Il cervello, la mente e l’anima (3)

I

Scrive Boncinelli: “La relazione fra le varie parti che compongono gli oggetti ci appare così intima che a questa noi non diamo in genere nemmeno il nome di relazione e la chiamiamo piuttosto legame: legame atomico, legame elettrico, legame chimico, legame intermolecolare e così via. Ma il nome diverso non deve ingannare: anche il legame più forte è una relazione, una relazione reciproca” (23).
Ma che dire del legame logico: ossia di quel legame (non meno “intimo”) che unisce le varie parti del discorso, allo stesso modo in cui quello atomico, elettrico, chimico o intermolecolare unisce le varie parti degli oggetti? Si tratta – ci si potrebbe domandare – di legami diversi o di un unico legame che in ragione del livello al quale si presenta assume forme diverse, e che via via che risale dalla sfera incosciente della natura a quella cosciente dello spirito si fa sempre più trasparente, tanto da arrivare infine a svelare la propria essenziale natura? In verità non sono le consonanti e le vocali a combinarsi casualmente tra loro per formare le parole, ma sono quest’ultime a istituire, per manifestarsi, un intimo legame tra le une e le altre. Basterebbe sperimentare anche solo una volta ciò che significa esporre un’idea, per capire che il discorso si sviluppa dall’idea nello stesso modo in cui una pianta si sviluppa dal seme.
Quale forza fa “filare”, come si dice, il discorso (o il ragionamento), legando fra loro le parole, le proposizioni e i periodi? È ovvio: quella del pensare.
Una cosa è l’essenza (il succo) del discorso (l’idea), altra la forza che intesse la relazione tra le parti del discorso, e altra ancora il discorso concluso e magari scritto o stampato (verba volant, scripta manent). Com’è necessario distinguere il discorso dal pensare che lo svolge, così è necessario distinguere il discorso che si svolge da quello svolto. Quale differenza c’è tra i due? La stessa che c’è tra l’acqua e il ghiaccio. Che cos’è l’acqua? È ghiaccio allo stato liquido. E che cos’è il ghiaccio? È acqua allo stato solido. Insomma , l’idea è il soggetto (l’essenza), la relazione o il legame è il verbo (il divenire) e il prodotto è l’oggetto (il divenuto, il fatto o lo stato). Il pensare sta pertanto al verbo come il pensato sta all’oggetto.
Osservando la celebre “tavola periodica degli elementi” di Mendeleev, faremmo dunque bene a considerare ogni suo elemento alla stessa stregua di una lettera dell’alfabeto, di un colore o di una nota musicale.

Il suono, scrive Boncinelli, “è costituito da una vibrazione delle molecole dell’aria che si propaga con una certa velocità, come un’onda di pressione” (24).
Ebbene, immaginiamo di tirare un sasso e che questo, dopo aver compiuto una determinata traiettoria, colpisca un vetro e lo rompa. Se la sentirebbe Boncinelli di affermare che il sasso “è costituito da una vibrazione delle molecole dell’aria che si propaga con una certa velocità, come un’onda di pressione”? È improbabile. Perché? Perché la “sostanza” del sasso è materiale, mentre quella del suono non lo è; e poiché le sostanze immateriali (le qualità) non si possono percepire mediante gli organi di senso fisici, si tenta allora di ridurle all’effetto che producono nel mezzo che attraversano (alle “vibrazioni delle molecole dell’aria”): non si tenta, cioè (come si dovrebbe), di elevare la coscienza al livello del fenomeno, bensì di abbassare il fenomeno al livello della coscienza (di ricondurlo entro i limiti dell’ordinaria coscienza sensibile).
Istruttiva, al riguardo, è la seguente pagina, relativa alla Philosophia botanica di Linneo: “La “logica inesorabile” (Sten Lindroth) della Philosophia, che si articola forse deliberatamente in 365 aforismi, come se volesse costituire un breviario laico per la quotidiana ricerca scientifica, è alla base anche di questa fondamentale operazione linneana. Ebbene, può essere utile riflettere sulla circostanza che essa aveva portato alla costruzione di un sistema assai debole sotto molti profili, il quale tuttavia si impose facendosi forte proprio della sua debolezza. Come già i loro avversari, ben presto anche i linneani ammisero (è il caso, per esempio, del botanico Jean-Emmanuel Gilibert): 1) che il sistema linneano è “artificiale” e “non privo di difetti”. Per esempio – e si tratta di un esempio particolarmente imbarazzante – “il numero degli stami varia, talvolta, nei generi di una stessa classe”, mentre dovrebbe essere costante per definizione; 2) che accogliendo il sistema artificiale di Linneo si è costretti, anche dopo averlo emendato di tutti gli errori, “a frantumare non poche famiglie naturali e persino qualche genere”. Gilibert ammette in altri termini che la classificazione linneana non giunge sempre a riprodurre l’ordine della natura, ma spesso a sconvolgerlo; 3) e che pertanto, pur risultando il migliore di quelli artificiali, il sistema linneano è nettamente inferiore a quello “naturale” (perché fondato su molti caratteri) di Tournefort. Queste ammissioni non ebbero il carattere implosivo che ci si sarebbe potuti attendere. Invece di provocare una situazione di crescente incertezza nella philosophia linneana, ne determinarono anzi un processo di ulteriore consolidamento. Come fu presto chiaro che a dispetto di certe promesse essa conduceva a un sistema artificiale, così fu contemporaneamente altrettanto chiaro che ciò costituiva un grande vantaggio per la scienza botanica, e forse il vantaggio più importante. Gilibert se ne rese conto con grande lucidità: nonostante quello di Tournefort fosse più naturale, il sistema di Linneo andava indiscutibilmente preferito ad esso perché era “più uniforme nella sua articolazione”, ossia evitava di fornire troppi criteri per classificare i corpi (ciò che disorienta il naturalista) e forniva, molto più efficacemente, un solo parametro, la chiave per districarsi nel labirinto della natura. Il sistema sessuale era certamente un sistema artificiale (perché la sessualità è solo un aspetto della natura vivente) ma andava preferito proprio per questo: perché selezionandone un carattere era in grado di confrontare oggetti che, molto diversi per altri caratteri, sarebbero stati difficilmente confrontabili. Al pari di altri linneani Gilibert apprezza dunque, di questa operazione, il carattere fuorviante: e, in particolare, il fatto che grazie a essa la natura sembri una realtà molto più uniforme di quanto sia, come se per muoversi al suo interno fosse necessario, almeno per raggiungere certi obiettivi, trasfigurarla” (25).
Se si adotta, per muoversi all’interno della natura, un sistema “fuorviante” (tale cioè da “trasfigurarla” e “sconvolgerla”), non ci si muove più “all’interno della natura”, bensì all’interno di quell’intelletto che, essendo “natura morta”, è in grado d’intendere in giusto modo soltanto il piano di realtà che gli corrisponde (quello inorganico). Una cosa, del resto (come ricorda Steiner), è la logica razionale (quella aristotelica adottata da Linneo), altra la logica del reale (quella adottata da Goethe).
Quanti sono consapevoli, ad esempio, che quello che si trova illustrato nei libri di fisica e di chimica non è l’atomo, bensì un suo ipotetico e “ragionevole” modello, o una sua ipotetica e “ragionevole” rappresentazione? Il modo in cui se lo è figurato Sommerfield (1868-1951) è diverso da quello in cui se lo è immaginato Bohr (1885-1962), e questo è diverso, a sua volta, da quello in cui se lo era rappresentato inizialmente Rutherford (1871-1937). E i “modelli matematici” non sono anch’essi delle mere rappresentazioni?
Siamo franchi: nessuno sa, a tutt’oggi, che cosa o chi realmente ci sia laddove si dice che ci siano delle particelle elementari o dei quark (“Negli ultimi anni – scrive John D.Barrow – si sono accumulate con continuità prove a conferma dell’idea di Zweig e Gell-Mann che i protoni e i neutroni non sono particelle elementari. Negli esperimenti di diffusione (scattering) essi si comportano come se contenessero tre costituenti microscopici, che si manifestano attraverso la figura di diffusione che si presenta quando protoni e neutroni vengono bombardati. Però nessuno ha mai osservato uno di questi quark di cui è costituita tutta la materia”) (26). Fatto sta che laddove s’incontrano con queste forze tutti si limitano a figurarsi la presenza di una realtà alla quale, per un pregiudizio filosofico che ha ormai assunto il carattere di una vera e propria “fissazione” (in senso psicodinamico), attribuiscono natura materiale (lo riprova il fatto che nei rari casi in cui questo non avviene il materialismo assume un colore “mistico” e “orientaleggiante”, come, ad esempio, ne Il Tao della fisica di Fritjof Capra) (27). Einstein è ricorso, in proposito, a questa immagine: “Un archeologo di una civiltà futura trova un manuale della geometria euclidea senza figure. Egli comprenderà bene in che modo nei teoremi, sono usate le parole punto, retta, piano; si renderà anche conto del processo di deduzione di questi teoremi gli uni dagli altri e potrà anche stabilire nuovi teoremi secondo le regole conosciute. Ma la formazione dei teoremi resterà per lui un vano gioco di parole, fin tanto che non potrà figurarsi qualche cosa corrispondente alle parole punto, retta, piano, ecc. Soltanto allora la geometria avrà per lui un fondo reale. La stessa cosa avverrà con la meccanica analitica e in generale con le scienze logico-deduttive. Cosa intendiamo con l’espressione “potersi figurare qualche cosa?” riguardo alle parole “punto”, “retta”, “intersecazione”, ecc.? Significa rappresentarsi il contenuto dell’esperienza al quale corrispondono queste parole” (28).
Ma quale “contenuto dell’esperienza” (della percezione sensibile) corrisponde alle parole punto, retta, piano, ecc.? Esiste forse qualcuno che abbia visto con gli occhi (fisici) un punto, una retta o un piano geometrici? E si tratta poi di “parole” o di “concetti”? Sarebbe importante chiarirlo, giacché un conto è ricavare una immaginazione dal solo concetto, altro ricavare una rappresentazione dal concetto e dalla percezione sensibile.
Dice ancora Einstein: “Solo l’individuo libero può meditare e conseguentemente creare nuovi valori sociali e stabilire nuovi valori etici attraverso i quali la società si perfeziona. Senza personalità creatrici capaci di pensare e giudicare liberamente, lo sviluppo della società in senso progressivo è altrettanto poco immaginabile quanto lo sviluppo della personalità individuale senza l’ausilio vivificatore della società” (29). È vero: solo da una immaginazione creatrice possono scaturire nuovi valori sociali ed etici. Ma possono essere forse “creatrici” le rappresentazioni che, dipendendo dall’esperienza sensibile, sono vincolate al creato e al passato, e non al creare e al futuro? Certo, se si è convinti, da nominalisti, che un concetto non è che una “parola” (flatus vocis), è comprensibile che si senta allora il bisogno di colmarne la forma con un contenuto tratto dall’esperienza sensibile. Ciò però dovrebbe valere non solo per le parole punto, retta o piano, ma anche per le parole energia, atomo o quark. Ecco dunque come nasce quel realismo che Steiner (riferendosi a Schopenhauer, ma soprattutto a Eduard von Hartmann) definisce, ne La filosofia della libertà, “metafisico” (30).
A questo punto, ci si potrebbe anche domandare: e se tutto ciò fosse “artificiale” quanto il sistema di Linneo? E se riscuotesse successo perché consente, al pari di quello, un’affermazione (personale) del soggetto indagatore e non una rivelazione (scientifica) della realtà indagata? Non ci si lasci peraltro incantare dal fatto che da tali realtà sconosciute si siano ricavati degli effetti pratici (in non piccola parte però distruttivi). La differenza tra un “mago” e un “apprendista stregone”, come insegna la nota ballata di Goethe (31), risiede proprio nel fatto che il primo manipola forze che conosce e quindi domina, mentre il secondo manipola forze che non conosce e quindi non domina.

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Di Lucio Russo
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