Massime antroposofiche
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M

Questa ondata spirituale poteva destare nell’uomo l’intellettualità, ma non lo sperimentare più profondo mediante il quale l’anima si immerge nel mondo dello spirito” (p. 214).

Ho detto, poc’anzi, che l’arabismo islamizzato rappresenta un potenziamento e un congelamento dell’anima razionale-affettiva.
Potenziando l’ordinaria tensione tra il suo momento “razionale” e quello “affettivo”, congela la separazione del pensare dal volere. Il potenziamento del pensare esaspera il razionalismo astratto (la tendenza all’”arabesco”), mentre quello del volere esaspera, per un verso, il fideismo e, per l’altro (in modo più o meno sublimato), la sensualità (per Henry Corbin, scrive Jevolella, “Averroé e Ibn ‘Arabî rappresentano i due massimi punti d’arrivo, rispettivamente, della via razionalista e di quella mistica”) (12).
Sappiamo che il pensare e il volere sono chiamati invece a riavvicinarsi e a riunirsi. Ricordiamoci che il Logos “maiuscolo” è unità o sintesi di logos, pathos ed eros, mentre il logos “minuscolo” (l’algida ratio) non comprende il pathos né tantomeno l’eros.
Dice Giovanni: “La Luce, quella vera, che illumina ogni uomo, veniva nel mondo” (Gv 1,9). Perché sente il bisogno di dire: “quella vera”? Evidentemente perché ce n’è una falsa. E qual è quella falsa? E’ la fredda luce del razionalismo, dell’illuminismo e dell’intellettualismo: quella appunto del logos minuscolo o dell’ego.

Se dunque dal secolo quindicesimo al diciannovesimo l’uomo metteva in attività la sua facoltà conoscitiva, egli poteva immergersi nelle profondità animiche solo fino ad un livello al quale ancora non incontrava il mondo spirituale.
L’arabismo, che andava penetrando nella vita culturale europea, trattenne dal mondo dello spirito le anime che cercavano la conoscenza. Esso promosse innanzi tempo l’attività dell’intelletto che era solo capace di comprendere la natura esteriore.
L’arabismo si palesò molto potente. Chi ne era afferrato, veniva dominato nell’anima da un orgoglio interiore, in gran parte del tutto incosciente. Sentiva la potenza dell’intellettualismo; ma non sentiva l’impotenza del mero intelletto a penetrare nella realtà
” (p. 214).

Abbiamo detto che la seduzione operata dalla prospettiva di un immenso sapere fa dimenticare che il problema non è costituito dalla maggiore o minore ampiezza del sapere, bensì dallo spirito che lo anima e, in specie, dal tipo di rapporto in cui l’Io umano sta con tale spirito.
E di che cosa ci parla qui Steiner? Di un “orgoglio interiore, in gran parte del tutto incosciente”, che viene per l’appunto tentato dalla “potenza dell’intellettualismo” (da quella di un immenso sapere) senza minimamente avvertire “l’impotenza del mero intelletto [quella del piccolo Io] a penetrare nella realtà”.
Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che dobbiamo imparare a riconoscere (anzitutto in noi stessi) l’orgoglio, la vanità o il narcisismo, giacché dove abitano questi sentimenti non abita la verità, e dove abita la verità non abitano questi sentimenti.
Rileggiamo: “L’arabismo si palesò molto potente. Chi ne era afferrato, veniva dominato nell’anima da un orgoglio interiore, in gran parte del tutto incosciente. Sentiva la potenza dell’intellettualismo; ma non sentiva l’impotenza del mero intelletto a penetrare nella realtà”.
Ho detto, una sera (lettera 22 marzo 1925), che chi ritenesse eccessivo parlare dell’intellettualismo come di una “perversione” dell’intelletto, farebbe bene a leggere un breve saggio di Franz von Baader, intitolato: Sull’analogia dell’istinto di conoscere e dell’istinto di generare.
Non vi è infatti un’analogia tra “l’impotenza del mero intelletto a penetrare nella realtà” e la cosiddetta “impotentia coeundi et generandi”?
Rileggete, di Steiner, il capitolo della Cronaca dell’Akasha (13) in cui si parla della “separazione dei sessi”, e troverete confermata la tesi di von Baader.
Sul piano spirituale, l’impotentia coeundi et generandi è l’incapacità di “penetrare la realtà” per raggiungere l’essenza dei fenomeni e di unirsi ai noumeni, così da ri-generare tanto se stessi che la realtà (diceva Goethe: “Soltanto ciò ch’è fecondo è vero”). Tale impotentia significa sterilità: la stessa sterilità che caratterizza l’autoerotismo.
E’ questo, di fatto, il carattere di quasi tutta la nostra odierna cultura: ossia di un pensiero che, partendo, più o meno consapevolmente, dal presupposto che la “realtà in sé” è inconoscibile, gira e rigira oziosamente e sterilmente intorno alle cose e ai problemi, pascendosi e compiacendosi di se stesso.
Sappiamo che l’intelletto, in quanto deputato a conoscere il corpo (l’aspetto sensibile) della realtà, non può penetrarne l’essenza.
E’ giusto, dunque, partire dalla conoscenza del corpo della realtà (come fa la scienza naturale), non però arrestarsi a questo livello. E’ quando ci si ferma qui, infatti, che tutto quanto va al di là del corpo fisico diventa “materia di fede” (negativa, nel caso dell’ateismo), e non di conoscenza (“La fede in Dio – afferma Margherita Hack – è insondabile e inspiegabile, ma non sufficiente per dimostrarne l’esistenza. Ma se gl’è un atto di fede affermare che Dio esiste, gl’è un atto di fede anche dire i’ contrario”) (14).

Si abbandonava quindi alla realtà esteriore che cade sotto i sensi, che sta dinanzi all’uomo di per sé stessa, ma non si sognava di accostarsi alla realtà spirituale.
Tale fu la situazione che trovò dinanzi a sé la vita culturale del medioevo. Essa possedeva le potenti tradizioni del mondo spirituale; ma la sua vita animica era intellettualisticamente così impregnata dall’azione, direi quasi occulta, dell’arabismo, che la conoscenza non trovava accesso alle sorgenti dalle quali, in ultima analisi, era pur scaturito il contenuto di quelle tradizioni.
Fin dall’alto medioevo si combattè dunque una lotta fra ciò che l’uomo sentiva istintivamente quale connessione spirituale, e la forma che il pensare aveva assunto attraverso l’arabismo.
L’uomo sentiva in sé il mondo delle idee. Lo sperimentava come qualcosa di reale. Ma non trovava nell’anima la forza di sperimentare lo spirito nelle idee. Nacque così il r e a l i s m o, che nelle idee ben sentiva la realtà, ma che tale realtà non sapeva trovare. Il realismo udiva nel mondo delle idee il favellare della parola universale, ma non riusciva a capirla
” (pp. 214-215).

Scrivono Reale e Antiseri: “Fu nel secolo XI che l’Occidente venne a contatto con la cultura orientale. A quei tempi l’Islam era il depositario della scienza e del sapere che erano stati prodotti nell’antichità (…) Ma la cultura araba che penetrò nell’Occidente era per lo più cultura greca tradotta in arabo e fu così, pertanto, che attraverso gli Arabi, l’Occidente poté riappropriarsi delle teorie filosofiche e scientifiche del mondo greco” (15).
Tale mediazione, soprattutto per quanto riguarda Aristotele, non è stata però priva di conseguenze.
“La dialettica di Aristotele – osserva infatti Scaligero – fu usata (da Avicenna e da Averroè) come forma di un contenuto appartenente all’anima islamica. Un’antica visione del Divino fece sua la logica di Aristotele: la quale, come primo strumento di una nuova consapevolezza del mondo, avrebbe dovuto recare nell’attività razionale la virtù del Logos, quale forza radicale dell’Autocoscienza. Questo moto subì la sua paralisi in Europa, ad opera dell’Arabismo (islamizzato), che negava all’intelletto individuale capacità sovrasensibile” (16).
Che cosa vuol dire negare “all’intelletto individuale capacità sovrasensibile”? Vuol dire negare all’Io la capacità di pensare non solo l’essenza delle cose, ma anche, se non soprattutto, l’essere di tutte le essenze, cioè Dio.
Nell’Islam, afferma appunto Gianni Baget-Bozzo, Dio può essere obbedito, ma non pensato (“Non esiste una teologia musulmana che sia l’analogo musulmano della teologia cristiana […] Non esiste nel mondo musulmano quello che nel mondo cristiano è l’idea di Dio. Esistono solo gli attributi dell’azione divina. Dio in sé non è pensabile…”) (17).
Ebbene, non è significativo (chi ha orecchie per intendere, intenda) che come non è pensabile, per l’Islam, “Dio in sé”, così non è pensabile, per Kant, la “cosa in sé”? E non è significativo che la scienza contemporanea abbia fatto proprio l’insegnamento di Kant? Dice ad esempio Boncinelli: “Tra i miei progetti editoriali c’è un libro che vorrei intitolare: Kant che ti passa. O, per esteso: Se ti viene un dubbio metafisico, Kant che ti passa (…) Che cosa vorrei scrivere? Che Kant era un biologo eccezionale. Ha risolto nel settecento due problemi fondamentali, il problema della conoscenza, da un lato, e il problema della morale, dall’altro. La biologia moderna ha rivendicato totalmente queste conquiste di Kant” (18); e Piergiorgio Odifreddi così gli fa eco: “Noi moderni possiamo guardare all’antichità con occhi differenti dagli antichi. Siamo moderni anche perché abbiamo letto la Critica della ragion pura di Kant, e sappiamo che nasciamo con degli “a priori”, mediante i quali percepiamo il mondo esterno” (19).
(Dice in proposito Steiner: “All’ingresso della nuova fase di decadenza, che significa il precipitare di tutta la vita spirituale, all’ingresso di questa fase sta Kant. Nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura egli dice esplicitamente: “Io dovetti respingere entro i suoi limiti l’aspirazione alla verità, per ottenere il campo libero per ciò che vuole la religione pratica”. Da qui la separazione netta fra ragione pratica e ragione teorica; nella ragione pratica i postulati di Dio, libertà, immortalità, puramente ordinati al bene; nella ragione teorica la distruzione di ogni possibilità di conoscenza per penetrare in un qualsivoglia mondo spirituale. Tale è la situazione storica e certo, sulle orme di Kant, camminerà ancora per molto tempo [come abbiamo appunto visto] l’aspirazione alla saggezza del nostro tempo” [20]. Attenzione: nella citazione di Kant, dove si legge “religione pratica” si dovrebbe probabilmente leggere “ragione pratica”. Queste, comunque, sono le parole di Kant: “Io dunque ho dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la fede” [21].)
Come meravigliarsi, dunque, che dall’idea di un “in sé” impensabile sia derivato il nominalismo su cui si sorregge il materialismo: ossia la convinzione che l’“in sé”, cioè il concetto o l’idea, non abbia alcuna sostanza o realtà?
Ricordate che cosa dissi quando studiammo La filosofia della libertà? Dissi che l’Io si determina riversando la propria forza (volitiva) nella forma (pensante) dell’idea.
Lo dissi avendo presente che Steiner chiama le idee “recipienti d’amore”. L’amore che il Logos versa nell’Io, l’Io lo riversa infatti nelle idee, colmandole così di questo contenuto.
Quand’è, dunque, che si diventa nominalisti? Quando si è capaci di cogliere la forma delle idee, ma non il loro contenuto: vale a dire, l’essere dell’Io, del Logos o dell’amore. E quand’è che si è incapaci di cogliere tale contenuto? Quando non si è stati previamente capaci di cogliere la forza dell’amore nel pensare: in quel pensare che, come dice Scaligero, è “il punto di presa dell’Io nella coscienza” (22).
Ricordate? “Nessun’altra attività animica dell’uomo è così facile a misconoscersi quanto il pensare. Il volere, il sentire, continuano a riscaldare l’anima umana anche in seguito, nel rivivere lo stato d’animo originale. Troppo facilmente, invece, il pensare, nella rievocazione, lascia freddi; esso sembra inaridire la vita dell’anima. Ma questo è proprio soltanto l’ombra fortemente attiva della sua realtà intessuta di luce e immergentesi con calore nelle manifestazioni del mondo. Questo immergersi avviene con una forza fluente entro la stessa attività pensante, la quale è forza d’amore di natura spirituale” (23).

Il n o m i n a l i s m o che gli si oppose, non potendo capire quella parola, ne negò addirittura l’esistenza. Per il nominalismo il mondo delle idee era soltanto una somma di formule nell’anima umana, senza radici in una realtà spirituale.
Ciò che esisteva in queste correnti continuò a vivere fin nel secolo diciannovesimo. Il nominalismo diventò il modo di pensare della conoscenza naturale
” (p. 215).

Torniamo, per un attimo, a Kant. Per quale ragione non si è accorto che la “cosa in sé” è un concetto, e non una cosa? Perché ha patito, al pari di tutti noi, l’incapacità della coscienza ordinaria di cogliere la realtà nel concetto e il concetto nella realtà, il percetto nel concetto e il concetto nel percetto o, se si vuole, l’oggetto nel soggetto e il soggetto nell’oggetto.
Ha realizzato, è vero, che oltre la realtà fenomenica deve essercene una noumenica, ma questa l’ha poi immaginata “al di là” della rappresentazione, quale “cosa in sé”, e non (come avrebbe dovuto), e “al di là” (quale percetto), e “al di qua” (quale concetto) sia della rappresentazione che dell’immagine percettiva.
(Scrive Vladimir Solov’ev: “Affermando (…) la cosa in sé, come una realtà che esiste e che agisce su di noi, Kant le attribuisce la categoria qualitativa dell’esistenza (realtà) e la categoria relazionale dell’azione causale; invece, secondo Kant, tutte le categorie, e quindi anche le due che abbiamo appena menzionato, non sono altro che forme soggettive della nostra conoscenza e possono essere legittimamente applicate solo al mondo dei fenomeni, al mondo della nostra esperienza, mentre non possono essere assolutamente applicate alla cosa in sé, in quanto cosa che sta fuori della nostra esperienza e alla quale dunque non si può assolutamente attribuire né un’azione su di noi né, in genere, un’esistenza, ciò significa che deve essere semplicemente considerata come non esistente” [24]. E’ questa la ragione per la quale Steiner afferma, ne La filosofia della libertà, che Kant ha innalzato l’edificio dell’idealismo critico sulle stesse fondamenta del realismo ingenuo che intendeva confutare: è questo infatti a credere che le cose esistano e agiscano su di noi, indipendentemente da noi [25].)

Essa costruì un grandioso sistema di concezioni del mondo che cade sotto i sensi, ma distrusse la comprensione dell’essenza del mondo delle idee. Il realismo visse un’esistenza morta. Esso sapeva della realtà del mondo delle idee, ma non poteva raggiungerla nella conoscenza vivente” (p. 215).

Un sonetto del Belli è intitolato: Antro è pparlà dde morte, antro è mmorì (26). Allo stesso modo, “antro” è teorizzare in modo metafisico e in virtù dell’anima razionale-affettiva la realtà del mondo delle idee, “antro” sperimentarla in modo scientifico e in virtù di un anima cosciente passata dalla sua prima fase di sviluppo alla seconda.
Una vera conoscenza di tale realtà può essere solo frutto di un pensare che sia al tempo stesso un percepire e di un percepire che sia al tempo stesso un pensare.

Quella realtà verrà raggiunta se l’antroposofia troverà la strada che conduce dalle idee allo sperimentare lo spirito nelle idee”.

Sperimentare lo spirito nelle idee significa sperimentare le idee quali essenze, entità o, per l’appunto, spiriti: non quali “oggetti”, cioè, ma quali “soggetti” deputati a servire, e non ad asservire, l’Io. Le idee che normalmente abbiamo somigliano invece a un agrume spremuto, del quale non è rimasta che la scorza.

Nel realismo veracemente proseguito deve sorgere una via della conoscenza che si accompagnerà al nominalismo scientifico, e dimostrerà che nell’umanità la conoscenza dello spirito non è estinta, ma in una nuova ascesa può rientrare nell’evoluzione dell’umanità, partendo da sorgenti dell’anima umana nuovamente dischiuse”.

Proseguire veracemente il realismo vuol dire superare il realismo filosofico (quello della Scolastica o del Tomismo), trasformando il realismo ingenuo delle cose, proprio della scienza materialistica, nel realismo critico delle idee, proprio della scienza spirituale.
Passiamo adesso alle massime. Prima di leggerle, però, ricordiamo che questa lettera è del 29 marzo 1925, e che Steiner ha lasciato la Terra il 30 marzo 1925, cioè il giorno dopo.

177) “A chi guardi con l’anima all’evoluzione dell’umanità nell’epoca delle scienze, si offre innanzitutto una triste prospettiva. Diventa splendida la conoscenza che l’uomo acquista di tutto ciò che è mondo esterno. Per contro si fa strada una forma di coscienza per cui sembra che non sia più assolutamente possibile una conoscenza del mondo dello spirito”.

178) “Sembra che una tale conoscenza sia stata posseduta dagli uomini soltanto in tempi antichi e che, rispetto al mondo spirituale, ci si debba accontentare di accogliere le antiche tradizioni e di farne oggetto di fede”.

179) “Dall’incertezza che tutto ciò genera nel medioevo di fronte alla relazione dell’uomo verso il mondo dello spirito, deriva l’incredulità per il contenuto spirituale delle idee, cioè il n o m i n a l i s m o, la cui propaggine è la moderna concezione della natura, e nasce, come sapere inerente alla realtà delle idee, un r e a l i s m o che solo è in grado di arrivare al suo compimento, attraverso l’antroposofia”.

Ancora due parole. Sappiamo che Steiner, ne La filosofia della libertà, prende le mosse dal pensare, e non dai concetti, giacché è mediante il primo che vengono alla luce i secondi.
Il pensare è dunque il veicolo mediante il quale i concetti varcano la soglia (che sta tra il corpo astrale e quello eterico) e arrivano, in virtù della mediazione del tempo (dell’eterico), nello spazio (nel fisico).
La loro realtà si trova pertanto al di là della soglia, e quindi al di là del tempo e dello spazio.
Ogni tanto faremmo bene quindi a domandarci: a che cos’è che diamo il nome di “concetto”? Come, dicendo “sedia” o “tavolo”, diamo infatti il nome a un concetto (massima 65), così, dicendo “concetto”, diamo il nome a un’entità reale che si è chiamati a sperimentare, ma ch’è impossibile sperimentare, se non si è già sperimentata la realtà viva del pensare.

Note:

1) S.Toulmin: Cosmopolis – Rizzoli, Milano 1991, p. 18;
2) cfr. M.Scaligero: Il Logos e i nuovi misteri – Teseo, Roma 1973;
3) cfr. Noterella 7 ottobre 2008;
4) cfr. A.Guerriero: Quaesivi et non inveni – Mondadori, Milano 1973;
5) cfr. M.Jevolella: Le radici islamiche dell’Europa – Boroli, Milano 2005;
6) R.Steiner: La storia alla luce dell’antroposofia – Antroposofica, Milano 1982, p. 84;
7) H.Corbin: Storia della filosofia islamica – Adelphi, Milano 1989, p. 14;
8) cfr. I retroscena del 666, 22 maggio 2002;
9) J.Ellul: Islam e Cristianesimo – Lindau, Torino 2006, p. 111;
10) ibid., p.15;
11) M.Scaligero: Lotta di classe e karma – Perseo, Roma 1970, pp. 58-59;
12) M.Jevolella: Le radici islamiche dell’Europa, p. 46;
13) cfr. R.Steiner: Cronaca dell’Akasha – Bocca, Milano-Roma 1953;
14) M.Hack con M.Morelli: Siamo fatti di stelle – Einaudi, Torino 2013, pp. 102-103;
15) G.Reale-D.Antiseri: Il pensiero occidentale dalle origini a oggi – La Scuola, Brescia 1985, vol. I, p. 413;
16) M.Scaligero: Lotta di classe e karma, p. 55;
17) G.Baget-Bozzo: Di fronte all’Islam – Marietti, Genova 2001, pp. 39-40; vedi pure: Di fronte all’Islam, 12 maggio 2002;
18) cfr. Il cervello, la mente e l’anima, 12 dicembre 2001;
19) P.Odifreddi: Pitagora, Euclide e la nascita del pensiero scientifico – La Biblioteca Di Repubblica, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2012, pp. 12-13;
20) R.Steiner: Storia occulta – Antroposofica, Milano 1972, p. 101;
21) I.Kant: Critica della ragion pura – Laterza, Bari 1966, p. 28;
22) M.Scaligero: Lotta di classe e karma, p. 28;
23) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p. 120;
24) V.Solov’ev: La crisi della filosofia occidentale – “La Casa di Matriona”, Milano 1986, p. 80;
25) cfr. il 12° incontro del corso di studio su La filosofia della libertà presente nel nostro “Osservatorio”;
26) G.G.Belli: I sonetti – Mondadori, Milano 1952, vol. II, p. 1382.

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Di Lucio Russo
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