“Soltanto in quest’epoca di mezzo sono date le condizioni in cui l’umanità può progredire da una coscienza ottusa ad un’autocoscienza chiara e libera, ad una libera intelligenza e ad una libera volontà sue proprie” (p. 148).
Per tutto il tempo in cui l’animico-spirituale e l’eterico-fisico sono stati uniti, non si sono dati né un “oggetto” da osservare né un “soggetto” osservatore.
“Le condizioni in cui l’umanità può progredire da una coscienza ottusa ad un’autocoscienza chiara e libera, ad una libera intelligenza e ad una libera volontà sue proprie” si sono venute a creare soltanto quando l’animico-spirituale si è diviso dall’eterico-fisico, rendendolo in tal modo oggetto della propria osservazione.
Osservando e pensando l’eterico-fisico, l’animico-spirituale non fa però che osservare e pensare il proprio passato o la propria storia.
Di che cosa ci parla infatti l’eterico-fisico? Dello spirito che è stato, e non di quello che è, poiché è lo spirito che è a conoscere quello che è stato.
Ripensiamo alla res extensa e alla res cogitans di Cartesio. Che fa la res cogitans? E’ ovvio: cogita la res extensa.
Se fosse tutt’una con questa, se non l’avesse cioè di fronte a sé quale oggetto, non potrebbe osservarla né pensarla.
Afferma Solov’ëv: “Nella conoscenza filosofica, l’idealità o libertà di coscienza si manifesta in quanto tale; in essa si riconosce allora che il soggetto che conosce il processo naturale dell’evoluzione universale è proprio lo stesso soggetto che ha portato a compimento questo processo, egli conosce soltanto qui la propria attività come oggettività (sub specie objecti)” (6).
“Doveva una volta venire il tempo in cui Copernico e Keplero “calcolassero” il corpo del mondo, perché dalle forze cosmiche che sono connesse col realizzarsi di quel momento doveva formarsi l’autocoscienza umana. In tempi più antichi tale autocoscienza era stata predisposta; poi venne il tempo in cui essa divenne capace di “calcolare” gli spazi cosmici” (p. 148).
Come si vede, scopo ultimo del processo di caduta e di “oggettivazione” (Solov’ëv) è il raggiungimento dell’autocoscienza, cioè di un Io che sia cosciente di sé quale Io (individuale).
“La vicenda umana – scrive Scaligero – si svolse da allora secondo una continua perdita di livello, rispetto alla condizione primordiale. Da allora l’unico valore di cui è legittimo parlare è il sorgere di un Io consapevole di sé, non mediante gli esaurentesi impulsi tradizionali, bensì mediante pensiero ed esperienza esigenti il sovrasensibile come attività individuale rivolta al sensibile” (7).
“Sulla terra si svolge la “storia”. Ad essa non si sarebbe mai giunti se gli spazi dell’universo non fossero diventati costellazioni “stabili” e corsi “fissi” di stelle” (p. 148).
La storia (ch’è in primo luogo, lo abbiamo detto e ripetuto, storia dell’anima) è una creazione umana, e non c’è nulla di più terribile del modo in cui viene di solito insegnata: come una mera successione di date e di fatti.
Sappiamo invece che i fatti, dal punto di vista della scienza dello spirito, sono sintomi (ricordate, ce ne siamo occupati anni fa, Lo studio dei sintomi storici?) (8), e che questi sono tanto più importanti quanto più rivelano o svelano ciò che agisce nel profondo.
E che cosa agisce nel profondo? La realtà degli impulsi che sgorgano dallo spirito e sfociano nelle anime umane.
Detto questo, domandiamoci: disponiamo oggi di una cultura che ci dia modo di scendere nel profondo, e di risalire così, come fanno i medici, dai sintomi alla malattia?
Purtroppo no. La cultura attuale, l’ho detto, è superficiale e vanesia.
Osservava già Nietzsche: “Noi siamo senza cultura, ancor più, noi siamo guastati rispetto alla vita, al giusto e semplice vedere e udire, al felice cogliere ciò che è prossimo e naturale, e finora non abbiamo ancora neanche il fondamento di una cultura, perché noi stessi non siamo convinti di avere in noi una vita verace” (9).
Con pazienza, umiltà e amore, ma anche con quella stessa ansia e con quello stesso dolore che prova, come abbiamo visto, Michele, dobbiamo quindi portare avanti la nostra battaglia, cominciando col realizzare, come dice ancora Nietzsche, “che la cultura può essere ancora qualcosa d’altro che decorazione della vita, cioè in fondo unicamente dissimulazione e velame, poiché ogni ornamento nasconde la cosa ornata” (10).
Questo, piaccia o meno, è l’impegno più urgente, e non è perciò il caso di sprecare altrimenti le nostre energie (né di sottoporre l’ego a un lifting proponendogli al posto di un nuovo e vivo pensare, una pletora di pensati “un sacco belli”).
Pensate a quanto è successo nel Novecento, e a quanto ancora succede, per il fatto che la cultura, essendosi inaridita, disseccata e involgarita, non ci fornisce mezzi atti ad accogliere, consapevolmente, nuove immaginazioni, ispirazioni e intuizioni.
Avrete senz’altro notato che tutto si va facendo sempre più piccolo e meschino o, in una parola, “minimalista” (diceva Karl Kraus: “Quando il sole della cultura è basso sull’orizzonte, anche i nani gettano lunghe ombre”).
Ricordate che cosa dissi di Arimane? Ch’è per l’appunto un “micromane”, un essere che rimpicciolisce l’anima, che la rende povera, meschina o egoistica (il termine sanscrito mahatma significa, di contro, “grande anima”, in un senso ben più elevato e profondo del nostro “magnanimo” o “longanime”).
E come fa a rimpicciolirla? E’ semplice: portandola a identificarsi col corpo (fisico), e quindi con uno spazio limitato o finito.
Una volta costretta l’anima, vasta per sua natura quanto il cosmo, nella camicia di forza del corpo, Arimane trasforma la sofferenza (cronica) che le deriva da tale prigionia in avversione, rabbia e odio.
Dice Steiner: “Sulla terra si svolge la “storia”. Ad essa non si sarebbe mai giunti se gli spazi dell’universo non fossero diventati costellazioni “stabili” e corsi “fissi” di stelle”.
Se questo non si fosse verificato, la storia dell’uomo sarebbe stata la storia del cosmo, la storia del cosmo sarebbe stata la storia dell’uomo, e sarebbe stato allora impossibile distinguere il cosmo, che, in quanto fissato, non ha più storia, dall’uomo, che crea invece la propria storia, per potersi riunire un giorno al cosmo, riportandolo in vita.
“Nel “divenire storico” sulla terra abbiamo un’immagine – ma assolutamente trasformata – di ciò che un tempo fu “storia celeste”.
I popoli più antichi conservavano ancora nella loro coscienza questa “storia celeste” e guardavano assai più a questa che alla “storia terrena”.
Nella “storia terrena” vivono intelligenza e volontà degli uomini, dapprima connesse con l’intelligenza e la volontà divine, poi indipendenti.
Nella “storia celeste” vivevano l’intelligenza e la volontà degli esseri divino-spirituali connessi con l’umanità.
Se si guarda indietro alla vita spirituale dei popoli, si trova che, in un remotissimo passato, esisteva negli uomini la coscienza di una comunanza di essere e di volere con le entità divino-spirituali; sicché la storia degli uomini è storia celeste. Quando l’uomo narrava delle “origini”, egli parlava di processi non terreni, ma cosmici. Anzi, anche per il suo presente, i fatti del mondo terreno che lo circondavano gli apparivano così poco importanti, in confronto ai processi cosmici, che egli teneva conto soltanto di questi e non di quelli.
Vi fu un tempo in cui l’umanità aveva una coscienza con la quale poteva contemplare la storia celeste in grandiose impressioni; in esse gli esseri divino-spirituali stessi stavano davanti all’anima dell’uomo. Essi parlavano; e l’uomo ne udiva il linguaggio in un’ispirazione di sogno; essi rivelavano le loro figure; e l’uomo le vedeva in un’immagine di sogno” (pp. 148-149).
Ascoltate quanto scrive Graziano Arrighetti nella sua introduzione alla Teogonia di Esiodo: “L’interesse della Teogonia nei confronti dell’uomo sembra assai scarso (…) come uno degli oggetti su cui si esercitano varie competenze divine compare anche l’uomo, considerato a seconda delle sue attività oppure a seconda degli atti che compie e dei differenti momenti della sua vita (…) l’uomo nella Teogonia è troppo assorbito nel mondo divino, e il suo esistere non è in genere sufficientemente autonomo da quello” (11).
Non è questa una testimonianza del fatto che “quando l’uomo narrava delle “origini”, egli parlava di processi non terreni, ma cosmici”?
Non dimentichiamo che tali processi li abbiamo sperimentati anche noi, giacché siamo stati sempre presenti (“Padre che fosti, che sei, e sarai nella nostra più intima essenza”): a prescindere dalle previe evoluzioni del corpo fisico, del corpo eterico e del corpo senziente, siamo stati presenti l’altro ieri, nel corso dell’evoluzione dell’anima senziente, lo siamo stati ieri, nel corso dell’evoluzione dell’anima razionale-affettiva, e lo siamo oggi, nel corso dell’evoluzione dell’anima cosciente.
Si potrebbe anche dire, volendo, che quella “celeste” è la storia del corpo fisico, del corpo eterico e del corpo senziente: cioè la storia dei corpi, e non ancora dell’anima.
Quando comincia infatti la storia dell’anima? Quando si passa dall’evoluzione del corpo senziente a quella dell’anima senziente, e quindi dalla storia “celeste” a quella “mitologica”.
E’ dunque con l’evoluzione dell’anima senziente che comincia l’evoluzione della coscienza: della coscienza appunto “senziente” o “mitologica”, che si differenzia a seconda dei popoli.
Una stessa entità spirituale (o una stessa pluralità di entità) può infatti presentarsi a un popolo in una forma e a un altro popolo in un’altra, poiché lo specchio (immaginativo) in cui si riflette non è il medesimo.
Dice Steiner: gli esseri divino-spirituali “parlavano; e l’uomo ne udiva il linguaggio in un’ispirazione di sogno; essi rivelavano le loro figure; e l’uomo le vedeva in un’immagine di sogno”.
Vedete: “in un’ispirazione di sogno” (astrale) che si traduceva “in un’immagine di sogno” (eterica), e per ciò stesso in un’immagine mitologica o mitica.
“Questa storia celeste, che per lunghe epoche riempì le anime umane, fu seguita dalla “storia mitica” che oggi è in genere ritenuta poesia antica. Essa collega eventi celesti con eventi terreni [giacché sta in mezzo, tra la storia “celeste” e quella “terrena”] . Vi compaiono per esempio degli “eroi”, degli esseri sovrumani. Sono esseri che nella loro evoluzione stanno al di sopra dell’uomo. Gli uomini, per esempio in una data epoca, hanno sviluppato le parti costitutive del loro essere soltanto fino all’anima senziente. L’”eroe” ha invece già sviluppato quello che un giorno apparirà nell’uomo come sé spirituale. L’”eroe” non può incarnarsi direttamente nelle condizioni terrestri; ma lo può immergendosi nel corpo di un uomo e rendendosi così atto a svolgere la sua attività come uomo fra gli uomini. Negli “iniziati” dei tempi antichi dobbiamo vedere esseri siffatti.
I fatti del divenire del mondo si svolgono dunque in modo che nelle diverse epoche l’umanità non si è “rappresentata” gli eventi in una data maniera, ma che realmente è avvenuta una trasformazione in ciò che si svolgeva tra il mondo spirituale che era “incalcolabile” ed il mondo corporeo “calcolabile”. Solo che, molto tempo dopo che le condizioni del mondo si erano già mutate, la coscienza umana dell’uno o dell’altro popolo si atteneva ancora ad una “concezione del mondo” corrispondente ad una realtà molto più antica. In un primo tempo questo si verifica in modo che la coscienza umana, la quale non va di pari passo con gli eventi cosmici, vede ancora realmente l’antico. Poi segue un’epoca in cui la veggenza impallidisce, e l’antico viene ancora conservato per tradizione” (pp. 149-150).
Ascoltate quanto dice Erodoto: “Furono gli Egiziani, essi dicevano, che usarono per primi i nomi caratteristici dei dodici dèi e da loro li appresero i Greci; i primi che assegnarono agli dèi altari, statue, templi; i primi che scolpirono figure d’animali nelle pietre; e per lo più, mi davano con i fatti la prova che così era avvenuto. Mi dicevano pure che il primo re d’Egitto, che fosse uomo, era stato Mina [Menes], e che ai suoi tempi tutto l’Egitto, eccetto la regione di Tebe, era una palude e nulla emergeva da quei territori che ora sono a valle del lago Meri, al quale si giunge dal mare, risalendo la corrente del fiume, con sette giorni di navigazione” (12).
Vedete, “il primo re d’Egitto, che fosse uomo, era stato Mina”, proprio perché prima di lui avevano regnato gli Dèi, i Semidèi e gli Eroi.
Spiega Ernst Uehli: “Risalendo nel passato, vediamo che il periodo storico dell’umanità va a perdersi in quello mitologico e viceversa, quest’ultimo sfocia nel primo. Primo compito dello storico è quello di determinare dove il periodo storico s’inizia. C’è però, naturalmente, un momento di transizione che contiene gli elementi e dell’uno e dell’altro periodo. Tale momento storico è il campo della leggenda. La leggenda scende molto addentro nel periodo storico. Il mito descrive soprattutto le condizioni del mondo fino ai primordi. La leggenda narra invece le grandi gesta compiute dagli eroi. Nel mito, al centro dell’azione, stanno il Dio e il Semidio; nella leggenda sta al centro l’Eroe (…) Poi, a misura che l’uomo diventa storico, scompaiono anche gli eroi, e in seno all’umanità divenuta storica sorge un tipo nuovo: l’uomo spiritualizzato il quale, come l’eroe chiudeva l’umanità verso il passato, la riapre verso l’avvenire” (13).
Dice Steiner: “molto tempo dopo che le condizioni del mondo si erano già mutate, la coscienza umana dell’uno o dell’altro popolo si atteneva ancora ad una “concezione del mondo” corrispondente ad una realtà molto più antica. In un primo tempo questo si verifica in modo che la coscienza umana, la quale non va di pari passo con gli eventi cosmici, vede ancora realmente l’antico. Poi segue un’epoca in cui la veggenza impallidisce, e l’antico viene ancora conservato per tradizione”.
Ecco come nasce la Tradizione: ossia quella sapienza (trasmessa prima oralmente e poi mediante la scrittura) che, avendo occhi solo per il passato, è cieca nei confronti del presente e del futuro.
Intendiamoci, la Tradizione va riscoperta e rivalutata, ma può davvero riscoprirla e rivalutarla solo chi disponga di quella forza viva dello spirito che la tradizione non veicola più (“Tradizione – ha detto Gustav Mahler – significa custodire il fuoco, non adorare le ceneri”).
Per poter riscoprire il valore spirituale del passato, bisogna dunque scoprire lo spirito del presente (che solo può illuminarlo). Non si tratta, ad esempio, di basarsi sull’autorità delle Sacre Scritture, ma di riscoprire, alla luce dello spirito che vive oggi in noi (del “sovrasensibile – dice Scaligero – come attività individuale rivolta al sensibile”), la loro profondità, la loro saggezza e la loro sacralità.
Ove ciò non avvenga, è inevitabile che la Tradizione si formalizzi e si irrigidisca, finendo così col diventare dogmatica e intollerante.
Pensate ad esempio al “modernismo”: cioè a dire, a quella corrente del Cattolicesimo, principalmente rappresentata (in Italia) da Ernesto Bonaiuti (1881-1946), che fu condannata prima dal Sant’Uffizio e poi da Pio X con l’enciclica Pascendi Dominici Gregis (1907).
(A Ernesto Buonaiuti, direttore della collezione “Vitai Lampas” delle Edizioni di Religio, si deve la pubblicazione, nel 1939, del ciclo di conferenze di Rudolf Steiner, intitolato: Antroposofia–Psicosofia–Pneumatosofia.)
Ascoltate, in proposito, quanto scrive Luigi Paggiaro: “Nient’altro, in fondo, ha voluto dichiarare in sugli inizi questo movimento, che si era detto cattolico, se non la urgenza di ravvivare la Chiesa e il suo insegnamento mettendolo a contatto con la scienza moderna allo scopo, cioè, che il Cristianesimo si risentisse capace, come lo era stato alle sue origini, di comprendere, di amare, e di salvare nuovamente il mondo. Il quale, bene o male, a ragione o a torto, senza una dichiarata intenzione, aveva camminato e si era, perciò, svolto, fuori dal binario religioso, indipendentemente dalla tradizione teologica e dalla dogmatica della Chiesa” (14).
Giovanni Semeria (1867-1931), altro noto modernista, sottolineava il fatto che la Chiesa, sempre tollerante riguardo ai peccati della carne, è stata di contro sempre intollerante riguardo a quelli (giudicati da essa) del pensiero.
Ci sono i tradizionalisti cattolici, ma ci sono anche quelli non cattolici. Julius Evola, ad esempio, è stato un tradizionalista “pagano”, vagheggiante la restaurazione del Sacro Romano Impero, mentre René Guenon ha sposato il Sufismo ed è diventato islamico.
Significativo, tuttavia, è che la libera ricerca spirituale (nel nome dello Spirito Santo) venga condannata sia dagli uni che dagli altri: i tradizionalisti cattolici la tacciano di “eresia”, in quanto, come usano dire, religione “fai da te”; i tradizionalisti esoterici la tacciano invece di “autoiniziazione”, in quanto iniziazione “fai da te”, e non quindi sancita e certificata da una qualche autorevole “Loggia”.
Sia i primi che i secondi non si rendono dunque conto, come osserva Scaligero, che l’intelletto con cui pensano la Tradizione non è tradizionale, bensì modernissimo, e ch’è solo muovendo da questo modernissimo pensare e risalendone il movimento che si può oggi ritrovare lo spirito vivente.