“È importante questo nesso fra rappresentazione di sogno e pensiero sveglio. L’uomo pensa nelle medesime forze mediante le quali egli cresce e vive. Ma affinché egli diventi pensatore, quelle forze devono morire” (p. 177).
Abbiamo detto, sere fa, che il neonato non pensa perché è impegnato a plasmare il proprio corpo, ma che, più tardi, una parte delle forze plasmatrici (eteriche) viene sottratta a tale compito per essere messa al servizio, in forma di pensiero, della coscienza e dell’autocoscienza.
Se tale parte rimanesse viva (cioè, biologica o fisiologica), non potremmo diventare coscienti. Prendete ad esempio l’acqua. Vi ci volete specchiare e rimirare? Bene, bisogna allora che sia ferma (di un mare calmissimo, non si dice appunto ch’è uno “specchio”?).
Perché il sistema neurosensoriale (in specie la corteccia) diventi altrettanto “fermo”, e faccia così da specchio, deve essere dunque abbandonato dalle forze eteriche (di vita).
Pensate alla morte. Sappiamo che differisce dal sonno perché, durante il sonno, il corpo eterico rimane legato al corpo fisico, mentre con la morte se ne separa.
Con l’avvento della morte, il corpo eterico si separa dunque dall’intero corpo fisico, mentre, con l’avvento della coscienza (intellettuale), si separa soltanto dagli organi deputati a rispecchiarlo o rifletterlo.
Ricordiamoci che lo spirito si presenta o come spirito o come natura.
Da questo punto di vista, potremmo paragonarlo a un attore. Avrete notato che fa un certo effetto incontrare un attore che si è visto, fino allora, soltanto sullo schermo. Perché fa effetto? Perché lo si è sempre visto rappresentato (cioè a due dimensioni) nei panni dei personaggi che ha interpretato, e mai quindi dal vivo o di persona.
Anche lo spirito, però, lo vediamo sempre nei panni della nostra natura, e mai dal vivo o di persona.
Lo vediamo infatti rivestito dei panni della sfera metabolica e degli arti (incosciente) e dei panni della sfera ritmica o mediana (subcosciente); lo vediamo invece svestito nella sfera cefalica (cosciente), ma non ancora dal vivo o di persona (bensì quale “natura morta”).
Non lo vediamo ancora dal vivo o di persona, perché lo vediamo, sì, a nudo, ma solo di riflesso: come si vede ad esempio un pittore nell’autoritratto (è questa – lo ricordo ancora – l’”identità riflessa” di cui parla Scaligero).
Potremmo perciò dire, volendo, che il nostro impegno conoscitivo consiste nel partire dall’autoritratto dello spirito (dal pensiero riflesso) per arrivare a conoscere e ad amare il suo autore: ossia lo spirito vivente (il pensiero vivente).
“Questo è il punto nel quale può sorgere una giusta comprensione del perché l’uomo, pensando, afferri la realtà. Nei suoi pensieri egli ha la morta immagine di ciò che lo forma dalla realtà vivente.
La morta immagine: ma tale morta immagine è il prodotto dell’attività del sommo pittore, del cosmo stesso. Dall’immagine è sì assente la vita. Se non ne fosse assente, l’io non potrebbe dispiegarsi. E nell’immagine sta tutto il contenuto dell’universo nella sua magnificenza” (p. 178).
Vedete: “Nei suoi pensieri egli ha la morta immagine di ciò che lo forma dalla realtà vivente”: vale a dire, ha il riflesso o “la morta immagine” dello spirito o del pensiero vivente (eterico).
Spero sia chiaro, a questo punto, il perché ho poc’anzi tessuto, per così dire, l’elogio della rappresentazione.
Patiamo i suoi limiti, ma li patiamo soltanto perché oggi ci viene richiesto di superare tale livello di coscienza. Parafrasando Aurobindo (che diceva, l’ho ricordato una sera: “L’ego fu un aiuto, l’ego è un ostacolo”), potremmo quindi dire: “La rappresentazione fu un aiuto, la rappresentazione è un ostacolo”.
Pensate, per dirne solo una, a Croce. Qual è il suo limite? Proprio quello di credere che l’ordinario pensiero riflesso sia lo spirito (9). In questo c’è del vero e c’è del falso: c’è del vero, giacché il riflesso dello spirito ritrae in effetti lo spirito, così come la foto, che so, di Totò ritrae in effetti Totò, ma c’è pure del falso, poiché appunto lo ritrae, e non ce lo presenta dal vivo o di persona.
E’ questa una delle più importanti differenze tra l’idealismo filosofico e la scienza dello spirito: il primo (a parte Hegel e soprattutto Gentile) vede di fatto lo spirito nel pensiero ordinario; la seconda lo vede invece attraverso o mediante il pensiero ordinario.
Non dobbiamo dunque identificare lo spirito con l’abituale rappresentare, bensì distinguere il pensiero vivente dal suo spento e abituale riflesso, sforzandoci di risalire (mediante l’esercizio interiore) dal secondo al primo.
Perdonatemi, se ricordo, per l’ennesima volta, il detto Zen: “La Luna riflessa nello stagno non è la Luna”.
Poche altre affermazioni sono in grado, come questa, di aiutarci a capire che nostro primo compito è realizzare (a differenza di quanto fanno le odierne neuroscienze) che la Luna riflessa non è la Luna, e che nostro secondo compito è risalire, muovendo dalla Luna riflessa, alla Luna reale.
“Già nella mia Filosofia della libertà avevo indicato questa relazione interiore tra pensare e realtà universale, per quel tanto che era allora possibile nel contesto di quell’opera. Precisamente nel punto in cui parlavo del ponte che dalle profondità dell’io pensante conduce alle profondità della realtà della natura” (p. 178).
Quali sono le “profondità dell’io pensante”? Quelle che stanno alle spalle della rappresentazione. E quali sono le profondità della “realtà universale”? Quelle che stanno alle spalle della percezione.
Ripeto: dal momento che la nostra coscienza ordinaria è limitata, da una parte, dalla rappresentazione e, dall’altra, dall’immagine percettiva, è solo penetrando grado a grado nelle profondità che stanno alle spalle dell’una e dell’altra che ci è possibile edificare il “ponte” che “dalle profondità dell’io pensante conduce alle profondità della realtà della natura”.
“Il sonno estingue la coscienza abituale, perché esso conduce nella vita germogliante e fiorente della terra, nel macrocosmo in via di divenire. Se questa estinzione viene superata dalla coscienza immaginativa, dinanzi all’anima umana non appare allora una terra delimitata in rigidi contorni nei regni minerale, vegetale e animale, ma piuttosto un processo vivente che si accende in seno alla terra e fiammeggia fuori nel macrocosmo” (p. 178).
Quali sono questi “rigidi contorni”? E’ facile: quelli spaziali e statici dell’ordinaria coscienza intellettuale o rappresentativa.
Pensate al tempo: usiamo dividerlo in passato, presente e futuro. Ma cos’è che così dividiamo? Che cos’hanno in comune tali scansioni? E’ ovvio: l’essere del tempo. Già, ma qual è quell’essere che si presenta in un caso come passato (Luna), in un altro come presente (Terra), e in un altro ancora come futuro (Sole)?
(Per gli egizi, ad esempio, era Iside. Nel suo tempio era scritto: “Io sono ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà; nessun mortale può sollevare il mio velo”. Si noti che “mortale” è l’ego, non l’Io.)
La coscienza rappresentativa non può rispondere a tali interrogativi, perché non si può capire una realtà che si muove (come il tempo) utilizzando un pensiero che o non si muove (come lo spazio) o si muove in modo discreto (come una macchina), e non perciò in sintonia col moto fluido e continuo del tempo e della vita.
Lo riprova il fatto che, quando si penetra nella sfera del sogno, la coscienza rappresentativa si spegne, mentre quella immaginativa si accende, poiché procede appunto in modo fluido e continuo come il tempo e la vita.
Sviluppare questo superiore livello di coscienza equivale dunque a scoprire un’altra dimensione del reale.
Pensate a un cieco nato che, grazie a un intervento chirurgico, prenda a vedere e paragonate il modo in cui sperimenta adesso la realtà al modo in cui la sperimentava prima dell’operazione.
“Avviene proprio che l’uomo, allo stato di veglia, deve sollevarsi dall’essere dell’universo, con l’essere del proprio io, per giungere alla libera autocoscienza. Nel sonno egli si ricongiunge poi all’esistenza universale.
Tale è nel presente momento cosmico il ritmo tra l’esistenza umana terrena al di fuori dell’“interiorità” dell’universo, con esperienza del proprio essere, e l’esistenza in seno all’“interiorità” dell’universo, con estinzione della coscienza del proprio essere” (p. 178).
Il “sollevarsi” dell’uomo, allo stato di veglia, “dall’essere dell’universo” può essere rappresentato, come abbiamo visto, dalla testa che emerge dall’acqua.
Anche la parte emersa di un iceberg può rappresentare la testa, così come la sua parte immersa può rappresentare il restante organismo.
Allo stato di veglia, viviamo nella parte emersa (“per giungere alla libera autocoscienza”), mentre, allo stato di sonno, viviamo nella parte immersa (nell’“esistenza universale”).
E’ l’Io reale, “nel presente momento cosmico”, a oscillare ritmicamente “tra l’esistenza umana terrena al di fuori dell’“interiorità” dell’universo, con esperienza del proprio essere” quale ego, e “l’esistenza in seno all’“interiorità” dell’universo, con estinzione della coscienza del proprio essere” quale non-ego.
“Nella condizione fra la morte e una nuova nascita l’io dell’uomo vive nella cerchia degli esseri del mondo spirituale. Ivi entra nella coscienza tutto ciò che se ne sottrae durante la vita terrena di veglia. Sorgono le forze macrocosmiche, dalla pienezza della loro vita in un passato remotissimo fino al loro morto essere presente. Ma sorgono anche le forze terrene che sono il germe del macrocosmo in via di divenire. E l’uomo guarda ai suoi stati di sonno, come durante la vita sulla terra guarda la terra risplendente nel sole.
Solo per il fatto che il macrocosmo, come è al presente, è diventato cosa morta, l’uomo può vivere un’esistenza fra la morte e una nuova nascita che, di fronte alla vita terrena di veglia, significa un risveglio superiore” (p. 179).
Vengono qui messi a confronto non più la veglia e il sonno, ma la vita fra nascita e morte e la vita fra morte e nuova nascita.
Dopo la morte, entriamo in un mondo di luce, di calore e di saggezza popolato da entità spirituali (nonché dai defunti).
Ebbene, il grado di coscienza che ne abbiamo dipende in toto dal grado di coscienza che sviluppiamo fra nascita e morte. Il che vuol dire che chi non abbia fatto nulla, fra nascita e morte, per sviluppare la propria coscienza, non vedrà nulla del mondo in cui entrerà dopo la morte. Non vedrà nulla perché ne rimarrà abbagliato.
Si tratta infatti di un mondo a tal punto splendente e luminoso che, se non ci si è preparati a osservarlo durante la vita terrena, può solo accecare.
E’ questa un’importante caratteristica della vita fra morte e nuova nascita: ciò che nell’”al di qua” non riusciamo a vedere, perché, per la coscienza ordinaria, è troppo oscuro (troppo incosciente), nell’”al di là” non riusciamo a vederlo, perché, per la coscienza ordinaria, è troppo luminoso (troppo cosciente).
“Un risveglio che rende l’uomo capace di signoreggiare appieno le forze che mostrano nel sogno fuggevoli bagliori di luce. Tali forze riempiono il cosmo intero. Compenetrano ogni cosa. Da esse l’uomo trae gli impulsi mediante i quali, nel discendere sulla terra, egli forma il suo corpo, la grande opera d’arte del macrocosmo.
Ciò che nel sogno albeggia, come abbandonato dal sole, vive nel mondo dello spirito compenetrato di sole spirituale, in attesa che le entità spirituali delle gerarchie superiori, oppure l’uomo, lo suscitino creativamente alla formazione di esseri” (p. 179).
Di fronte ad affermazioni di questa levatura, e a conclusione di tutto quanto abbiamo letto, mi sento solo di fare una piccola osservazione.
Da tutto ciò, dovrebbe almeno discendere la consapevolezza che non siamo solo testa. Lo dico, perché oggi impera, come sapete, il “cefalocentrismo”: ossia la convinzione che sia il cervello a pensare, sentire e volere, e che sia il cervello a vivere e morire (di “morte cerebrale”). Questa, piaccia o meno, non è però che una forma di fissazione o di monoideismo.
E’ quanto mai opportuno ricordare, perciò, che la testa è una parte dell’uomo, e non tutto l’uomo: una parte che, di per sé, non fa niente (non agisce), ma che ci permette di sapere quel che fa il restante organismo.
Per questo, uso dire: “Il pensiero sa, il volere fa”; oppure: “Il nervo sa, il sangue fa” (10).
Leggiamo adesso le massime.
156) “Nello stato di veglia, per vivere se stesso nella piena e libera autocoscienza, l’uomo deve rinunciare all’esperienza del vero aspetto della realtà nella sua esistenza personale e in quella della natura. Egli si solleva dal mare di questa realtà per fare del suo proprio io, nelle ombre del pensiero, un’esperienza veramente sua”.
Allo stato di veglia, siamo tagliati fuori dal “vero aspetto della realtà” (che non è solo materiale, ma anche vivente, qualitativa ed essenziale).
Osserva in proposito Steiner: “L’orgoglio, per non dire la superbia, della nostra epoca, è il credere di trovarsi solidamente inserita nella realtà. La gente è straordinariamente orgogliosa di questo suo solido inserimento nella realtà. Ma già con i pensieri il nostro tempo non sta affatto nella realtà; ce lo dimostrerà il futuro; il nostro tempo sta nella realtà dei pensieri molto, molto meno di un’epoca passata” (11).
157) “Nello stato di sonno l’uomo vive con la vita [cioè non l’osserva, non la pensa, non la studia, ma per l’appunto la vive] che attornia la terra; ma questa vita estingue la sua autocoscienza”.
158) “Nel sognare [ossia tra la veglia e il sonno] balugina alla semicoscienza [a ciò che sta tra la coscienza e l’incoscienza] il possente essere universale di cui è intessuta l’entità dell’uomo e di cui, nella discesa dal mondo dello spirito, egli forma il suo corpo. Nella vita terrestre questo possente essere universale è portato a morire entro l’uomo fin nelle ombre del pensiero, perché solo così può servire da fondamento all’uomo autocosciente”.
Note:
1) R.Steiner: La missione di Michele – Antroposofica, Milano 1981, p. 10;
2) G.W.F.Hegel: Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1996, p. 51;
3) R.Steiner: L’iniziazione – Antroposofica, Milano 1971, p. 25;
4) G.W.F.Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 7;
5) ibid., p. 234;
6) R.Steiner: L’iniziazione – Antroposofica, Milano 1971, p. 63;
7) G.W.F.Hegel: Lezioni sulla storia della filosofia – La Nuova Italia, Firenze 1981, vol. 3, II, p. 287;
8) R.Steiner: Impulsi evolutivi interiori dell’umanità. Goethe e la crisi del secolo diciannovesimo – Antroposofica, Milano 1976, p. 183;
9) cfr. Noterella 5 luglio 2002;
10) cfr. Nervi “sensori” e nervi “motori” , 18 settembre 2004;
11) R.Steiner: Impulsi evolutivi interiori dell’umanità. Goethe e la crisi del secolo diciannovesimo, p. 171.