Il cervello, la mente e l’anima (6)

I

Scrive Boncinelli: “Queste idee non si sarebbero mai affermate e non avrebbero avuto la risonanza che hanno avuto se nello stesso tempo non si fosse andata sviluppando un’altra rivoluzionaria disciplina di origine matematico-ingegneristica, chiamata Scienza dell’informazione o, più spesso, Teoria dell’informazione, la quale si ripropose fin dall’inizio di fornire una definizione scientificamente accettabile del concetto di informazione. Partendo dall’analisi di processi quali la codificazione, la decodificazione e la trasmissione di messaggi la nuova scienza ci ha fornito una trattazione rigorosa e quantitativa dell’informazione che è stata in grado di render conto delle trasformazioni cui va incontro una certa quantità di informazione in tutti quei fenomeni, naturali o artificiali, in cui è implicata” (61).
Come si vede, il biologo (lo “scienziato della vita”) fa sua, e con un certo entusiasmo, quella mentalità “matematico-ingegneristica” che sa valutare le cose solo dal punto di vista quantitativo. Ma lo fa – domandiamoci – perché è la vita (cioè l’oggetto di quella che dovrebbe essere la sua scienza) a richiederlo, o lo fa perché è l’unica cosa che sa fare?

Scrive Boncinelli: “Per sopravvivere, gli organismi viventi hanno bisogno di un continuo rifornimento di informazione, che ricavano dal cibo e in ultima analisi dai raggi del sole, e che utilizzano almeno in parte per mantenere la propria organizzazione interna. Più che di energia essi – veri e propri informivori – si nutrono infatti di informazione, che hanno imparato a immagazzinare e a trattenere il più a lungo possibile” (62).
Ma le informazioni che il soggetto A e il soggetto B ricavano da uno stesso cibo, una volta assimilate, diventano, nel primo, informazioni di qualità A e, nel secondo, informazioni di qualità B. In ciascuno dei due opera infatti una forza in grado di elaborare, trasformare e individualizzare le informazioni. Una cosa, dunque, è l’informarsi o il mangiare, altra l’informazione o il cibo; e come il cibo non viene semplicemente “immagazzinato” e “trattenuto il più a lungo possibile”, bensì in parte assimilato e in parte eliminato, così l’informazione viene in parte ricordata e in parte dimenticata. Il che significa che l’uomo non vive nel cibo e nelle informazioni, bensì nel processo che li elabora. Non tanto importa, quindi, l’informazione quanto l’uso che se ne fa, poiché è questo a rivelare il chi ne fa uso. Ciò potrebbe peraltro spiegare anche cose che risultano, a detta di Boncinelli, attualmente incomprensibili. “Non si spiega – dice ad esempio – perché gli esseri umani abbiano un genoma di grandezza paragonabile, quando non inferiore, a quello di molti ranocchi e tritoni in circolazione. La situazione si fa ancora più sconcertante quando si considera che i genomi dell’uomo e dello scimpanzé non solo hanno le stesse dimensioni, ma si assomigliano al 99%” (63). La situazione non risulterebbe affatto “sconcertante” se si riconoscesse, in quanto non condizionati dal materialismo, che tali dati stanno a significare che la differenza tra la forma dell’uomo e quella degli scimpanzé non dipende dal genoma. Asserire invece, come fa Boncinelli, che “non si spiega” il perché “i genomi dell’uomo e dello scimpanzé non solo hanno le stesse dimensioni, ma si assomigliano al 99%” equivale in qualche modo ad asserire che non si spiega il perché il chihuahua e l’ippopotamo abbiano entrambi quattro zampe o il perché Mozart sia stato Mozart o Manzoni sia stato Manzoni, dal momento che l’uno disponeva delle stesse note e l’altro delle stesse consonanti e delle stesse vocali di cui dispongono tutti gli altri esseri umani.
Abbiamo detto che le informazioni che il soggetto A e il soggetto B ricavano da uno stesso cibo diventano, nel primo, informazioni di qualità A e, nel secondo, informazioni di qualità B. Dice però Boncinelli: “La possibilità teorica che l’informazione abbia anche una qualità, che si potrà pensare a guisa di una “rilevanza”, di una “utilità” o di una “pregnanza semantica”, non può essere esclusa e si presenta anzi come un’ipotesi affascinante, anche se, in quanto non verificabile, esula per il momento dall’ambito scientifico” (64).
Per quale ragione una “qualità” non possa essere pensata come una “qualità”, ma debba essere pensata come una “rilevanza”, un’“utilità” o una “pregnanza semantica”, è un mistero. È giustificato pertanto il sospetto che siffatti espedienti verbali servano a esorcizzare quel senso di paura, se non di panico, che attanaglia la mentalità “matematico-ingegneristica” quando viene a trovarsi a tu per tu con la realtà animico-spirituale (“Se si dovesse descrivere la motivazione più profonda del materialismo, – scrive Searle – si potrebbe affermare che essa è semplicemente un terrore della coscienza”) (65). Dice Boncinelli che l’esistenza della qualità “non può essere esclusa”, ma, “in quanto non verificabile, esula per il momento dall’ambito scientifico”. Ma che cosa ci sia di “scientifico” nel procedere a una verifica quantitativa della qualità è un altro mistero. Fatto sta che non è la qualità a esulare “per il momento dall’ambito scientifico”, ma è l’“ambito scientifico” a esulare per il momento dalla qualità. Come potrebbe, del resto, un “uomo senza qualità” (Musil) produrre una “scienza della qualità”: ossia una scienza della vita, dell’anima e dello spirito?
Che cosa penseremmo se una maggioranza di sordi pretendesse da una minoranza di udenti che le venisse dimostrata la realtà del suono mediante la vista? E che cosa penseremmo se questa maggioranza di sordi, non ottenendo soddisfazione, si sentisse in diritto di affermare che l’esistenza del suono, benché non la si possa teoricamente escludere, non è verificabile, e quindi estranea all’ambito scientifico? La scienza, piaccia o meno, non è democratica: non è questione, cioè, di maggioranze e minoranze. Qualcuno riesce forse a immaginare quel che sarebbe a suo tempo accaduto se si fosse indetta una “consultazione popolare” per stabilire se avesse ragione Tolomeo oppure Copernico?
Resta comunque il fatto che la scienza dello spirito, come sanno quanti la conoscono, è in grado di comprendere, accogliere e integrare la scienza della materia, mentre la scienza della materia, in quanto “materialistica” (non “della materia”), non è in grado di comprendere, accogliere e integrare la scienza dello spirito.

Scrive Boncinelli: “La libertà degli individui di una data specie nasce dalla complessità dei loro circuiti regolativi, in particolare nervosi, che sottendono le loro scelte comportamentali. Quando, nel corso dell’evoluzione, questi circuiti hanno raggiunto livelli molto avanzati di complessità non è stato più possibile per il patrimonio genetico di ogni singolo individuo controllarne tutti i possibili aspetti. Il genoma si è riservato il controllo di alcune risposte fondamentali, necessarie per la sopravvivenza, e ha organizzato le cose in modo tale che gli spazi lasciati liberi dal controllo biologico codificato nel genoma potessero essere occupati dagli effetti dell’interazione fra biologia e ambiente, ambiente nel quale l’organizzazione sociale a cui l’organismo appartiene diviene una parte sempre più predominante. La libertà quindi è il prodotto di una certa quantità di indeterminazione biologica che emerge insinuandosi fra le maglie del controllo esercitato dal patrimonio genetico, anche se è comunque permessa e sostenuta da quello. La nostra libertà è un regalo, o un dispetto, del nostro patrimonio genetico e del suo alto grado di articolazione” (66).
Ci si creda, non ricaviamo alcun piacere (anzi!) dal muovere le presenti obiezioni, né vorremmo mancare in alcun modo di rispetto a uno studioso del valore e del prestigio di Boncinelli. Ma come si fa, d’altro canto, a prendere sul serio un simile discorso sulla libertà? Eccone infatti il succo: quando i circuiti nervosi sono diventati, nel corso dell’evoluzione, troppo complicati, il patrimonio genetico non ci si è più raccapezzato e ha deciso allora di conservare il controllo di alcune risposte fondamentali, lasciando le altre nella mani della “indeterminazione” e della “interazione fra biologia e ambiente”.
Se ne deduce che se il patrimonio genetico fosse stato meno “pigro” e più “sagace”, non ci avrebbe fatto il “dispetto” o il “regalo” della libertà. A chi poi sia stato fatto questo “dispetto” o “regalo” non è chiaro. All’individuo? È possibile. In questo caso, però, ci sarebbe da chiarire se l’individuo (in sé) sia o non sia e, se sia, che cosa sia o, per meglio dire, chi sia. È difficile tuttavia pensare che il destinatario del “dispetto” o del “regalo” della libertà sia l’individuo quando si legge ciò che scrive Boncinelli riguardo al viaggio compiuto dallo stimolo sensoriale per arrivare al cervello: “Il nostro cervello ha ricevuto il messaggio. Può allora decidere di agire subito o di soprassedere e riflettere sul da farsi. Se prende la seconda decisione il segnale comincerà a vagare in maniera apparentemente erratica per la corteccia cerebrale, passando per aree corticali che non sono né puramente ricettive né puramente motorie, ma piuttosto associative e che costituiscono la parte più cospicua della corteccia stessa (…) Alla fine verrà comunque presa una decisione e si passerà all’azione” (67).
A pensare e agire non sarebbe dunque l’individuo, bensì il cervello (non si può dire il “suo” cervello, giacché un “possessivo” presuppone un “possessore”). Ma se fosse così, chi sarebbe allora, ci potremmo anche domandare, l’autore del libro di cui ci stiamo occupando? L’Io di Boncinelli? È da escludere, in quanto l’Io, quale realtà a sé, non esiste; allora il cervello di Boncinelli? Non proprio, giacché Boncinelli non ha un cervello, ma è un cervello. Come si vede, non rimarrebbe altro da dire se non che l’autore del libro è un cervello al quale è stato dato il nome di Edoardo Boncinelli. Ma se fosse così, si dovrebbe allora dire non ch’è stato il patrimonio genetico a lasciare il controllo di molte risposte alla “indeterminazione” e alla “interazione fra biologia e ambiente”, ma ch’è stato il cervello, approfittando della complicazione dei circuiti nervosi e del conseguente smarrimento in cui è caduto il patrimonio genetico, a scippargli tale controllo e a impossessarsene.
Sarebbe comunque meglio, in un contesto del genere, non parlare affatto della libertà. Ma se proprio si volesse farlo, si dovrebbe cominciare col domandarsi: è il genoma ad aver organizzato le cose in modo tale da creare degli spazi liberi dal controllo biologico o non è stato l’individuo o l’Io (l’essere stesso della libertà) a organizzare le cose in modo tale da riservarsi l’uso e la gestione di tali spazi?

Scrive Boncinelli: “Passando dalle scimmie superiori all’uomo, la materia grigia della corteccia non è sostanzialmente aumentata di spessore ma ha enormemente accresciuto la propria superficie e acquisito tutta quella ricchezza di circonvoluzioni tipica della nostra specie” (68).
“La funzione – afferma Lamarck – sviluppa l’organo”. Ebbene, se la funzione del cervello è il pensare, non sarebbe più corretto affermare che l’uomo ha un cervello così ricco di circonvoluzioni perché pensa, e non che pensa perché ha un cervello così ricco di circonvoluzioni? Boncinelli non è d’accordo, e scrive: “Quando il cervello dell’uomo non si è più potuto materialmente espandere perché ciò avrebbe messo a repentaglio la sua vita o la sua capacità di riprodursi, si sono espansi i suoi correlati astratti, cioè la mente e il pensiero” (69).
Noi pensavamo che il cervello, in quanto risultato di una metamorfosi (ascendente) del midollo, si fosse sviluppato a danno (per così dire) soltanto del midollo stesso, ma che si fosse per il resto accresciuto in costante armonia con il tutto, e in specie con il volume della scatola cranica che lo ospita. Evidentemente sbagliavamo. Saremmo però curiosi di sapere in quale preciso momento il cervello abbia deciso di arrestare la propria espansione materiale, essendosi accorto che rischiava di sfondare la scatola cranica e di mettere così “a repentaglio la sua vita o la sua capacità di riprodursi”.

Scrive Boncinelli: “Le sensazioni sono stimoli fisici o chimici che vengono trasformati in segnali nervosi dagli organi di senso”, e poco dopo aggiunge: “Le sensazioni derivano da stimoli fisici o chimici, ma è il caso di ricordare che non tutti gli stimoli ambientali divengono sensazioni” (70).
Boncinelli chiama “sensazioni” quelle che Steiner chiama “percezioni sensibili”. Il che non aiuta, come sa chi conosce La filosofia della libertà, a chiarire le cose. Per di più, prima dice che le sensazioni sono stimoli fisici o chimici e poi, invece, che derivano da stimoli fisici o chimici. Nel primo caso, sapendo che cos’è uno stimolo fisico o chimico si saprebbe pure che cos’è una sensazione, mentre nel secondo, sapendo che cos’è uno stimolo fisico o chimico non si saprebbe ancora che cos’è una sensazione; solo nel secondo di questi casi, quindi, avrebbe senso ricordare, come fa Boncinelli, che “non tutti gli stimoli ambientali divengono sensazioni”.
Prendiamo, ad esempio, il miagolio di un gatto come contenuto di percezione, e osserviamo che questo, in quanto attraversa un mezzo (l’aria), si presenta agli organi di senso (alle orecchie) come uno stimolo (come una vibrazione); questo viene poi trasformato dai recettori sensoriali in un impulso nervoso che raggiunge in ultimo il cervello. Qui, come ci ha insegnato Boncinelli, l’iniziale e unitario contenuto di percezione si presenta “codificato”: ossia in forma “discreta” o “analitica”. “Gli eventi cerebrali – scrive John Eccles – rimangono disparati, poiché essi sono essenzialmente i singoli effetti di innumerevoli neuroni che sono organizzati in moduli ed entrano così a far parte degli schemi spazio-temporali di attività. Gli eventi cerebrali non forniscono alcuna spiegazione della nostra esperienza più comune, ovvero il mondo visivo osservato come un’entità globale, momento per momento” (71).
Abbiamo seguito tutto il tragitto (afferente) compiuto dal contenuto della percezione per arrivare al cervello, ma non abbiamo incontrato la sensazione. Non l’abbiamo incontrata, perché la sensazione non rappresenta un fatto del corpo (“senziente”), bensì dell’anima (“senziente”): perché rappresenta, cioè, il modo in cui l’anima sperimenta, al più basso dei suoi livelli (di coscienza), il contenuto della percezione. Non possiamo qui illustrare, per ovvie ragioni, l’intero processo che trasforma lo stimolo iniziale nell’immagine percettiva finale, ma siamo certi che quanto detto basta a dar conto della confusione che regna oggi al riguardo. Tale confusione dipende soprattutto da due circostanze: 1) dal fatto che il contenuto o l’oggetto della percezione viene identificato con lo stimolo (come fa Boncinelli quando parla del “suono” come di una “vibrazione delle molecole dell’aria”); 2) dal fatto che il “decodificatore” (il soggetto che effettua la sintesi degli “eventi cerebrali disparati”) viene identificato (come fa sempre Boncinelli) con il cervello. Vengono in questo modo rimossi (in senso psicodinamico), da una parte, l’oggetto e, dall’altra, il soggetto. Di rimuovere il primo si occupa in primo luogo la fisica, mentre di rimuovere il secondo si occupano in primo luogo le neuroscienze.
Fatto si è che i “fisici teorici” sono ormai diventati degli inconsapevoli “metafisici” interamente dediti, in virtù della cosiddetta “mente computazionale”, a calcolare o a “dare i numeri” (racconta il già citato Volpi: “Bacon [uno dei protagonisti del suo romanzo] faceva parte, come Einstein, del gruppo dei fisici teorici. Fin da quando si era manifestata la sua precoce passione per la matematica pura aveva fatto il possibile per tenersi a distanza dalle questioni concrete, concentrandosi su formule ed equazioni che sembravano sempre più astratte e alle quali, in molti casi, era a stento possibile associare una spiegazione reale” (72). Lo stesso Einstein, riferisce ancora Volpi, “per poter meditare scientificamente su ipotesi che, diversamente, non avrebbe potuto verificare, mise spesso in pratica un metodo di lavoro che chiamò Gedankenexperiment o “esperimento mentale””) (73).
Non si dimentichi che la scienza attuale è soprattutto alle prese non con la realtà, ma con la misurazione della realtà o, per meglio dire, con ciò che si presta, dell’intera realtà, a essere compreso mediante la misura. Dal punto di vista della scienza dello spirito, tale stato di cose rappresenta, in quanto effetto di una “regressione” (in senso psicodinamico) all’anima razionale-affettiva, un fenomeno “morboso” (sempre Volpi, dell’Istituto di studi avanzati di Princeton in cui aveva insegnato anche Einstein, dice: “Princeton sembrava uno zoo di manie, ossessioni, nevrosi. Uno psicanalista sarebbe impazzito”) (74).

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Di Lucio Russo
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