Cominciamo subito a leggere questa penultima lettera, intitolata: I sommovimenti storici al sorgere dell’anima cosciente (5 aprile 1925).
“Il tramonto dell’impero romano, in connessione con l’apparire di popoli provenienti dall’oriente – la cosiddetta migrazione dei popoli – è un fenomeno storico al quale deve pur sempre di nuovo rivolgersi lo sguardo di chi studia, poiché il presente contiene ancora numerosi effetti di quegli avvenimenti perturbatori.
Ma la comprensione appunto di quegli avvenimenti non è possibile da parte di uno studio storico esteriore. Occorre guardare alle anime degli uomini implicati nelle migrazioni dei popoli e nel declinare dell’impero romano” (p. 217).
Ho detto, una sera (massima 93), che gli odierni “esperti” collezionano pensieri così come altri collezionano francobolli o figurine.
Ebbene, se gli “esperti” fanno collezione di pensieri, gli storici fanno invece collezione di fatti: li mettono in ordine cronologico e considerano quelli precedenti “causa”, più o meno diretta, di quelli successivi.
Una storia che creda di poter spiegare i fatti mediante altri fatti non può però dar ragione né degli uni né degli altri (“La gente scrive opere storiche e vi narra ogni sorta di cose, ma le forze reali, le forze attive non vi sono contenute”) (1).
Scrive Nietzsche: “Solo in quanto la storia serve la vita, vogliamo servire la storia: ma c’è un modo di coltivare la storia e una valutazione di essa, in cui la vita intristisce e degenera” (2); e aggiunge, alludendo al modo ”antiquario” di coltivarla: “Si osserva il ripugnante spettacolo di una cieca furia collezionistica, di una raccolta incessante di tutto ciò che una volta è esistito” (3).
Ciò accade perché non si guarda (da materialisti) all’anima e non si può perciò risalire dal fatto all’idea del fatto: cioè a dire, dal volere che ha attuato l’idea al sentire che l’ha sentita e al pensare che l’ha intuita.
Ci si attiene dunque ai fatti, ignorando (da realisti ingenui) che il pensare pensa pensieri e non fatti, e che se questi non venissero risolti in pensieri mai si potrebbero scoprire le loro relazioni.
Dice Steiner: “Il presente contiene ancora numerosi effetti di quegli avvenimenti perturbatori” (delle cosiddette “invasioni barbariche” [166-476 d.C.] e della caduta dell’Impero romano d’Occidente [476 d.C.]).
La capacità di riconoscerli bisogna però guadagnarsela, poiché tali “effetti” sono per lo più presenti e attivi nel profondo dell’anima: ossia nel subconscio o nell’inconscio.
“Il mondo greco e il romano fioriscono nell’epoca in cui si sviluppa nell’umanità l’anima razionale o affettiva. I Greci e i Romani sono anzi i veri e propri portatori di tale sviluppo. Ma presso quei popoli lo svolgimento di questa tappa dell’anima non porta in sé un germe capace di evolvere da se stesso l’anima cosciente nel modo giusto. Tutto il contenuto di spirito e di anima che è racchiuso nell’anima razionale o affettiva si palesa in una gran ricchezza di vita nell’esistenza del mondo greco e del romano. Ma non può fluire con forza propria al di là, nell’anima cosciente.
Ciò malgrado sorge naturalmente lo stadio dell’anima cosciente. Ma è come se l’anima cosciente non fosse qualcosa di direttamente generato dalla personalità dei Greci e dei Romani, ma di innestato in loro dal di fuori” (p. 217).
Come una pianta, dopo aver dato i suoi frutti, appassisce, così l’anima razionale-affettiva greco-romana, dopo aver dato il suo frutto più maturo (nella quarta epoca postatlantica), declina.
L’anima cosciente non si presenta quindi ai Greci e ai Romani come una metamorfosi ascendente dell’anima razionale-affettiva, ma come un quid che giunge dall’esterno e le si sovrappone.
Pensate, per fare un solo esempio, ai concetti di “immanenza” e di “trascendenza”. Un’anima razionale-affettiva che avesse sviluppato sua sponte l’anima cosciente, l’avrebbe sperimentata o sentita come “immanente” (come un qualcosa che sorge dall’interno), mentre un’anima razionale-affettiva che vede calare su di sé l’anima cosciente, la sperimenta o sente come “trascendente” (come un qualcosa che proviene dall’esterno).
Può sembrare una sfumatura, ma stiamo guardando all’anima e qui le sfumature sono importanti, se non essenziali.
“L’unione e il distacco con le entità divino-spirituali, di cui abbiamo così spesso parlato nelle nostre considerazioni, si compie con intensità varia nel corso dei tempi. Nei tempi antichi era una potenza che si ingeriva con grandezza nella evoluzione dell’umanità. Diventa poi una potenza più debole nella vita greca e in quella romana dei primi secoli cristiani. Tuttavia esiste. Fino a tanto che il Greco e il Romano svolgevano in sé in tutta la pienezza l’anima razionale o affettiva, essi sentivano – inconsciamente ma con efficacia per l’anima – un distaccarsi dalla sostanzialità divino-spirituale, un divenire indipendente dell’elemento umano” (pp. 217-218).
Abbiamo già seguito, passo dopo passo, questo processo. Volendo tracciarne uno schema riassuntivo, potremmo disegnare una parabola con il vertice in basso, e porre in alto, a sinistra, il mondo spirituale, in basso, al vertice, il mondo terreno, e in alto, a destra, il mondo spirituale. Vedremmo così illustrato il processo in virtù del quale si scende dal mondo spirituale a quello terreno (al “punto zero”), e poi si risale dal mondo terreno a quello spirituale.
La prima fase di questo movimento, quella che porta dal mondo spirituale al mondo terreno, rappresenta tanto un’involuzione che un’evoluzione: un’involuzione, in quanto raffigura il progressivo distacco dell’uomo dal mondo spirituale; un’evoluzione, in quanto raffigura il progressivo affermarsi, nell’uomo, dell’autonomia e dell’autocoscienza.
Dice appunto Steiner: “Fino a tanto che il Greco e il Romano svolgevano in sé in tutta la pienezza l’anima razionale o affettiva, essi sentivano – inconsciamente ma con efficacia per l’anima – un distaccarsi dalla sostanzialità divino-spirituale, un divenire indipendente dell’elemento umano”.
(Sarà bene aggiungere che dal detto “punto zero” si dipartono, sia la via che risale dal mondo terreno a quello spirituale, sia quella che, proseguendo nella discesa, porta, per dirla con il titolo della prossima lettera, “dalla natura alla subnatura”.)
“Questo cessò nei primi secoli cristiani. Il primo albeggiare dell’anima cosciente fu sentito come un collegamento col divino-spirituale. Fu di nuovo uno sviluppo a ritroso, da una maggiore ad una minore indipendenza dell’anima. Non si poteva accogliere il contenuto cristiano nell’anima cosciente dell’uomo, perché non si era capaci di accogliere quest’anima stessa nell’entità umana.
Si sentiva così il contenuto cristiano come qualcosa dato dal di fuori, dal mondo spirituale esterno, ma non come qualcosa con cui si crescesse, assieme alle proprie forze conoscitive” (p. 218).
Notate il paradosso. Proprio nel momento in cui sta per recidersi, a causa del “primo albeggiare dell’anima cosciente”, il collegamento col divino-spirituale, l’uomo prende a sentirlo.
Ma come prende a sentirlo? Come soltanto lo si può sentire quando, non avendo generato per forza propria l’anima cosciente, si accoglie il “contenuto cristiano” come “qualcosa dato dal di fuori” (come “rivelazione”).
In altre parole, il modo in cui sarebbe stato sentito e accolto il “contenuto cristiano”, se si fosse sviluppata dall’interno l’anima cosciente, viene sostituito dal modo in cui lo si sente e accoglie quando, al posto dell’autorità (interiore) dell’Io, subentra quella (esteriore) di un’istituzione, cioè della Chiesa.
Pensate allo Spirito Santo (4). Mi sembra di aver già detto che possiamo mettere in rapporto il Padre con l’anima senziente, il Figlio con l’anima razionale-affettiva e lo Spirito Santo con l’anima cosciente (“Lo Spirito Santo altro non è che colui grazie al quale anche si comprende che cosa in sostanza il Cristo abbia compiuto. Cristo non ha voluto soltanto agire; ha voluto anche essere conosciuto, ha voluto anche essere compreso. Perciò fa parte della realtà cristiana che agli uomini venga inviato lo spirito ispiratore, lo Spirito Santo”) (5).
Ebbene, come si può pensare che chi fa poco o nulla per accogliere in sé “la madre di Gesù”, ossia “l’anima cosciente” o l’autocoscienza (6) (“Per “amore” – dice Dante, nel Convivio [III, XII, 2] – intendo lo studio lo quale io mettea per acquistare l’amore di questa donna”), possa accogliere in sé lo Spirito Santo, sperimentandolo non come un “qualcosa dato dal di fuori, dal mondo spirituale esterno” (dalla trascendenza o dalla Chiesa che dice di rappresentarlo), bensì come un qualcosa con cui si cresce, nell’anima, “assieme alle proprie forze conoscitive”? (“Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam”)
Recita il catechismo: “La missione di Cristo e dello Spirito Santo si compie nella Chiesa, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo” (7). “Tempio dello Spirito Santo” è dunque la Chiesa, e non ogni singolo essere umano (ogni Io).
Questo, però, non è che un “sequestro di Persona” (della terza “Persona” della Trinità): un “sequestro” che consente alla Chiesa di proporsi, in quanto unica concessionaria del rapporto con lo “Spirito di verità”, quale “anima cosciente” dell’umanità.
Non a caso, dove l’anima cosciente non si è rassegnata a patire una simile ipoteca, si è avuta la Riforma.
Ricordate ciò che abbiamo detto, parlando dell’immenso sapere custodito a Jundishapur? Ch’è più salutare un piccolo sapere nelle mani di un grande (libero) Io, che non un grande sapere nelle mani di un piccolo (non libero) Io.
Un conto, infatti, è che l’anima cosciente si faccia strada con l’osservazione, col pensiero e con la ricerca (con la scienza), altro che le venga insegnata o trasmessa una verità (“rivelata”) che si può accettare o non accettare, cui si può credere o non credere, ma che non si può liberamente e individualmente conquistare.
L’anima cosciente vive però nel conoscere, e non nel conosciuto. Quando ci troveremo, dopo la morte, nel mondo spirituale, non disporremo del sapere, ma della forza che abbiamo sviluppato, durante la vita, per conquistarlo.
“Diverso era per i popoli provenienti dal nord-est che entravano nella storia. Essi avevano attraversato lo stadio dell’anima razionale o affettiva in una condizione che per loro si faceva sentire come dipendenza dal mondo dello spirito. Solo all’albeggiare delle prime forze dell’anima cosciente, agli inizi del cristianesimo, essi cominciarono ad avere un sentore dell’autonomia umana. Per loro l’anima cosciente si manifestò come elemento collegato con l’entità dell’uomo. Si sentivano in un gioioso dispiegarsi di forze interiori, mentre la vita dell’anima cosciente sorgeva in loro” (p. 218).
La condizione animica dei “popoli provenienti dal nord-est che entravano nella storia” (longobardi, alemanni, ostrogoti, visigoti, ecc.) era diversa da quella finora descritta.
Questi popoli, sentendosi uniti all’anima cosciente e separati dal mondo divino-spirituale, si accingevano a realizzare la propria umanità e a riallacciare un rapporto col mondo spirituale basato sulla propria indipendenza e autonomia.
Non è facile, lo so, cogliere questa sottile, ma decisiva differenza. Per aiutarci (e per quello che può valere), potremmo pensare ad esempio al rapporto con la scienza e con la tecnica che hanno oggigiorno quei popoli che non le hanno sviluppate da sé, ma le hanno importate dall’Europa e dall’Occidente. Oppure potremmo pensare, se preferite, a quanto sia difficile far intendere agli altri (ammesso che lo chiedano) ciò di cui ci occupiamo.
Perché è così difficile? Perché mancano, quasi sempre, i presupposti necessari. E’ vano ad esempio parlare di quanto presuppone l’esistenza dell’anima cosciente, come l’insegnamento di Steiner e, in specie, de La filosofia della libertà, a chi è ancora immerso nell’anima razionale-affettiva (ho scritto La filosofia della libertà “in modo di poter rendere conto a qualsiasi matematico del corso della mia ricerca, e senza dar valore alcuno all’eventuale approvazione della via verso la spiritualità che potesse venire da parte di ambienti spiritistici o pseudo-mistici. Da questa parte è facile ottenere consensi, purché si parli dello spirituale in modo vago, evitando invece accuratamente la via che in quella sede [ne La filosofia della libertà] avevo cercato di percorrere. Io andavo cercando certezza e sicurezza per lo spirituale, e mi era del tutto indifferente il consenso da parte di tutti i chiacchieroni che prendono le parti dello “spirituale”, partendo da confusi sottofondi mistici”) (8).
Il che vale, a maggior ragione per chi è ancora immerso nell’anima senziente, ma anche per chi ha maturato, sì, l’anima cosciente, ma un’anima cosciente ipotecata, irretita e mortificata dal materialismo.
Morale della favola: quanti parlano della realtà dello spirito non ne parlano al modo dell’anima cosciente, mentre quanti parlano al modo dell’anima cosciente non parlano della realtà dello spirito.
“In mezzo a questa vita germinante dall’anima cosciente che andava sorgendo, per questi popoli cadde il contenuto cristiano. Essi lo sentirono come vita che sorge nell’anima, non come qualcosa dato dal di fuori” (p. 218).
Che cosa significa che questi popoli sentirono tale contenuto “come vita che sorge nell’anima non come qualcosa dato dal di fuori”? Lo abbiamo detto: che lo sentirono come immanente, e non come trascendente.
Regalereste mai alla vostra amata un seme di rosa, anziché una rosa? Non credo, perché la rosa è bella e profumata e il seme no.
Ebbene, mettete al posto della rosa l’anima razionale-affettiva, o la cultura greco-romana, e al posto del seme l’albeggiante anima cosciente, o la cultura dei popoli provenienti dal nord-est, e vedrete non solo che i conti tornano, ma che l’irruzione della seconda non poteva apparire, agli occhi della prima, che un’“invasione barbarica”.
Chi sa qualcosa della “direzione spirituale dell’uomo e dell’umanità” (9) sa pure che quando viene dato all’evoluzione umana un nuovo impulso ci sono anime pronte ad accoglierlo, altre che lo respingono, e altre ancora che lo deformano o corrompono.
Quella che, dal punto di vista greco-romano è stata una “invasione barbarica”, dal punto di vista spirituale è stata invece la semina nella cultura europea di uno stimolo ch’è più tardi fiorito, ad esempio, nella filosofia classica tedesca, quale filosofia dell’immanenza.
(Scrive Jürgen Misch: “In quel poderoso dramma della storia, che da scolari apprendemmo a definire come il periodo delle invasioni barbariche, i Longobardi compaiono sulla scena solo all’ultimo atto, e precisamente nell’anno 568 d.C., quando cioè invadono l’Italia. Alle loro spalle stavano però già mille anni di migrazioni, un lunghissimo periodo di tempo in cui, dall’estremo nord scandinavo, mossero i loro primi passi verso il bacino dell’Elba, la Boemia, l’Ungheria, dove costruirono villaggi e case, per poi arrivare in Lombardia, la terra che porta ancora oggi il loro nome, in cui giunsero al massimo del loro splendore (…) Nessun incontro tra cultura germanica e cultura classica fu più fruttuoso e denso di significato per lo sviluppo della civiltà occidentale (è qui infatti che essa ha le sue radici), né alcun paese d’Europa svolse, per un periodo di tempo altrettanto lungo un ruolo di pari importanza ed intensità in campo culturale ed economico come l’Italia settentrionale sotto i Longobardi” [10].)
Un giorno andai da Massimo Scaligero portando con me degli amici. Ci fece accomodare, e poi si sedette come sempre alla sua scrivania. Io pensavo che cominciassero a parlare i miei amici; loro pensavano che cominciassi a parlare io; così ci fu, per un po’, un imbarazzante silenzio. Lo ruppe Scaligero. E sapete cosa disse? Disse: “La nostra è la via dell’assoluta immanenza”.
“Tale era la disposizione d’anima con cui queste popolazioni si avvicinarono all’impero romano e a tutto ciò che aveva attinenza con esso. Era l’atteggiamento dell’arianesimo di fronte all’atanasianismo. Un profondo contrasto interiore sorgeva nell’evoluzione storica del mondo” (p. 219).
Il testo del Credo (il cosiddetto “ simbolo niceno-costantinopolitano”) fu sancito, nel 325, dal Concilio di Nicea.
Era allora in atto una violenta disputa fra il teologo egiziano Ario (256-336) e il patriarca di Alessandria d’Egitto Atanasio (295-373) sul problema della Trinità e su quello, in particolare, della cosiddetta “processione” dello Spirito Santo.
Ario sosteneva che lo Spirito Santo procede ex Patre per Filium, cioè dal Padre attraverso il Figlio, mentre Atanasio sosteneva che procede ex Patre Filioque, cioè dal Padre e dal Figlio.
(Recita, alla voce Filioque, il Dizionario enciclopedico dell’Oriente cristiano: “Frase aggiunta al credo detto di Costantinopoli che parla della processione dello Spirito dal Padre “e dal Figlio”. La problematica del Filioque è duplice: l’aggiunta al credo da parte della sola chiesa latina e la dottrina” [11].)
Risulta chiaro che, adottando la formula ex Patre Filioque, si avvicina il Figlio al Padre, allontanandolo, nella stessa misura, dallo Spirito Santo, mentre, adottando la formula ex Patre per Filium, si colloca il Figlio esattamente in mezzo, tra il Padre e lo Spirito Santo.
Tuttavia, la formula di Ario comportava il rischio di subordinare il Figlio al Padre, e di mettere così a repentaglio la natura triunitaria del Dio cristiano.
Non posso qui approfondire la questione, ma non vi sarà difficile, se vorrete saperne di più, reperire gli opportuni testi (12).
Quel che importa, comunque, è osservare la cosa non dal punto di vista teologico (orientale od occidentale) dell’anima razionale-affettiva, ma da quello scientifico-spirituale dell’anima cosciente.
Che cosa significa, da questo punto di vista, il Filioque? Significa avvicinare l’anima razionale-affettiva all’anima senziente, impedendole così di fare da trait d’union tra l’anima senziente e l’anima cosciente o tra la trascendenza e l’immanenza.
Dal punto di vista scientifico-spirituale, è infatti immanente ciò ch’è cosciente, ed è trascendente ciò ch’è incosciente; ed è cosciente quanto vive nella sfera vigile del pensare (“Amor, che ne la mente mi ragiona”), mentre è incosciente quanto vive nella sfera sognante del sentire e in quella dormiente del volere.
Qual è dunque la “Buona Novella”? E’ che quanto è incosciente può essere reso cosciente o che il trascendente può essere reso immanente.
Sappiamo, infatti, che il Sé spirituale (collegato allo Spirito Santo) è trascendente rispetto all’ego, che lo Spirito vitale (collegato al Figlio) è trascendente rispetto al Sé spirituale, che l’Uomo spirituale (collegato al Padre) è trascendente rispetto allo Spirito vitale, ma sappiamo pure che, partendo dall’ego, possiamo sviluppare il Sé spirituale, e trasformare così il trascendente in immanente (passando in questo modo dalla quinta alla sesta epoca post-atlantica).
“Nell’anima cosciente esteriore all’uomo, dei Romani e dei Greci, agì a tutta prima l’entità divino-spirituale non unentesi completamente con la vita terrena, ma solo irradiante in essa dal di fuori. Nell’anima cosciente appena albeggiante dei Franchi, dei Germani, e così via, solo ancora debolmente agiva ciò che del divino-spirituale poteva unirsi con l’umanità.
Prima conseguenza ne fu che il contenuto cristiano, vivente nell’anima cosciente che aleggiava al di sopra dell’uomo, si diffuse nella vita; il contenuto collegato con l’anima rimase invece nell’interiorità dell’uomo come stimolo, come impulso, e aspettò il suo sviluppo che poteva sopravvenire soltanto quando fosse stato raggiunto un certo stadio nello svolgimento dell’anima cosciente” (p. 219).
Nell’anima cosciente esteriore dei Romani e dei Greci il “contenuto cristiano” che aleggiava al di sopra dell’uomo si diffuse nella vita, mentre “nell’anima cosciente appena albeggiante dei Franchi, dei Germani, e così via”, tale contenuto, collegato con l’anima umana, rimase nell’interiorità come impulso, “come stimolo, e aspettò il suo sviluppo che poteva sopravvenire soltanto quando fosse stato raggiunto un certo stadio nello svolgimento dell’anima cosciente”.
Nel primo caso, il “contenuto cristiano” fu dunque esteriorizzato, reificato e istituzionalizzato, mentre nel secondo rimase nell’interiorità, facendo da lievito per lo sviluppo dell’anima.
Ci siamo già riferiti, a questo proposito, alla Riforma (“L’affermazione di Lutero di un rapporto solo interiore di fede col mondo spirituale nasce dal non essere legati con il mondo esterno”) (13) e alla filosofia classica tedesca, ma ancor più che a queste dovremmo riferirci a Goethe e al goetheanismo.
Vedete, Goethe parla poco del Cristo, ma in tanto ne parla poco in quanto è il Cristo a parlare attraverso di lui. Il Cristo non parla infatti di sé (come fa l’ego), ma del mondo.
So bene che si usa parlare di Goethe come di un pagano, e non di un cristiano. Ciò che conta, però, non è quello che si dice di lui quanto piuttosto quello che, agendo in lui, gli ha permesso di porre le basi di una concezione scientifico-spirituale della natura.
(Per la verità, non solo conta poco quello che si dice di lui, ma anche quello che Goethe dice di sé. Ricordate come recita l’ultimo di quei versi dedicati a “una donna divina” che vi lessi una sera [lettera 9 novembre 1924]? “Schermo, nascondo in me il tuo dolce lume”.)