Scrive Boncinelli: “Occorre notare che il sostantivo “incidente” che compare nell’espressione “incidente congelato” sta a indicare semplicemente un evento accidentale e non ha nessuna connotazione negativa: non si tratta in sostanza di una disavventura. Gli incidenti congelati non sono disavventure o sbagli. Se fossero stati sbagli non si sarebbero congelati, cioè perpetuati, perché la pressione selettiva non lo avrebbe consentito. In fondo, due esempi di incidenti congelati possono essere considerati anche la comparsa del linguaggio o dell’autocoscienza. È pensabile infatti che entrambe queste facoltà siano comparse per caso durante la nostra evoluzione, magari come sottoprodotti di altri fenomeni biologici più importanti per l’adattamento e la perpetuazione della specie”; e aggiunge: “Non vogliamo dare però l’impressione che tutto nel mondo vivente si sia sviluppato per caso” (47). Sarà, ma poco dopo, per spiegare il “meccanismo” dell’evoluzione biologica, torna ad appellarsi al “caso”. Tale teoria – spiega infatti – “si articola su due affermazioni fondamentali. In base alla prima, tutti i viventi hanno origine da antichissimi antenati comuni, mentre, in base alla seconda, le varie categorie di organismi si sono evolute e differenziate fra di loro prevalentemente a opera della selezione naturale”. Tuttavia – aggiunge – “non ha molto senso applicare questa teoria ai primissimi eventi all’origine della vita sulla Terra e nemmeno, probabilmente, agli eventi che hanno portato alla formazione delle prime grandi suddivisioni del regno animale e di quello vegetale. Ma da quel punto in poi, vale a dire per tutti gli ultimi 500 o 600 milioni di anni, è stata la selezione naturale a creare, modellare e rimodellare le specie viventi. Il meccanismo è molto semplice. All’interno di una data popolazione già ben stabilita nascono ogni tanto individui un po’ diversi, perché nel loro patrimonio genetico si è prodotta casualmente un’alterazione, chiamata più propriamente mutazione […] Alla base dell’evoluzione degli organismi viventi stanno quindi due ordini di fenomeni: la comparsa casuale di nuove mutazioni, cioè di nuovi patrimoni genetici, e la selezione operata, questa volta in maniera direzionale e quindi non casuale, dall’ambiente cioè dalla selezione naturale. Essa sfrutta in sostanza le novità create dal caso, eliminando inesorabilmente quelle che a suo insindacabile giudizio sono nocive e promovendo quelle utili” (48).
Scrive invece Steiner: “La concezione darwiniana suppone che gli influssi esterni agiscano sulla natura di un organismo come cause meccaniche, e come tali lo modifichino. Per Goethe, invece, le singole modificazioni sono estrinsecazioni diverse dell’organismo primordiale, il quale ha in sé la facoltà di assumere molteplici aspetti, e in un caso determinato assume quello che risulta più appropriato alle condizioni ambientali” (49).
Riassumiamo: secondo Darwin, la mutazione di un organismo è un diretto effetto dell’azione dell’ambiente; secondo Goethe, è una reazione del “tipo” a tale azione; secondo Boncinelli (e tutti i neodarwiniani), è un prodotto del caso (che l’ambiente provvede poi a bocciare o promuovere). Ebbene, quale differenza c’è tra la tesi dei neodarwiniani e quella di Goethe? Solo questa: che la prima assegna al caso lo stesso ruolo che la seconda assegna alla realtà extrasensibile del tipo. Nel contesto del neodarwinismo, il caso è chiamato dunque a svolgere il ruolo del deus ex machina, se non addirittura di quel “Demiurgo” di cui parlavano Socrate, Platone, i neoplatonici e gli gnostici. Non si tratta, quindi, che di uno dei tanti “atti di fede” degli uomini “senza fede”.
(Paolo Flores d’Arcais [promotore appunto di un’“etica senza fede”], nel corso di un dibattito con il cardinale Joseph Ratzinger, ha detto: “Se per fede si intende una credenza religiosa, credo che si possa vivere senza” [50]. Si tratta però dello stesso Flores d’Arcais che, nel suo L’individuo libertario, ha scritto: “Sappiamo tutto, inutile baloccarsi. Quello che è stato e quello che è, e che tutto poteva essere diversamente. E che sapremo quello che ancora non sappiamo. Ogni dettaglio, dalla galassia al neurone. E che quello che ancora non sappiamo non inciderà sull’essenziale” [51]. Ebbene, non è questo un “atto di fede”? La verità è un’altra: anche i materialisti hanno un Dio. Duole, tuttavia, che sappiano rappresentarselo solo nelle misere fattezze del caso [“Tu somigli – si dice nel Faust – allo spirito che comprendi”].)
Scrive Boncinelli: “Oggi si è in grado di produrre in laboratorio ceppi di topolini a cui dovrebbe mancare questa o quella funzione perché si è eliminato artificialmente questo o quel gene. Sono gli animali cosiddetti transgenici, molti dei quali sopravvivono a questa operazione, ma talvolta non presentano alcun difetto” (52).
Non è facile spiegare un fatto del genere se si parte dal presupposto che l’informazione risiede nei geni “strutturali” e “regolatori”. Si replica qui quanto accaduto, a suo tempo, con i batteri e i virus. Prima si è creduto che le malattie infettive fossero diretta conseguenza della presenza di tali esseri nell’organismo, poi si è scoperto che tale presenza non sempre determina una patologia. Che cosa si è fatto allora? Si è preso a parlare di “portatori sani”, evitando così l’onere di rivedere la precedente convinzione. E che cosa fa Boncinelli di fronte al dato che ha riferito? Prende a parlare di “sovradeterminazione”, andando così a scomodare un termine usato da Freud nel quadro dell’interpretazione dei sogni. “Con questo termine, ripreso dalla teoria freudiana dei processi psichici, – dice appunto – si deve intendere il fatto che lo stesso obiettivo biologico può essere spesso raggiunto attraverso meccanismi di controllo plurimi e concorrenti, ciascuno dei quali è in una certa misura in grado di sopperire a un’eventuale disfunzione degli altri” (53).
Ma è plausibile che i “meccanismi di controllo plurimi”, in quanto “concorrenti” (“concorrente” – recita lo Zingarelli – è “chi partecipa a un concorso, a una gara”), si contendano le funzioni del gene eliminato? O non è più probabile che sia l’essenza dell’organismo (quella che ci si ostina a ignorare) che una volta privata di una delle sue parti cerchi di assolvere alle proprie funzioni servendosi come può delle altre?
Boncinelli, parlando d’“informazione”, parla dei “sistemi complessi”. Ma come un’informazione non è che un pensiero morto, così un “sistema complesso” non è che un “sistema morto”. Che cosa intendiamo per “morto”? Lo spiegheremo con un esempio. Immaginiamo di guardarci in uno specchio. Una cosa siamo noi che ci guardiamo, altra lo specchio in cui ci guardiamo, altra ancora la nostra immagine riflessa (che guardiamo). Noi siamo esseri vivi, mentre lo specchio e l’immagine riflessa sono esseri morti (si dovrebbe distinguere, è vero, l’essere “morto” dello specchio dal “non-essere” dell’immagine, ma poiché questo complicherebbe le cose, ci limitiamo qui a porre, da un lato, ciò che si rispecchia e, dall’altro, lo specchio e il rispecchiato). Una cosa quindi è il pensiero (che si riflette), altra il cervello (in cui si riflette) e altra ancora la rappresentazione (l’immagine riflessa ). Se si facesse una distinzione del genere, si realizzerebbe che parlare di “sistema complesso” significa parlare del cervello (della neocorteccia) e che parlare di “informazione” significa parlare di rappresentazione (“Il computer e le tecnologie delle telecomunicazioni – scrive Jeremy Rifkin – sono, come hanno sottolineato il teorico dei media Marshall McLuhan e altri, un’estensione del sistema nervoso umano al mondo. Sono delle proiezioni meccaniche della mente umana in ogni angolo e in ogni fessura della realtà”) (54).
Scrive Boncinelli: “Trasmettere un segnale lungo una linea di comunicazione senza distorsioni e senza attenuazioni non è un’impresa da poco. L’uomo se n’è reso conto soprattutto in questo secolo e ha inventato una grande quantità di trucchi tra cui spicca la digitalizzazione, la trasformazione cioè di un segnale continuo in una sequenza di segnali unitari standard di forma ed entità predeterminate” (55).
E’ in virtù di questo “trucco” che l’intelletto trasforma il “segnale continuo” del pensare (precosciente) nella “sequenza discreta” delle rappresentazioni (coscienti). Si tratta pertanto di un processo che non riguarda la coscienza tout-court, bensì soltanto il livello (detto, da Steiner, “oggettivo” o “materiale”) al quale è legata al sistema neurosensoriale (basta infatti scendere al livello della coscienza di sogno per osservare che qui il “segnale” è continuo, e non discreto. Ove poi si sviluppasse il primo grado della conoscenza superiore, detto da Steiner, “immaginativo”, si constaterebbe la stessa cosa) (56).
Scrive Boncinelli: “La natura ha inventato molto prima di noi la codificazione e la digitalizzazione, anche nel contesto dell’impulso nervoso. Un segnale nervoso non trasformato in impulsi nervosi standard non andrebbe molto lontano senza indebolirsi e distorcersi pericolosamente. Un segnale elettrico anche molto ampio si andrebbe attenuando molto rapidamente percorrendo un assone, che ha di per sé una resistenza elettrica altissima, anche dieci milioni di volte più alta di quella di un cavo metallico, e si distorcerebbe irreparabilmente. Per ovviare a questi possibili inconvenienti il segnale nervoso viene invece preventivamente convertito in un certo numero di impulsi nervosi standard che si propagano spostandosi lungo l’assone anche per decine di centimetri”; e così conclude: “La natura ha inventato la digitalizzazione molto prima dell’informatica, senza utilizzare valvole o transistor, ma impiegando qualcosa di molto simile a una serie di circuiti integrati capaci di oscillare fra due stati, quello acceso o quello spento, che possiamo anche chiamare stato 1 o stato 0” (57).
Non è il “segnale nervoso”, ma lo “stimolo” (una modificazione dell’ambiente), a essere trasformato in “impulsi nervosi standard”. Le terminazioni nervose (degli organi di senso) accolgono lo stimolo e lo trasformano in impulso nervoso. Non è quindi il segnale nervoso a essere trasformato in “impulsi nervosi standard”, ma sono gli “impulsi nervosi standard” a costituire il segnale nervoso. Come Mida aveva la capacità di trasformare tutto ciò che toccava in oro, così il sistema nervoso trasforma tutto ciò che lo stimola in “sequenza” o in realtà “discreta”. La natura “digitalizza” dove si dà come nervo, ma non dove si dà come sangue: non digitalizza dove vive, ma dove muore. Digitalizza dunque l’uomo dei nervi (quello del rappresentare), ma non digitalizzano l’uomo del respiro e della circolazione (quello del sentire) e l’uomo metabolico e degli arti (quello del volere). Boncinelli riduce invece l’uomo del sentire e quello del volere all’uomo del rappresentare, e considera questo uno “psicozoo”: ovvero, un animale “dotato di mente” (58) che il caso ha reso autocosciente.
Scrive Jorge Volpi: “Se, d’accordo con il Teorema di Godel, qualunque sistema assiomatico contiene proposizioni indecidibili; se, d’accordo con la relatività di Einstein, non esistono più lo spazio e il tempo assoluti; se, d’accordo con la fisica quantistica, la scienza è solo in grado di offrire vaghe e casuali approssimazioni del cosmo; se, d’accordo con il principio di indeterminazione, la causalità non serve più a predire con certezza il futuro; e se gli individui possono accedere solo a verità parziali, individuali, allora tutti noi che siamo stati modellati con la stessa materia degli atomi, siamo fatti d’incertezza” (59). La stessa cosa potrebbe essere detta così: se si lascia convincere da Godel, Einstein, Planck, Heisenberg e Kant, l’uomo dei nervi cade nell’“incertezza”, deprimendo così l’uomo del sentire e paralizzando quello del volere. Ma se fosse proprio questo, ci potremmo domandare, il vero scopo dello spirito che guida occultamente l’odierna ricerca scientifica?
Ricordiamo che fu l’uomo del volere, cioè l’uomo dell’“anima senziente” (del mito) a guidare anticamente quelli del sentire e del pensare, e che è stato l’uomo del sentire, cioè l’uomo dell’“anima razionale-affettiva” (della filosofia) a guidare poi gli altri due. Con l’avvento della “modernità”, è stato invece l’uomo del pensare a rilevare la guida di quelli del sentire e del volere. E chi è l’uomo del pensare? È quello dell’“anima cosciente”, della scienza e dell’autocoscienza (egoica): ovvero, un uomo che si àncora, da un lato, alla matematica (alla più pura espressione dell’essere quale forma) e, dall’altro, alla percezione sensibile (all’essere quale forza). Si àncora alla percezione sensibile perché il pensare o l’essere della forma, dandosi il volere (così come il sentire) “fuori” del pensare stesso, gli si presenta come un non-essere. Si rilegga, in questa luce, il seguente e celebre passo di Galilei: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intendere la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto” (60).
A partire circa dalla seconda metà del secolo XIX, di fronte all’uomo del pensare o della cosiddetta “libertà da”, ch’è libertà dal sentire e dal volere, e quindi dalla natura personale, si sono aperte due opposte vie: una che ha il potere, riportando il volere e il sentire nel pensare, di riscattare l’egoismo in cui sono nel frattempo caduti (poiché separati dalla universalità del pensare) il sentire e il volere; l’altra che ha viceversa il potere di esacerbare sempre più l’egoismo fino al punto di condurlo, come preconizzato da Steiner, alla “guerra di tutti contro tutti”. Non è vero, dunque, che la scienza non ha nulla a che fare con il sentimento (con il bello) e con la volontà (con il bene); è vero, invece, ch’è il suo attuale modo di pensare (materialistico) che va sempre più corrompendo il sentire e il volere, e quindi l’essere umano.