Massime antroposofiche
156/157/158 – 1°

M

Affronteremo stasera una nuova lettera, intitolata: Sonno e veglia alla luce delle considerazioni precedenti (8 febbraio 1925).
Due parole, prima di cominciare.
Nelle prime pagine de La missione di Michele (1) c’è la figura di un uomo che sta con la testa fuori dell’acqua e con il resto del corpo immerso.
Ognuno di noi, durante la veglia, sta con la testa fuori del mondo e con il restante organismo dentro il mondo, mentre, durante il sonno, sta interamente dentro il mondo.
Stando fuori del mondo, sperimentiamo coscientemente il suo apparire, il suo guscio o la sua superficie; stando all’interno del mondo, sperimentiamo inconsciamente il suo essere, la sua polpa o la sua profondità.
Per entrare nel sonno, dobbiamo infatti uscire da quel sistema neurosensoriale e in particolare da quella corteccia (cerebrale) che ci consentono di osservare e pensare, allo stato di veglia, la corteccia del mondo (similia similibus).
Come vedete, la testa, per guadagnare l’albero della coscienza, si è realmente separata dall’albero della vita.
Cominciamo adesso a leggere.

Nell’ambito delle considerazioni antroposofiche il sonno e la veglia furono spesso esaminati dai punti di vista più diversi. Ma occorre approfondire sempre di nuovo la comprensione di tali fatti della vita, dopo che si siano considerati altri lati del contenuto del mondo. Quello che abbiamo detto della terra come germe del nuovo sorgente macrocosmo, ci offre tale possibilità di approfondire la nostra comprensione riguardo al sonno e alla veglia.
Allo stato di veglia l’uomo vive nelle ombre di pensiero, che vengono proiettate da un mondo morto, e negli impulsi volitivi, nella cui natura interiore egli penetra con la sua coscienza solita altrettanto poco, quanto nei processi del sonno profondo senza sogni.
Nell’affluire di questi impulsi volitivi subcoscienti entro le ombre di pensiero, sorge l’autocoscienza liberamente operante. In tale autocoscienza vive l’“io”
” (p. 176).

Sappiamo che una cosa è la conoscenza (epistème), altra l’opinione (doxa). Ma da che cosa deriva l’opinione? Proprio dall’affluire degli “impulsi volitivi subcoscienti entro le ombre di pensiero”.
Utilizzando queste “ombre”, tali impulsi si razionalizzano (in senso psicodinamico) e tendono, in veste di opinione (che si spaccia per conoscenza) a imporsi.
E’ così che l’ego tende, per mezzo dei pensati che ha, e non del pensare che è, ad affermare o imporre se stesso.
Osserva tuttavia Hegel: “Seguire la propria convinzione val certo più che arrendersi all’autorità; ma invertendo la credenza fondata sull’autorità in quella fondata sulla propria convinzione, non ne viene necessariamente mutato il contenuto, né la verità subentra all’errore. Restare abbarbicato al sistema dell’opinione e del pregiudizio per autorità altrui o per convinzione propria, differisce soltanto per la vanità che si annida nella seconda maniera” (2).
La verità non subentra dunque all’errore per il solo fatto che ci si arrende, anziché all’autorità esterna, a quella della propria natura (psico-fisiologica).
Lo riprova il fatto che l’opinione è utilizzata (dallo psicologo) per capire, mediante i test, il soggetto (psichico), mentre la conoscenza è utilizzata (dallo scienziato della natura) per capire, mediante le percezioni sensibili, l’oggetto (fisico).

Domanda: Che differenza c’è tra il “volere nel pensare” che genera l’opinione e il “volere nel pensare” che genera la coscienza immaginativa?
Risposta: Che quello che genera l’opinione (soggettiva) è il volere incosciente e karmicamente determinato della natura o dell’ego (la cosiddetta “brama” ), mentre quello che genera la coscienza immaginativa (oggettiva) è il volere libero e cosciente dello spirito o dell’Io.
Il primo, muovendo dalla natura personale, virulenta le “ombre del pensiero”, agitando perciò dei fantasmi, mentre il secondo, muovendo dall’Io o dallo spirito, vivifica e anima le idee, perché reintegra le loro forme con le loro forze: con quelle di cui godevano, cioè, prima di ridursi a “ombre”.

Domanda: Potresti fare un esempio?
Risposta: Pensa agli “ideali”: quelli veri (ossia dell’Io) li si persegue a prezzo del proprio sacrificio; quelli finti (ossia dell’ego) li si persegue invece per vanità o per interesse personale (fisico o metafisico).
Dice Steiner: “Ogni idea che non diventa per te un ideale, uccide una forza della tua anima; ogni idea invece che diventa un ideale, crea in te forze vitali” (3).
Ricorda che il più alto ideale di un vero “spirito libero” è quello di mettere la propria libertà al servizio dello Spirito vivente o del Cristo.

Mentre in queste condizioni l’uomo sperimenta il mondo circostante, il suo sentire interiore è permeato da impulsi extraterreni cosmici, emergenti nel presente da un passato cosmico remotissimo. Egli non ne diventa cosciente. Un essere può diventare cosciente soltanto di quello cui partecipa con le proprie forze di morte, non con le forze di crescita che vivificano l’essere stesso” (p. 176).

Perché siamo tanto legati alla coscienza ordinaria e all’ego? E’ presto detto: perché, non appena abbandoniamo il loro solido terreno, perdiamo sia la coscienza che l’autocoscienza (“Alla coscienza – scrive Hegel – sembra come se, col toglierle il modo della rappresentazione, le sia tolto il terreno, che era suo fermo e abituale sostegno. Quando è trasportata nella pura regione dei concetti, non sa più in qual mondo si sia”) (4).
Il che non accade quando, anziché discendere dalla veglia al sogno, saliamo dalla coscienza rappresentativa a quella immaginativa.
Così facendo, infatti, non perdiamo la coscienza e l’autocoscienza (egoiche), ma guadagniamo una coscienza e un’autocoscienza più profonde: non legate, cioè (come le prime) solo allo spazio, ma anche al tempo.
Un conto è pensarsi solo come uno spazio (un corpo fisico) che vive nel tempo, altro pensarsi anche come un tempo (un corpo eterico) che vive nello spazio, e quindi come un essere (un Io) in divenire.
Afferma Hegel: “Tutto, si dice, nasce e muore nel tempo (…) Ma non è già nel tempo che tutto nasce e muore: il tempo stesso è questo divenire, nascere e morire” (5).
L’ego teme, però, questo divenire, giacché si sente sicuro quando sta con i piedi per terra, e non quando deve “camminare sulle acque”.
Questa superiore sicurezza ce la dobbiamo conquistare, sviluppando appunto la coscienza e l’autocoscienza immaginative.
E’ questa quella “prova dell’acqua” che precede, come indicato da Steiner, la “prova dell’aria” (correlata alla coscienza ispirata) e la “prova del fuoco” (correlata alla coscienza intuitiva).
(In realtà, la “prova del fuoco” viene presentata, ne L’iniziazione, come prima, e non come ultima. Questa, spiega Steiner, “consiste nell’acquisto di una percezione più vera, che non sia quella della media degli uomini, delle qualità corporee dei corpi inanimati, e poi delle piante, degli animali e dell’uomo. Con ciò non si allude a quella che oggi vien chiamata conoscenza scientifica, perché non si tratta di scienza, ma di percezione” [6]. Dal momento, però, che il percetto e il concetto sono, come abbiamo visto, una stessa cosa, la “prova del fuoco” si presenta come prima quando il contenuto intuito si dà quale percetto [quale concetto sconosciuto, frutto di una intuizione incosciente], mentre si presenta come ultima quando si dà quale concetto [quale percetto conosciuto, frutto di una intuizione cosciente].)

Così l’uomo sperimenta se stesso perché perde spiritualmente di vista ciò che sta alla base del suo essere interiore. Ma appunto grazie a questo egli è in grado, durante la veglia, di sentirsi completamente dentro alle ombre di pensiero. Nessuna vivificazione impedisce alla vita interiore di prender parte a ciò che è morto. Ma a questa “vita nella morte” l’essenzialità della terra nasconde di essere il germe di un nuovo universo. Allo stato di veglia l’uomo non vede la terra quale essa è, gli sfugge l’incipiente sua vita cosmica” (pp. 176-177).

Questa “vita nella morte”, o nella sfera arimanica, è una fase necessaria della nostra evoluzione: una fase che Arimane tende però a fissare, congelare o eternare, per impedirci così di superarla.

Così l’uomo vive in ciò che la terra gli dà come base per la sua autocoscienza. Nell’epoca dello svolgimento autocosciente dell’io, egli perde spiritualmente di vista la vera figura dei suoi impulsi interiori, come pure quella del suo mondo circostante. Ma appunto in questo librarsi al di sopra dell’essere del mondo, l’uomo sperimenta l’essere dell’io, si sperimenta come entità autocosciente. Sopra di lui il cosmo extraterreno, sotto di lui, nella sfera terrestre, un mondo la cui essenzialità rimane occulta; nel mezzo la manifestazione dell’“io” libero, la cui essenzialità irraggia nel pieno splendore della conoscenza e del libero volere” (p. 177).

“In questo librarsi al di sopra dell’essere del mondo, l’uomo sperimenta l’essere dell’io, si sperimenta come entità autocosciente”: si sperimenta cioè come ego, mentre sperimenta come non-ego “la vera figura dei suoi impulsi interiori, come pure quella del suo mondo circostante”.
Ascoltate quanto dice in proposito Hegel: “La filosofia kantiana riporta bensì l’essenzialità all’autocoscienza, ma a quest’essenza dell’autocoscienza, cioè a questa autocoscienza pura, non può procacciare ancora alcuna realtà, né scoprire in essa medesima l’essere” (7).
Kant ha infatti un presagio, al di là dell’ego, dell’Io “trascendentale”, ma tale Io (quale unità originaria delle categorie) è solo un Io penso (al pari dell’Io “assoluto” di Fichte), e non anche un Io voglio in grado di dar ragione, vuoi dell’essere dell’uomo (“della vera figura dei suoi impulsi interiori”), vuoi dell’essere del mondo (“circostante”).
Qual è dunque il compito? E’ ovvio: quello di riunire l’Io del pensare all’Io del volere, per riunire così la realtà di noi stessi alla realtà del mondo (ricordate la prima massima? “L’antroposofia è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo…”).
E come perseguire un tale obiettivo? Non pensando al solito modo cose nuove, bensì pensando in modo nuovo le solite cose.
“Oggi – afferma Steiner – l’umanità deve limitarsi a conoscere in modo nuovo, in modo conforme alla scienza dello spirito, prima di poter agire in modo conforme alla stessa scienza dello spirito” (8).
Dicono gli orientali che la bellezza è negli occhi di chi guarda; negli occhi di chi guarda, prima ancora della bellezza, c’è però la verità. Non sto parlando, ovviamente, dei sensi fisici, ma di quelli (spirituali) in grado di cogliere ciò che nel reale è vivo, qualitativo ed essenziale.
Dice Steiner: “Sopra di lui il cosmo extraterreno, sotto di lui, nella sfera terrestre, un mondo la cui essenzialità rimane occulta; nel mezzo la manifestazione dell’“io” libero, la cui essenzialità irraggia nel pieno splendore della conoscenza e del libero volere”.
L’individualità umana (è questo il titolo – ricordate? – di un capitolo de La filosofia della libertà) sta dunque in mezzo, tra una realtà superiore (il “cosmo extraterreno”) e una inferiore (la “sfera terrestre”), così come l’anima sta in mezzo, tra lo spirito e il corpo.
Abbiamo visto che, nella nostra esperienza ordinaria, conosciamo soltanto due cose: le rappresentazioni bidimensionali e le immagini percettive tridimensionali.
Ebbene, è in mezzo a queste due realtà, cioè tra quella del concetto, di per sé luciferica, e quella della percezione (sensibile), di per sé arimanica, che sta quell’Io “la cui essenzialità irraggia nel pieno splendore della conoscenza e del libero volere”.
Ma noi lo ignoriamo, così come ignoriamo, lo ripeto, tanto ciò che è alle spalle delle rappresentazioni, quanto ciò che è alle spalle delle immagini percettive.
Solo La filosofia della libertà ci permette di capire che la rappresentazione nasce dall’incontro tra il concetto e il percetto, e che l’oggetto è una realtà unitaria (una entelechia) che, nell’incontro con l’uomo, si divide in due, per darsi, alla attività percettiva, quale percetto e, alla attività pensante, quale concetto.
Ma che cosa succede? Succede che, ignorando di essere noi a separare queste due realtà, crediamo allora che sia il mondo a essere diviso in due (ad esempio, in una res extensa e in una res cogitans, in un fenomeno e in un noumeno o in un immanente e in un trascendente).
(Ho già fatto notare, una sera, che, nell’attività conoscitiva, l’uomo “mette di suo”, o di soggettivo, la separazione del pensare dal percepire, vale a dire del concetto oggettivo dal percetto oggettivo, mentre Kant è convinto che ci “metta di suo” il pensare, vale a dire la soggettiva rappresentazione.)
Il luogo dell’uomo non è dunque il luogo (incosciente) del concetto né quello (incosciente) del percetto, bensì il luogo (cosciente) della rappresentazione (tanto che potremmo dire: “Dimmi come ti rappresenti il mondo, e ti dirò chi sei”).
E’ importante realizzarlo, dal momento ch’è nello stesso centro (nello stesso Io) sul quale s’impernia l’ordinaria rappresentazione che siamo chiamati a imperniare anche l’immaginazione, l’ispirazione e l’intuizione.
Come l’ego, infatti, è il soggetto dell’autocoscienza rappresentativa, così il “Sé spirituale”, lo “Spirito vitale” e l’”Uomo spirituale”, sono i soggetti, rispettivamente, dell’autocoscienza immaginativa, dell’autocoscienza ispirata e dell’autocoscienza intuitiva.
Chiunque intenda davvero sviluppare la propria umanità deve pertanto cominciare con lo sviluppare il proprio pensiero, giacché è dallo sviluppo del pensiero che dipende quello della coscienza e dell’autocoscienza, ed è dallo sviluppo della coscienza e dell’autocoscienza (Mater Dei) che dipende quello dell’Io.

Diversamente avviene nello stato di sonno. Ivi l’uomo, nel suo corpo astrale e nel suo io, vive in seno alla vita germinante della terra. Quando l’uomo è immerso nel sonno senza sogni, nel suo mondo circostante agisce un’intensissima “volontà di entrare nella vita”. E i sogni sono compenetrati di questa vita, ma non così fortemente che l’uomo non possa sperimentarli in una specie di semicoscienza. In questo semicosciente guardare ai sogni, si vede la forza per opera della quale l’entità umana viene formata dal cosmo. Nei bagliori di luce del sogno diventa visibile come l’astrale fluisca nel corpo eterico a vivificare l’uomo. In tale baluginare di luce il pensiero vive ancora. Soltanto dopo il risveglio viene abbracciato da quelle forze che lo riducono a qualcosa di morto, a un’ombra” (p. 177).

Il sogno, in quanto residuo di uno stato di coscienza pre-cerebrale o pre-intellettuale, conserva i caratteri dell’immaginazione.
Ciò lo rende a tal punto diverso dal pensiero della veglia da farcelo sembrare illogico o assurdo.
Ma non è così, in quanto il sogno ha una sua logica, ch’è per l’appunto una logica immaginativa o simbolica che riflette (sul piano eterico) l’attività delle entità spirituali (agenti sul piano astrale).
Crediamo, in genere, che si lavori di giorno e si riposi di notte. In realtà, si lavora di giorno e di notte: con la differenza, però, che di giorno si lavora noi, mentre di notte si lavora in noi per rimediare al logorio prodotto dalla vita diurna.
Ho ricordato, poco fa, l’immagine dell’uomo che sta con la testa fuori dell’acqua e con il resto del corpo immerso. Questa immagine può aiutarci a capire che non appena varchiamo le colonne d’Ercole del polo cefalico (ch’è, per dirla alla buona, una sorta di “periscopio” con il quale l’Io reale osserva e pensa quanto lo circonda), entriamo in un mondo in cui sono presenti e attive le entità spirituali, e nel quale perdiamo per ciò stesso la coscienza ordinaria (che essendo vincolata al sensibile, non è alla loro altezza).
L’abbiamo detto: penetrare nel mondo spirituale non è difficile, giacché basta andare a dormire. Arduo, invece, è penetrarvi coscientemente.
A tal fine, non possiamo far altro che sviluppare i superiori gradi di coscienza: ossia dei gradi che, in quanto superiori (a quello – s’intende – dell’abituale coscienza di veglia), ci permettono di penetrare lucidamente in quelli inferiori (di sogno, di sonno e di morte) per illuminarli, trasformarli e redimerli.

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Di Lucio Russo
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