Massime antroposofiche
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M

Di fronte a questo stava il fatto che l’antica condizione dell’anima umana, tramandata storicamente, aveva perduto ogni forza interiore in vastissime sfere. Quelli che la storia chiama i problemi della fede, e di cui si occuparono i grandi concili riformatori nell’epoca iniziale dell’attività dell’anima cosciente, sono tutti connessi con la vita di quelle anime umane che ancora non sentivano in sé l’anima cosciente, ma che anche nella tramandata anima razionale o affettiva non potevano ormai più trovare forza e sicurezza interiore” (pp. 125-126).

Pensate, per dirne solo una, al potere della “scomunica”. Un tempo, la temevano perfino gli imperatori (basti pensare a Enrico IV, Gregorio VII e Canossa): una scomunica avrebbe infatti legittimato i loro oppositori o rivali a spodestarli.
Ieri l’altro, invece, Benedetto Croce, “rispondendo a un’affettuosa lettera di circostanza di don Giuseppe De Luca (…) pur ringraziando, manifestava la sua indifferenza nei riguardi della iniziativa ecclesiastica [la condanna di Croce e Gentile da parte del Sant’Uffizio e la messa all’indice delle loro opere], indifferenza circondata da “sorriso e gaiezza negli astanti. Da tre giorni, infatti, io ricevo allegre congratulazioni per il nuovo riconoscimento che mi viene dalla Chiesa”” (8).
Non basta questo a dimostrare quanto diverso sia l’uomo dell’anima cosciente da quello dell’anima razionale-affettiva?
Certo, l’epoca della Riforma è un’epoca di transizione, cioè un’epoca in cui l’umanità sta, per così dire, con un piede nell’anima cosciente e con l’altro ancora nell’anima razionale-affettiva; non solo, in un’anima razionale-affettiva che non è più in grado (in quanto meramente “tramandata”) di fornire la stessa “forza e sicurezza interiore” che forniva agli uomini del Medioevo.

Si può veramente dire che esperienze storiche umane quali si manifestarono nei concili di Costanza e di Basilea mostrano, su nel mondo spirituale, il discendere dell’intellettualità che vuol raggiungere gli uomini, e giù, nella sfera terrena, l’anima razionale o affettiva che non corrisponde più all’epoca nuova. Nel mezzo si librano le forze di Michele che guardano alla loro passata unione col divino-spirituale, e anche giù verso l’umanità; anche questa aveva in passato quel legame, ma ormai doveva inoltrarsi in una sfera nella quale Michele può sì aiutarla, ma dal mondo spirituale, senza però doverla interiormente unire a sé (…) Si penetra profondamente nelle caratteristiche di questa epoca se si guarda alla figura del cardinale Nicolò Cusano (si veda in proposito il mio libro I mistici all’alba della vita spirituale dei tempi nuovi). La sua personalità è come una pietra miliare dell’epoca” (p. 126).

Ho già ricordato, una sera, che Steiner, in Nascita e sviluppo storico della scienza, colloca la nascita della scienza tra il 1440, anno di pubblicazione del De docta ignorantia di Niccolò Cusano, e il 1543, anno di pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico.
E’ in questo lasso di tempo che matura il pensiero scientifico, ed è per questa ragione che la personalità di Niccolò da Cusa (1401-1464) “è come una pietra miliare dell’epoca”.
Scrive Steiner, ne Gli enigmi della filosofia: “Cusano si sente solo con il suo “io”; il quale non ha in se stesso nessun collegamento con il suo Dio. Dio è fuori dell’”io”. Incontra l’”io” solo quando raggiunge la “docta ignorantia”” (9).

Egli vorrebbe portare a generale riconoscimento idee che non combattono i mali del mondo fisico per mezzo di tendenze spirituali fantastiche ma che, per mezzo del sano buon senso umano, riconducono sulle giuste vie ciò che si è fuorviato. Si osservi il suo comportamento al concilio di Basilea, e in genere nella sua comunità ecclesiale, e lo si noterà”.

Nel libro I mistici all’alba della vita spirituale dei tempi nuovi, Steiner dedica un capitolo al “Cardinale Nicolò da Kues”, arrivando a concludere che, da matematico e da persona attenta agli sviluppi del pensiero scientifico, avrebbe di certo fatto molto più di quanto ha fatto (seppure solo “per mezzo del sano buon senso umano”), se non fosse stato cardinale e non avesse temuto, mettendosi contro la Chiesa, di finire sul rogo come Hus.
(“La sua veste sacerdotale impedì al Cusano di percorrere con rigorosa coerenza tutto il cammino indicatogli da quella sua lucida visione. Lo vediamo infatti compiere un inizio brillante col passaggio dal “sapere” al “non-sapere”. Ma al tempo stesso scorgiamo come, nella sfera del “non-sapere”, egli non ci mostri null’altro che il contenuto dottrinale teologico che ci è offerto anche dagli scolastici” [10].)

Se da un lato il Cusano è così interamente incline al rivolgimento che avviene nell’evoluzione con lo sviluppo dell’anima cosciente, dall’altro lo vediamo manifestare idee che mostrano luminosamente l’influsso delle forze di Michele. Egli introduce nella sua epoca le buone idee antiche che conducevano il senso dell’anima umana a sviluppare facoltà atte a percepire le sostanze, le intelligenze del cosmo, quando ancora Michele amministrava l’intellettualità cosmica. La “docta ignorantia” della quale egli parla è una comprensione che sta al di sopra della percezione rivolta al mondo dei sensi, una comprensione che porta il pensiero al di là dell’intellettualità (del sapere ordinario), in una regione dove nell’ignoranza ma in una veggenza che è insieme esperienza, si afferra lo spirito.
Il Cusano è cioè quella personalità che, sentendo nella propria vita animica per opera di Michele la perturbazione dell’equilibrio cosmico, vuole intuitivamente contribuire quanto più possibile a che tale perturbazione venga indirizzata a vantaggio dell’umanità
” (pp. 126-127).

Chiariamoci ancora le idee: negli scolastici, da un parte c’è la conoscenza e dall’altra la fede, e questa è deputata a sopperire agli inderogabili limiti di quella; in Cusano, invece, la docta ignorantia aspira a essere una conoscenza che varca i limiti di quella ordinaria.
È nel cuore di questa aspirazione che va riconosciuta la presenza di Michele, giacché è solo in virtù del suo impulso che si può avvertire l’esigenza di sviluppare gradi superiori di coscienza o conoscenza.
In Cusano tale impulso vive non tanto in ciò che di fatto realizza, quanto piuttosto nella tensione o nell’intenzione “gnostica” (conoscitiva) che lo anima.
(Della devozione, quale sintesi di dedizione e amore, Steiner dice: “E’ necessario voler pensare intorno a ciò verso cui si prova un sentimento di dedizione. Nell’istante in cui la dedizione non si accompagna alla volontà di pensare, essa è esposta al pericolo di smarrirsi; una volontà che a priori e per principio rinunciasse a pensare intorno all’oggetto della propria dedizione potrebbe condurre a questo estremo: ad un perenne deliquio animico. Forse che l’altro elemento della devozione, l’amore, può anch’esso subire un’uguale sorte? Nell’amore, dove qualcosa deve riversarsi dal Sé umano e irradiare verso l’oggetto ignoto, occorre che in nessun istante l’Io rinunci a se stesso […] Che cosa diviene l’amore, se l’Io non si mantiene desto fino al limite dove incontra l’ignoto, se non vuol compenetrare questo ignoto con la luce del pensiero e del sano giudizio? Diviene ciò che si chiama “esaltazione”” [11].)
E’ a causa di tale tensione o intenzione “gnostica” che Cusano ha corso il rischio di essere considerato un eretico, al pari di quanti affermavano (e ancor oggi affermano) che il territorio riservato dalla scolastica alla fede (o all’ontologia) può diventare territorio della conoscenza (o della gnoseologia): vale a dire, di un sapere che è al tempo stesso (nel caso appunto di Cusano) un non-sapere o di un non-sapere ch’è al tempo stesso un sapere.
L’obiettivo di questo suo “sapere-non-sapere” era l’intuitio intellectualis: vale a dire, l’intuizione intellettuale di Dio, quale coincidentia oppositorum: cioè quale sintesi o unione degli opposti.
Tale “sapere-non-sapere” potrebbe in effetti trasformarsi in una “scienza dello spirito” se, forte della sua aspirazione conoscitiva (michaelita), si concretasse (al di là del “sano buon senso umano”) in coscienza immaginativa, in coscienza ispirata e in coscienza intuitiva.
Superfluo aggiungere che un conto è l’umile docta ignorantia di Cusano, altro la presuntuosa ignorantia docta degli odierni intellettuali (in specie se materialisti).
Fatto si è che un tempo esisteva la cultura ed esisteva l’ignoranza, mentre oggi esiste l’ignoranza o l’incoscienza colta (coltivata) patrocinata da Arimane (in qualità di spirito dell’inganno). Come parliamo di un’anima “cosciente”, potremmo perciò parlare di un’anima “incosciente”, che non solo si spaccia per cosciente, ma elabora e diffonde pure una propria oscuroveggente concezione dell’uomo e del mondo.
E’ a questa “falsa coscienza” (Marx), ad esempio, che dobbiamo il fatto che ci siano oggi in giro tante teste che, come ho già detto una sera, sanno tanto, ma capiscono poco.
Mentre non si può capire senza sapere, si può infatti sapere senza capire.

In mezzo a ciò che spiritualmente si manifestava in questo modo viveva segretamente anche dell’altro. Singoli individui, aventi il senso e la comprensione per la posizione delle forze di Michele nell’universo, vollero preparare le forze dell’anima loro in modo da trovare coscientemente l’adito alla sfera spirituale, confinante con la sfera terrena, nella quale Michele fa i suoi sforzi a favore dell’umanità.
Essi cercavano di conquistarsi la giustificazione a questa impresa spirituale comportandosi esteriormente nella loro esistenza, sia nella professione, sia altrimenti, in modo che la loro vita non si potesse distinguere da quella degli altri uomini. Per il fatto che compivano con amore ed in modo del tutto normale i loro doveri verso il mondo terreno, essi potevano liberamente rivolgere l’intimo della loro umanità alla sfera spirituale di cui abbiamo parlato. Ciò che essi facevano in questa direzione era affare loro e di quelli coi quali “occultamente” si univano
” (p. 127).

Abbiamo visto, all’inizio di questa lettera, che “per la maniera nuova [di “percepire le sostanze, le intelligenze dell’universo” o i logoi] doveva prima venir creato il congiungimento dell’anima con le forze di Michele”.
Singoli individui (“aventi il senso e la comprensione per la posizione delle forze di Michele nell’universo”) sentivano dunque, quale propria missione, il creare questo congiungimento. La svolgevano “segretamente” perché sapevano di dover tenere separata la vita esteriore dalla vita interiore dello spirito: sapevano cioè che Michele, ove si fosse trovato coinvolto in affari mondani o “umani, troppo umani”, non sarebbe potuto restare unito alle loro anime.
Questo, seppure in altro modo e in diversa misura, dovremmo tenerlo presente anche noi. Ricordate ciò che dice Steiner ne L’iniziazione? “Di una cosa conviene rendersi ben conto: che un uomo, completamente immerso nella civiltà tutta esteriore della nostra epoca, incontra gravi difficoltà per giungere alla conoscenza dei mondi superiori. Vi riesce soltanto, se lavora energicamente su di sé” (12).
Sia chiaro: non si tratta di isolarsi dal mondo esteriore, facendo gli asceti o gli eremiti, quanto piuttosto di isolare il mondo interiore (la vita animico-spirituale) nel senso indicato qui da Steiner: “Potrai vivere in intima amicizia con un iniziato, ma rimarrai separato dal vero suo essere finché tu stesso non sia iniziato. Potrai godere pienamente del cuore e dell’affetto di un iniziato, ma egli ti affiderà il suo segreto solo quando sarai maturo per accoglierlo. Lo potrai adulare, lo potrai torturare; nulla varrà a determinarlo a svelarti qualcosa che egli sa di non doverti confidare, perché al gradino della tua evoluzione non sei ancora in grado di accogliere in modo giusto quel mistero nella tua anima” (13).
A scanso di equivoci, lasciate che vi legga anche questo passo della quarta delle otto meditazioni di Una via per l’uomo alla conoscenza di se stesso: “Deve verificarsi questo: l’uomo ha da imparare a rinunciare, quando entra nel mondo soprasensibile, a quanto nella vita ordinaria egli considera la verità più salda, deve imparare ad assumere un atteggiamento diverso nel sentire e giudicare le cose. Deve però anche rendersi conto che quando si ritroverà di fronte al mondo sensibile dovrà usare di nuovo i sentimenti e i giudizi validi per quest’ultimo. Non solo deve imparare a vivere in due mondi, ma anche a vivervi in modi del tutto differenti. Non deve menomare il proprio sano giudizio per la vita ordinaria entro il mondo dei sensi e dell’intelletto, solo perché è costretto ad applicare altri criteri di giudizio in un mondo diverso” (14).
Morale della favola: anche il nostro modo di stare al mondo (di essere “calati nell’esistenza” o di “esserci”, direbbe Heidegger) deve essere un’arte o una creazione morale (“Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” – Mt 10,16).

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Di Lucio Russo
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