverrete come bambini…”). Certo, quando ci torneremo (se ci torneremo) non sarà più come prima. Ricordate che cosa ha detto Steiner la volta scorsa? “Non sarà più la stessa entità che fu una volta come cosmo, quella che sorgerà così per opera dell’umanità. Attraversando il gradino dell’umanità, il divino-spirituale sperimenterà un’esistenza che prima non manifestava”.
Un conto dunque è dire (come faceva un tempo Maurizio Costanzo) che il “futuro è dietro l’angolo”, e quindi ignoto o buio, altro sapere qual è (l’Apocalisse di Giovanni), e in quale direzione ci si debba perciò muovere.
Diceva Baudelaire che l’unico vero progresso consiste nella graduale cancellazione delle tracce del peccato originale; e Steiner osserva: “In tempi antichi ci si riferiva al peccato originale morale, e l’evoluzione dell’umanità era pensata nel senso appunto di tale peccato originale, oggi occorre pensare a un ideale dell’umanità, a un superamento del peccato originale grazie alla spiritualizzazione della conoscenza, al riconoscimento del contenuto spirituale del mondo” (14).
“Se fosse altrimenti, se Michele agisse in modo da introdurre le sue azioni nel mondo che al presente l’uomo deve conoscere e sperimentare come mondo fisico, l’uomo di oggi non apprenderebbe dal mondo ciò che in realtà vi è in esso, ma ciò che vi fu. Se questo avviene, una simile illusoria comprensione del mondo conduce l’anima umana fuori dalla realtà adatta ad essa, e precisamente in una realtà luciferica.
(…) È importante che, nella concezione dell’anima umana, viva una giusta rappresentazione di come, nella missione di Michele, venga evitato tutto ciò che è luciferico” (p. 91).
Ripensiamo al libro dei Bastaire: Per un’ecologia cristiana (lettera 19/10/1924). Non è forse un’“illusoria comprensione del mondo” credere che Dio viva nell’effetto operante e nell’opera compiuta (proprio nella sfera, cioè, in cui vige, non a caso, il Principio di conservazione dell’energia)?
Capisco che asserire che Dio non vive più in quella sfera potrebbe far pensare che si condivida l’idea nietzschiana della “morte di Dio”, ma è questo forse un buon motivo per illudersi (lucifericamente) che ci viva ancora?
Fatto si è che Nietzsche si è accorto del Dio (creatore) ch’è morto (nella natura), ma non del Dio (ri-creatore) ch’è risorto (nell’uomo), e che, muovendo dall’uomo (quale Figlio dell’uomo), può far risorgere anche la natura.
Ascoltate con quanta chiarezza Steiner riassume ciò che abbiamo detto al riguardo: “Un tempo la natura era il corpo vivente dello spirito, come il corpo dell’uomo lo è dell’anima. Ora, il corpo dello spirito universale si espande, manifestando tratti che un tempo lo spirito gli aveva incorporato, mostrandone i gesti nel suo divenire e tessere e presentandone gli influssi. L’azione spirituale nel corpo del mondo dovette precederne lo stato attuale, affinché esso si indurisse e mostrasse nel regno minerale un precursore del sistema osseo umano, nel regno delle piante un precursore del sistema nervoso umano e in quello animale un precursore animico dell’uomo. Così il corpo del mondo venne condotto dalla gioventù alla vecchiaia. Gli attuali regni minerale, vegetale, animale sono in certo modo le creazioni irrigidite di ciò che un tempo fu compiuto secondo corpo e spirito in un divenire che oggi è spento. Dal grembo dell’antico corpo del mondo però, la spiritualità creatrice poté far nascere l’uomo dotato di anima e spirito, nella cui interiore conoscenza rilucono le idee con le quali un tempo la spiritualità creante produsse il corpo del mondo. Nella natura attuale riposa come incantato lo spirito un tempo in essa vivente e operante; nell’anima umana esso viene disincantato” (15).
Dice Steiner che “il modo in cui Michele porta ad effetto il passato nella vita umana attuale, è quello conforme al vero progresso spirituale del mondo, che non contiene nulla di luciferico”.
Perché non contiene nulla di luciferico? Perché non fugge la morte (né la scienza della morte), bensì l’affronta, la supera e la vince in grazia della risurrezione.
Abbiamo già detto, al riguardo, che la scienza (galileiana) è grande proprio perché comincia, conoscendola, a vincere la morte, ma che, non sapendo in virtù di quale forza (“creatrice”) le riesca di farlo, diventa ignara schiava o vittima di ciò che ha vinto (tanto che si potrebbe dire, parafrasando il celebre “Graecia capta, ferum victorem cepit”: “mors capta, vivum victorem cepit”).
“È importante – dice ancora Steiner – che, nella concezione dell’anima umana, viva una giusta rappresentazione di come, nella missione di Michele, venga evitato tutto ciò che è luciferico”.
Ciò significa che dobbiamo trovare il coraggio (se intendiamo seguire Michele e comprendere l’antroposofia) di essere moderni: cioè uomini dell’anima cosciente (“Nessuno – dicevano i Padri del deserto – può essere assolto da un peccato che non ha commesso”).
Per essere moderni, però, non basta vivere oggi sulla Terra, giacché una cosa è l’evoluzione del corpo, altra quella dell’anima; così come non basta sentirsi attratti dalle “cose” dello spirito per redimersi e redimere, giacché una cosa è la luce di Lucifero (lux-fero), altra quella del Cristo (per questo i Rosacroce affermano, come sappiamo: Christus verus Lucifer).
Lo stile di Michele, ad esempio, è a tal punto sobrio ed essenziale (solare) che non di rado capita che quanti si sentono attratti dalle “cose” dello spirito, avvezzi alle ridondanze, alle suggestioni e agli estetismi (lunari) di quello luciferico, lo avvertano freddo e distante.
Scrive però Steiner, ne La mia vita: “Il mio stile non è tenuto in modo da far trapelare nei periodi i miei sentimenti soggettivi. Mentre scrivo attutisco ciò che sale dall’intimo calore e dal profondo sentimento, in uno stile asciutto, matematico. Ma solo questo stile può essere un risvegliatore, poiché il lettore deve suscitare in se stesso il calore e il sentimento; non può lasciare che, in uno stato di coscienza smorzata, essi vengano in lui semplicemente “travasati” dall’autore” (16); e, in altra sede, afferma: “Scrivendo nel modo in cui io cerco di scrivere, si agisce sull’io, e l’io dispone del libero arbitrio. Usando invece uno stile “ebbro” si interviene sul corpo astrale, che però non è altrettanto libero, anzi non lo è affatto (…) Osservando il modo in cui un uomo compone le proprie frasi, possiamo dire: se compone le frasi usando la logica e una frase segue l’altra, l’uomo agisce sull’io dell’altro, e l’io è libero” (17).
Ricordiamoci, insomma, che Michele non opera nella sfera (astrale) del sentire, bensì in quella (eterica) del pensare immaginativo, e ch’è solo in virtù di questa sua vivente mediazione ch’è concesso accedere, al momento giusto, a quella del sentire, della luce e della bellezza dello spirito, ch’è la sfera, come ormai sappiamo, della Vergine-Sophia.