Della dialettica

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Nel nostro Il troppo stroppia (1), abbiamo osservato che la realtà immaginativa (sensibile-sovrasensibile), per il fatto di mediare (etericamente) tra la realtà sensibile (fisica) e quella sovrasensibile (animico-spirituale), si presta a essere alterata, sia nella direzione del mondo sensibile (come fa ad esempio Freud), sia nella direzione del mondo sovrasensibile; e abbiamo visto che Pavel Florenskij altera la realtà immaginativa, che si trova al di qua della soglia, in quanto le sovrappone (di fatto) quella concettuale, che si trova al di là della soglia.
Proveremo adesso a dimostrare che Hegel, al contrario, altera la realtà concettuale, in quanto le sovrappone (di fatto) quella immaginativa.
Partiamo da queste affermazioni di Alexandre Kojève: “In Platone il metodo dialettico è ancora molto vicino alle sue origini storiche (le discussioni sofistiche). Si tratta, in lui, di veri e propri dialoghi, nei quali la tesi e l’antitesi sono rappresentate da personaggi differenti (…) In Aristotele il metodo dialettico è meno manifesto che in Platone, ma continua a venir applicato. Diventa il metodo aporetico: la soluzione del problema deriva da una discussione (e talvolta da una semplice giustapposizione) di tutte le opinioni possibili, cioè coerenti o non intrinsecamente contraddittorie. E sotto tale forma “scolastica” il metodo dialettico si perpetuò sino a noi, tanto nelle scienze che nella filosofia” (2).
Hegel, afferma ancora, “potè per il primo abbandonare a ragion veduta la Dialettica concepita come un metodo filosofico. Egli si accontenta di osservare e di descrivere la dialettica attuatasi nel corso della storia e non ha più bisogno di farne lui una” (3); per Hegel, infatti, “quella dialettica ideale che è il dialogo delle Filosofie è avvenuta soltanto perché è un riflesso della dialettica reale dell’Essere” (4).
I precedenti filosofi hanno dunque applicato il metodo dialettico alla realtà, mentre Hegel non applica la dialettica alla realtà, bensì osserva e descrive (logicamente) la dialettica operante nella realtà stessa.
Scrive: “La logicità ha, considerata secondo la forma, tre aspetti: α) l’astratto o intellettuale; β) il dialettico, o negativo-razionale; γ) lo speculativo, o positivo-razionale” (5); e spiega: “α) Il pensiero, come intelletto, se ne sta alla determinazione rigida e alla differenza di questa verso altre: siffatta limitata astrazione vale per l’intelletto come cosa che è e sussiste per sé [in ragione del principio d’identità o di non contraddizione – nda]; β) Il momento dialettico è il sopprimersi da sé di siffatte determinazioni finite e il loro passaggio nelle opposte; γ) Il momento speculativo, o il positivo-razionale, concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione; ed è ciò che vi ha di affermativo nella loro soluzione e nel loro trapasso” (6).
Ecco un esempio, fatto dallo stesso Hegel, di tale “soluzione” e di tale “trapasso”: “Il dualismo che rende insuperabile l’antitesi di finito ed infinito, non fa la semplice considerazione, che per tal modo l’infinito è sol uno dei due; che con ciò vien reso un qualcosa di soltanto particolare, rispetto al quale il finito è l’altro particolare. Un tale infinito, che è soltanto un particolare, è accanto al finito; ha in questo appunto la sua barriera e il suo limite; non è ciò che deve essere; non è l’infinito, ma è solamente finito. – In tal relazione, dove il finito è da un lato, l’infinito dall’altro, il primo di qua, l’altro di là, al finito vien attribuita la stessa dignità di sussistenza e indipendenza, che si attribuisce all’infinito: l’esser del finito è fatto un essere assoluto: esso, in cotesto dualismo, sta saldo per sé (7). Ma non è così: “l’infinito e il finito sono uno”, e “il vero, la vera infinità, vien determinata ed enunciata come unità del finito e dell’infinito” (8).
Ciò che qui preme rilevare, però, è che i processi grazie ai quali l’infinito si fa finito (lo spirito si fa carne) e il finito si fa infinito (la carne si fa spirito), così come i passaggi dalla tesi all’antitesi e dall’antitesi alla sintesi comportano o implicano un movimento.
Ora, la grandezza di Hegel (a prescindere da quella dovuta alla sua esperienza del concetto puro) risiede appunto nel fatto di essere stato il primo a immettere nella logica il movimento e di aver portato grazie a questo alla luce quel terzo, sintetico e conclusivo momento che dalla logica dualistica o binaria viene viceversa escluso (tertium non datur).
(Per questa ragione abbiamo altrove affermato che Hegel sta ad Aristotele come Goethe sta a Linneo.)
Tuttavia, Hegel attribuisce il movimento (quale “sviluppo immanente del concetto”) ai pensieri (9), e non al pensare (10): a suo dire, sarebbe l’“irrequietezza” generata in essi dall’isolamento cui li costringe l’intelletto a spingerli gli uni verso gli altri, a ritrovarsi e a riunirsi “nell’elemento astratto del pensiero” (“La logica è la scienza della idea pura, cioè dell’idea nell’elemento astratto del pensiero”) (11).
Come abbiamo altre volte ricordato, è stato questo disconoscimento della vivente attività del pensare e la sua conseguente “proiezione” sui pensieri a indurre Giovanni Gentile a proporre una “riforma della dialettica hegeliana” (12).
Ascoltiamo quanto dice, al riguardo, Ferruccio Pardo: nella dialettica di Hegel, “non c’è più il pensiero che opera, non c’è più il soggetto pensante; c’è solo il “pensato”, su di cui, non si sa da chi, viene eseguita l’operazione mentale. Ciò che Hegel indaga, è solo “il pensato”: qualcosa di statico che non può divenire; ciò che egli vorrebbe indagare – il vero divenire – è invece “il pensiero in atto” (…) Il pensiero dialettico non deve essere inteso come processo di categorie “pensate” [di concetti o di idee – nda], ma come processo del “pensiero in atto” [del pensare – nda], come processo adunque del soggetto trascendentale [dell’Io – nda] realizzantesi quale attività di pensiero” (13).
In effetti, è così: nel processo dialettico i concetti o le idee non sono semoventi (“Il procedere del concetto è svolgimento…”) (14), bensì mossi dall’Io mediante il pensare.
(Detto altrimenti, e in soldoni: non sono le pedine – i concetti o le idee – a muoversi sulla damiera della coscienza, bensì è il giocatore – l’Io – a muoverle mediante il proprio arto – il pensare. Va comunque ricordato che Gentile ha il “concetto” del pensare, ma non la sua “percezione” o “esperienza” eterica, e che se la logica di Hegel è una logica dei pensieri priva del pensare, quella di Gentile è viceversa una logica del pensare priva dei pensieri. Lo testimoniano queste parole di Ferruccio Pardo: “Questo autoprocesso dialettico non trova punto le categorie di fronte a sé, ma le crea [corsivo nostro] tutte nel suo atto autonomo che ubbidisce solo alle proprie immanenti leggi”; e, in modo ancora più esplicito, lo stesso Gentile: “Non si può parlare dell’universalità del concetto di uomo, di animale, di triangolo, di numero, perché non ci sono questi concetti, né in cielo né in terra, bensì il pensiero che pensa questi concetti” [15]. Non è però così: il pensare non “crea” i pensieri, bensì li “percepisce”. Scrive appunto Steiner: “Il nostro spirito non va riguardato come un recipiente che contiene in sé il mondo delle idee, ma come un organo che le percepisce. E’ un organo di percezione precisamente come l’occhio e l’orecchio. Il pensiero sta al nostro spirito non altrimenti di come la luce sta all’occhio, il suono all’orecchio” [16].)
Hegel afferma, è vero, che “il pensiero come attività è l’Universale attivo”, che “il pensiero, rappresentato come soggetto, è il pensante”, e che “la semplice espressione del soggetto esistente come pensante è l’Io” (17), ma non si avvede (ignorando, al pari di Florenskij, i diversi gradi di coscienza e di realtà) che assegnando il movimento (la vita) ai pensieri lo sottrae al pensare e, di conseguenza, al pensante (all’Io).
Ricordiamo, ancora una volta, queste parole di Steiner: “Il nostro io e il nostro corpo astrale non posseggono la vita, eppure esistono. Lo spirituale e l’animico non hanno bisogno della vita. La vita comincia con il corpo eterico” (18).
Al di là della soglia, dove sono i pensieri (i lògoi), non c’è dunque movimento, poiché la vita è propria del corpo eterico, e quindi del pensare (scrive ancora Steiner: l’idealismo oggettivo (o empirico), da noi fondato, “si distingue dall’idealismo assoluto, metafisico, di Hegel, perché cerca nello stesso soggetto della conoscenza la ragione della scissione della realtà in essere dato e concetto, e vede la mediazione tra i due, non già in un’oggettiva dialettica universale [corsivo nostro], ma nel soggettivo processo conoscitivo” [19]) .
Un rilievo del genere è tutt’altro che accademico. Dal momento che il pensare è un atto dell’Io o l’Io in atto, attribuire il suo movimento ai pensieri significa sottomettere l’individualità umana (l’Io) ai concetti o alle idee. Il che è l’esatto opposto di quanto auspica Steiner alla fine de La filosofia della libertà: “Questo libro non concepisce perciò il rapporto fra scienza e vita nel senso che l’uomo debba piegarsi all’idea e consacrare le proprie forze al suo servizio, ma nel senso che egli debba impadronirsi del mondo delle idee per adoperarlo per i propri fini umani, i quali vanno al di là di quelli puramente scientifici. Dobbiamo poterci mettere di fronte all’idea in modo vivente; altrimenti si diventa schiavi di essa” (20).
(Sul piano storico-politico, i moderni totalitarismi, ideocratici o teocratici, dimostrano a quali risultati si può giungere quando il pensare e l’Io diventano schiavi dell’idea. Non a caso, lo storico Robert Conquest ha definito il Novecento “il secolo delle idee assassine” [21].)
Scrive ancora Steiner: Il mondo del nostro pensiero [il mondo dei concetti o delle idee – nda] è “un’entità poggiante interamente su se stessa, una totalità in sé completa e perfetta” (22).
E’ da questa “totalità” che l’intelletto “estrae” (astrae) i singoli concetti o le singole idee. Ma come riesce a “estrarle”? Lo spiega Hegel: “Per quel che concerne il sensibile, si suol addurre dapprima, come spiegazione di esso, la sua origine esterna, i sensi o gli organi dei sensi. Ma il nominare l’istrumento non dà alcuna determinazione di ciò che con esso viene appreso. La differenza del sensibile rispetto al pensiero è posta in base a quanto segue: la differenza del sensibile dal pensiero è da riporre nella individualità [singolarità – nda], che è il carattere del sensibile; e poiché anche il singolo (del tutto astrattamente, l’atomo) si trova in certe connessioni, il sensibile è un’esteriorità reciproca le cui prime forme astratte sono la giustapposizione [nello spazio – nda] e la successione [nel tempo – nda]” (23).
(Steiner: “Ciò che costituisce la singolarità di un oggetto, non si può comprendere, ma solo percepire” [24]. Si consideri, altresì, che la percezione è un’intuizione sensibile, mentre l’intuizione è una percezione sovrasensibile.)
E’ dunque la percezione sensibile a permettere all’intelletto di afferrare, separare e fissare i singoli pensieri (concetti).
(Hegel: “L’attività del separare è la forza e il lavoro dell’intelletto, della potenza più mirabile e più grande, o meglio della potenza assoluta” [25].)
L’intelletto afferra, separa e fissa dunque i singoli pensieri (concetti), mentre il pensare (quale “forza d’amore di natura spirituale”) (26), giudicando, li riunisce. Può riunirli in modo meccanico (fisico), se il suo movimento, adeguandosi alla realtà inorganica, segue il tracciato discreto del sistema nervoso, ma può anche riunirli in modo vivente (eterico), se il suo movimento, adeguandosi alla realtà organica, segue il flusso continuo del sangue.
Ricordiamo che il pensare, dal punto di vista evolutivo, ha preso a seguire il tracciato discreto del sistema nervoso relativamente tardi: allorché il corpo eterico ha preso a immergersi nel corpo fisico fino a coincidere con esso.
Scrive Steiner: “Un tempo gli uomini ricevevano i pensieri da Michele; Michele amministrava l’intelligenza cosmica. Dal secolo nono in poi gli uomini non sentivano più che Michele ispirava i loro pensieri. Questi erano sfuggiti alla sua signoria; cadevano dal mondo spirituale nelle singole anime umane. La vita del pensiero venne ormai sviluppata in seno all’umanità” (27).
Che cosa vuol dire che Michele, un tempo, “amministrava l’intelligenza cosmica”? Vuol dire che Michele, un tempo, amministrava il “pensare” (l’intelligere) e che, per il fatto di amministrarlo, ispirava agli uomini i “pensieri” (gli intelligibili). E’ dunque il pensare (la vis cogitans) che, sfuggendo alla sua signoria (in nome della libertà), è caduto nelle singole anime umane (nella stessa misura in cui il corpo eterico umano è caduto, in specie nella testa, nel corpo fisico) (28).
(Steiner: “Passando al corpo fisico, i pensieri perdono la loro vitalità [la loro realtà o il loro spessore – nda]. Diventano morti [riflessi o piatti – nda]; sono formazioni spiritualmente morte (…) Con i pensieri morti [l’uomo] si sente separato dal mondo spirituale. Si sente completamente trasferito nel mondo fisico. Ma con ciò egli è posto nella sfera della spiritualità arimanica” [29].)
Un pensare “libero dai sensi”, e quindi libero dalle forze (arimaniche) che lo costringono, vincolandolo al nervo, a muoversi esclusivamente in modo discreto (con l’avallo delle odierne neuroscienze: cioè a dire, dell’odierna ingegneria dell’anima), è pertanto un pensare umano che, seguendo l’esempio di Michele, si muove, al pari del pensare cosmico, in modo continuo (vivente o immaginativo), così da poter riscoprire, attraversando la soglia, la realtà spirituale dei pensieri (delle entità spirituali).

Note:

01) cfr. Il troppo stroppia, 5 giugno 2015;
02) A.Kojève: La dialettica e l’idea della morte in Hegel – Einaudi, Torino 1948, p. 51;
03) ibid., p. 53;
04) ibid., p. 54;
05) G.W.F.Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 95;
06) ibid., pp. 96-97;
07) ibid., p. 111;
08) ibid., p. 112;
09) G.W.F.Hegel: Scienza della logica – Laterza, Roma-Bari 1974, vol. 1°, p. 7;
10) cfr. Il pensare e i pensieri, 10 novembre 2013;
11) G.W.F.Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche, p. 31;
12) cfr. G.Gentile: La riforma della dialettica hegeliana – Principato, Messina 1913;
13) F.Pardo: La filosofia di Giovanni Gentile – Sansoni, Firenze 1972, p. 150;
14) G.W.F.Hegel: Enciclopedia (Heidelberg 1817) – Quaderni di Verifiche 5, Trento 1987, p. 75;
15) G.Gentile: L’atto del pensare come atto puro in La riforma della dialettica hegeliana, p. 251;
16) R.Steiner: Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano1974, p. 68;
17) G.W.F.Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche, pp. 32-33;
18) R.Steiner: Sedi di misterti nel Medioevo. La festa di Pasqua – Antroposofica, Milano 1984, p. 21;
19) R.Steiner: Verità e scienza. Proemio di una filosofia della libertà in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1990, p. 128;
20) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p. 230;
21) cfr. R.Conquest: Il secolo delle idee assassine – Mondadori, Milano 2001;
22) R.Steiner: Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo, p. 45;
23) G.W.F.Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche, pp. 33-34;
24) R.Steiner: Introduzioni agli scritti scientifici di Goethe – Antroposofica, Milano 2008, p. 128;
25) G.W.F.Hegel: Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1996, p. 19;
26) R.Steiner: La filosofia della libertà, p. 120 ;
27) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p. 56;
28) R.Steiner: “Nel capo dell’uomo l’organizzazione fisica è un’impronta dell’individualità spirituale. La parte fisica e quella eterica del capo stanno come immagini concluse dello spirituale, e accanto ad esse stanno la parte astrale e quella dell’io, come entità animico-spirituale autonoma. Nel capo dell’uomo si ha dunque a che fare con un’evoluzione parallela delle parti relativamente autonome fisica ed eterica da un lato, dell’organizzazione astrale e di quella dell’io dall’altro” – ibid., p. 26. E’ in ragione di questo che, nella testa, l’organizzazione astrale e quella dell’io possono rispecchiarsi o riflettersi nell’organizzazione fisica e in quella eterica;
29) ibid., p. 76.

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Di Lucio Russo
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