Al lettore:
il seguente lavoro è il rifacimento (diviso in due parti) di uno scritto del 1995, gratuitamente distribuito, in veste di “dispensa” e con lo stesso titolo, ai partecipanti a un corso di studio da me allora tenuto presso la sede della Società Antroposofica Romana.
Dall’essere allo spirito (1)
Nel primo capitolo degli Enigmi della filosofia (1), Steiner distingue quattro fasi di sviluppo del pensiero umano.
Nella prima, il pensiero si dà come immagine (mitica); il soggetto si sente unito all’oggetto (al mondo) e si sperimenta come parte di un tutto.
Nel corso della seconda (dal VI sec. a.C. alla nascita del Cristianesimo), tale legame si fa via via più sottile, arrivando in ultimo a sciogliersi.
Durante la terza (dalla nascita del Cristianesimo a circa il IX sec.), il pensiero si sviluppa “nascostamente nel calore della coscienza religiosa”, risvegliando pian piano l’autocoscienza; il soggetto comincia a sentire la propria autonomia, ma non è ancora in grado di darle una ferma base concettuale.
Nella quarta (da circa il IX sec. a Cartesio), l’autocoscienza, in virtù di un intenso e raffinato lavoro concettuale, cresce, matura e giunge infine a formulare il celebre “cogito, ergo sum”.
Questa formula sta a fondamento del soggettivismo (individualismo) della filosofia moderna. Da questo momento in poi, il soggetto autocosciente si volge all’oggetto, cui era un tempo unito, nella speranza, comprendendolo, di farlo suo, e di poter così riesperire, a un nuovo e più alto livello, l’“unione” originaria quale “comunione”.
Scrive Gentile: “A tutti i filosofi greci, come poi ai filosofi medievali, manca il concetto della soggettività della conoscenza […] La stessa controversia medievale tra realisti e nominalisti si svolge in un campo in cui non ha luogo il problema dell’esperienza […] Si trattava di definire la natura della realtà e non quella del conoscere” (2).
Solo dopo Cartesio, dice ancora, si prende a considerare “non più il mondo solo, in cui rimanga compreso e assorbito il soggetto; ma due termini, uno dei quali, il soggetto, di tal natura, che da esso convenga muovere ove si voglia parlare, a qualsiasi titolo, dell’altro […] Il dommatismo cade perché sorge il soggetto: il quale è certo di sé e della sua verità: ossia di quello che egli pensa ed è oggetto suo, in quanto egli lo pone in essere e costruisce. Che è il profondo e originario significato del “cogito” cartesiano. L’essere del soggetto è il risultato (ergo) del suo stesso pensare, in cui consiste la sua essenza. E’ un essere sperimentato: un’esperienza” (3); e Berdjaev ribadisce: “L’idealismo tedesco ha inferto all’oggettivismo della filosofia greca e scolastica un colpo dal quale non può riaversi […] La ricerca era cominciata con Descartes, ma il razionalismo pre-kantiano non aveva sollevato il problema in modo abbastanza radicale. Fu necessario trasferire il centro di gravità della filosofia dall’oggetto al soggetto, e da quel momento si cominciò a cercare la chiave del problema dell’essere nel soggetto” (4).
La filosofia dell’essere quale “oggetto” è metafisica, ontologia o materialismo; la filosofia dell’essere quale “soggetto” è razionalismo, psicologismo o idealismo; la filosofia dell’essere quale essere dell’oggetto nel soggetto e del soggetto nell’oggetto (quale unità di soggetto e oggetto) è filosofia dello spirito.
I due primi problemi della filosofia dello spirito, quelli del conoscere l’esperienza e dell’esperienza del conoscere, trasformano la precedente filosofia dell’esse in una filosofia del cognosco: ovvero, in una gnoseologia.
Il mondo esterno sensibile è il mondo dell’oggetto; il mondo interno animico è il mondo del soggetto; il mondo spirituale, che è al di là di soggetto e oggetto, è il mondo esterno dell’interno.
(“Il mondo esterno – dice Steiner – deve annunciarsi all’anima da fuori per mezzo dell’elemento corporeo; l’esperienza animica è puramente interiore; abbiamo poi lo spirito che […] si annuncia nell’intimo dell’anima” [5].)
Compito della gnoseologia è dimostrare non solo la realtà del mondo spirituale, ma anche, se non soprattutto, che questo, in qualità di mondo esterno dell’interno (animico), non è che il mondo interno dell’esterno (sensibile).
Scrive Berdjaev: “La teoria della conoscenza si è sempre basata sulla opposizione soggetto-oggetto” (6). Se la filosofia dello spirito, quale “teoria della conoscenza”, vuole davvero comprendere l’uomo, deve però trasformarsi (come esige l’anima cosciente) in una “scienza” dello spirito e ricondurre tale opposizione all’interno dell’uomo stesso, ponendola, logodinamicamente, in termini di pensare-percepire (pensare-volere).
(Dice Steiner, riferendosi a La filosofia della libertà: “Dovevo prima presentare al mondo qualcosa che fosse concepito in modo rigorosamente filosofico, anche se in realtà andava oltre la filosofia ordinaria. Era pur necessario compiere una volta il trapasso dallo scrivere puramente filosofico e scientifico a quello scientifico-spirituale” [7].)
Immaginiamo di muoverci in una stanza con gli occhi chiusi, le braccia protese, e di arrivare a toccare qualcosa. Sorgerà immediato in noi il giudizio: “Qui c’è qualcosa” (“qui e ora, qualcosa è”). Solo aprendo gli occhi potremo completare tale giudizio, determinando “quale” è la “cosa” che “è” (magari una sedia).
E’ come se, insoddisfatti del nostro primo giudizio, avessimo rivolto all’oggetto questa domanda: “Chi sei?”. Singolare, tuttavia, è che l’oggetto interrogato risponda per mezzo del soggetto interrogante.
Questa cognizione sensibile ha preso le mosse dall’incontro o dallo scontro di due corpi, di due esseri o di due volontà: uno dei quali, quello del soggetto, si è però dimostrato capace, a differenza dell’altro, di trasformare il mero fatto in una esperienza: ossia, in una percezione, in una sensazione e in un giudizio.
Nell’esempio, l’azione delle mani è svolta soprattutto dal volere (bramare); l’azione degli occhi è svolta soprattutto dal pensare (giudicare); entrambe sono svolte dall’Io.
Diciamo “soprattutto” perché il primo dei due giudizi (“qui c’è qualcosa”) già rivela la presenza del pensare; così come il secondo (“qui c’è una sedia”), per poter essere formulato, ha richiesto l’intervento del volere (l’apertura degli occhi). Il primo lo si sente certo nella sostanza (“toccata con mano”), ma incerto nella forma, poiché scaturito dalla semplice sensazione dell’essere.
Seguiamo, mediante l’esposizione che ne fa Gentile, il modo in cui Bertrando Spaventa (1817-1883) analizza, partendo appunto dalla sensazione, il costituirsi, nel soggetto, della conoscenza dell’oggetto.
Scrive Gentile: “Cominciamo dalla coscienza: la sensazione, dice lo Spaventa col Kant e col Rosmini, è al di qua della coscienza, della minima coscienza; poiché consiste semplicemente nella unione immediata, senza distinzione di senziente e sentito; laddove la coscienza è essenzialmente atto distintivo”.
Spaventa colloca dunque la sensazione “al di qua della coscienza, della minima coscienza”: cioè “al di qua” dell’anima, e quindi nel corpo. Ma se la sensazione fosse estranea alla coscienza come potrebbe consentire un giudizio? Per quanto generico o indeterminato, un giudizio è sempre un fatto della coscienza (“la sensazione – dice Steiner – è il confluire di brame e giudizi [volere e pensare] entro la vita animica”) (8).
In realtà, la sensazione non è “al di qua” della “minima coscienza”, bensì è la “minima coscienza”, è quel grado di coscienza (senziente) che consente appunto un giudizio “minimo”: relativo, cioè, al solo essere.
Spiega ancora Gentile: “Vi ha vari gradi di coscienza. Il primo è quello della coscienza meramente indicativa, che non dice altro se non: “questo”, “questo è”. Ma neppure questa semplice indicazione, senza punto qualificazione, è nella sensazione. La forma di questa prima coscienza in cui cominciano i primi albori del pensiero, è un giudizio; un giudizio il cui predicato è il semplice essere”.
Qui Spaventa riconosce che “la forma di questa prima coscienza” (“questo è”) è un giudizio, ma ribadisce che l’indicazione da esso fornita non è nella sensazione.
Non è così. L’“indicazione fornita da tale giudizio” è nella sensazione, ma non nella percezione (che la precede): non è ancora, cioè, nel movimento volitivo dell’Io (nell’atto percettivo) che dà il via, mediante i sensi, all’intera esperienza.
Nella percezione è già invece quel quid o quel “contenuto” (il percetto) che, passando dal corpo all’anima, prende “forma” di sensazione.
Come si vede, Spaventa scambia (come si fa peraltro ancor oggi) la sensazione con la percezione, e fa quindi svolgere alla prima la funzione della seconda.
Scrive sempre Gentile “Il secondo grado è la coscienza percettiva, nella quale si risolve la contraddizione propria della indicativa, che esige un “quale” non espresso come “quale”: nella percettiva, si ha già non più il semplice oggetto puntuale, ma anche la sua determinazione, qualità o proprietà. Con la prima coscienza si oggettiva, con la seconda si qualifica. In quanto poi la proprietà si scioglie dalla cosa singola e diventa un universale, non mutevole come le singole cose, in cui può riscontrarsi, ma costante e necessario, si ha la terza funzione o il terzo grado della coscienza: la intellettiva. Ora tutti e tre questi gradi della coscienza rappresentano la formazione dell’oggetto della coscienza stessa, di cui le sensazioni non forniscono se non i semplici elementi originari. E la coscienza in generale può dirsi il “movimento di questi elementi; i quali si aggruppano e si uniscono secondo leggi costanti in certe forme, e i prodotti più o meno complicati di questa unione sono gli oggetti più o meno immediati della coscienza (dell’esperienza)” (9).
Qui, delle due, l’una: o tali “semplici elementi originari” (le sensazioni) non appartengono (com’è stato detto) alla coscienza, e non si vede allora come possano poi aggrupparsi e unirsi “secondo leggi costanti in certe forme”, oppure sono in grado di farlo, e appartengono allora alla coscienza.
Fatto si è che soltanto i concetti, nel loro “essere per l’altro”, come dice Hegel, oltre che “in sé”, sono in grado di aggrupparsi e unirsi “secondo leggi costanti in certe forme” (logiche), che sono, a loro volta, concetti sovraordinati o categorie.
Che cosa ne consegue? Che nella sensazione è presente il concetto. Così che si potrebbe dire: la sensazione è il concetto velato; il concetto è la sensazione svelata; oppure, parafrasando Vincenzo Gioberti (1801-1852): la sensazione è il concetto “implicato”; il concetto è la sensazione “esplicata”. Nella sensazione, il concetto è “implicato” in quanto il pensare è “implicato” nel volere (il pensare nel volere); nel concetto, la sensazione è “esplicata” in quanto il volere è “implicato” nel pensare (il volere nel pensare). Nell’anima, il pensare e il volere (nonché il sentire) sono costantemente presenti poiché costantemente presente è l’Io.