Il cervello, la mente e l’anima (7)

I

Scrive Boncinelli: “Se consideriamo gli organismi viventi come macchine metaboliche, prevalentemente impegnate a produrre e consumare energia, non si comprende la necessità di tutta questa codificazione, ma se li consideriamo nella loro giusta luce di elaboratori e utilizzatori di informazione tale sorta di trucchi ci appare di importanza fondamentale se non addirittura indispensabile” (75).
Gli organismi viventi sarebbero dunque delle “macchine metaboliche” o degli “elaboratori e utilizzatori di informazione” (e perché non anche delle “macchine respiratorie”?). E se si trattasse invece delle parti, funzionalmente differenziate (metabolica, ritmica e neurosensoriale), in cui un organismo vivente si articola? Certo, se così fosse, non si potrebbe continuare a identificare l’organismo con una delle sue parti (a seconda delle preferenze personali), ma si dovrebbe pensarlo come un insieme o un’entità extrasensibile. Ma che ne sarebbe, in questo caso, di quella mentalità “matematico-ingegneristica” che si compiace di parlare, ogni volta che può, di “macchine” e di “meccanismi”?

Scrive Boncinelli: “Che cosa succede quando mangiamo una pesca? Che cosa significa sentire il sapore della pesca, dell’arancia o della pera? Ogni sapore, qualunque sia la sua natura intrinseca, viene percepito dalle papille gustative della lingua e dai recettori sensoriali presenti in tutto il cavo orale e immediatamente classificato sulla base di quattro parametri fondamentali che possiamo definire approssimativamente come il suo grado di dolcezza, di salinità, di acidulità e di amarezza. La ragione di questa scomposizione dello stimolo gustativo è da ricercarsi nel fatto che noi possediamo quattro tipi di recettori diversi ciascuno dei quali è particolarmente sensibile a uno dei quattro parametri e si eccita proporzionalmente al valore di quello specifico parametro” (76).
Quando diciamo che una pesca è “di qualità”, non alludiamo forse al suo sapore? Ma che cosa vuol dire che il sapore di una pesca è “di qualità”? Semplicemente questo: che ha la qualità della pesca. Il che vuol dire che la pesca è già una qualità e che il suo sapore non fa che trasmetterla. La qualità (in ossequio alla regola del similia similibus) può essere apprezzata solo dalla qualità. I recettori, come abbiamo visto, non possono far altro che trasformare gli stimoli gustativi in impulsi nervosi che vengono poi inviati al cervello. Tanto i recettori che il cervello non sanno nulla della dolcezza, della salinità, dell’acidulità e dell’amarezza. Non ne sanno nulla perché gli impulsi nervosi devono essere ancora decodificati; e il processo di decodificazione (ossia, di coscienza) comincia solo con la sensazione, quando vengono sperimentati dall’anima senziente . Che cosa sono, del resto, la dolcezza, la salinità, l’acidulità e l’amarezza se non appunto delle sensazioni?
Boncinelli sostiene che sarebbero “un paio di regioni della corteccia cerebrale” a integrare “i vari segnali” e a darci “il sapore della pesca, dell’albicocca o di qualsiasi altra cosa si stia mangiando o assaggiando”. Ci siamo dunque sbagliati? No, perché lo stesso, subito dopo aver fatto quest’affermazione, dice: “Qui si passa da una serie di eccitazioni nervose, che possiamo chiamare collettivamente un neurostato, a una sensazione di origine centrale, che possiamo chiamare uno psicostato. Per essere più precisi abbiamo un primo neurostato a livello del nucleo solitario, un secondo neurostato a livello del nucleo talamico e un terzo neurostato a livello della corteccia. In quest’ultima sede, magicamente, al neurostato corticale viene associato uno psicostato. Non siamo in grado per il momento di comprendere quello che succede nell’ultimo passaggio, che per altro non potrà essere di natura puramente biologica, ma possiamo rivolgere la nostra attenzione alle relazioni fra i tre neurostati che lo precedono e che lo hanno causato” (77).
Da persona “scientificamente beneducata”, Boncinelli non usa la parola “anima”, ma quella di “psicostato”, e si limita a dire, dell’“ultimo passaggio” (di quello che porta dal corpo all’anima), che “non potrà essere di natura puramente biologica”. Pur di non dire, poi, che la sensazione (lo psicostato) rappresenta il modo in cui l’anima sperimenta il neurostato, arriva addirittura a dire che l’uno si associa all’altro “magicamente”. C’è anche da rilevare che Boncinelli parla qui della sensazione come di uno psicostato (di “origine centrale”), mentre ci aveva spiegato, in un precedente passo, che le sensazioni sono stimoli fisici o chimici e, in un altro, che derivano da stimoli fisici o chimici. Così comunque conclude: “Non siamo in grado per il momento di comprendere quello che succede nell’ultimo passaggio (…) ma possiamo rivolgere la nostra attenzione alle relazioni fra i tre neurostati che lo precedono e che lo hanno causato”. Il che significa che uno “psicostato”, benché sia il risultato di un “passaggio” di natura non “puramente biologica”, va considerato “causato” da “i tre neurostati che lo precedono”: ossia effetto, più o meno effimero, di realtà sensibili.
Abbiamo detto, all’inizio, che una cosa sono i dati della ricerca scientifica, altra la loro interpretazione, e quindi le “teorie”. I dati, in quanto percepiti (reali), sono oggettivi, mentre le teorie, in quanto pensate (ideali), sono soggettive: sono tali (mere opinioni) in quanto ipotecate (più o meno inconsciamente) da preconcetti ideologici o da fattori psichici (simpatie e antipatie). Dice in proposito Goethe: “Non ci si guarderà mai abbastanza dal trarre da esperimenti conclusioni affrettate; giacché è appunto al passaggio dall’esperienza al giudizio, dalla conoscenza all’applicazione, che, come a una stretta, tutti i nemici segreti dell’uomo stanno in agguato; fantasia, impazienza, precipitazione, arroganza, caparbietà, forma mentis, preconcetti, pigrizia, leggerezza, volubilità, o come si vogliano altrimenti chiamare questi nemici con tutto il loro seguito, ci aspettano al varco, e inopinatamente sopraffanno sia l’attivo uomo di mondo, sia lo studioso pacato e apparentemente alieno da passioni” (78).
Il solo pensare che una teoria possa essere non meno oggettiva o reale dei dati, sembra oggi un’assurdità. Non era così però per Goethe e per tutti coloro che hanno avuto modo, al pari di Steiner, di riflettere con profondità sulle sue opere scientifiche. Osserva ad esempio Bruno Maffi: “Da una visione del mondo che è insieme partecipazione poetica e presa di possesso razionale partono i grandi fasci di luce che lo guidano nella selva “delle esperienze e degli esperimenti”, ma l’idea non si sovrappone meccanicamente ai fatti; se ne nutre, si sviluppa e si articola a contatto col mondo reale” (79). Ancora più significativo, poi, è ciò che dice lo stesso Goethe, riferendosi a quanto affermato dallo psichiatra J.Ch. Heinroth (1773-1843): “Nella sua Antropologia, opera sulla quale avremo ancora occasione di tornare, il dott. Heinroth parla benevolmente di me e dei miei lavori, e definisce geniale il mio modo di procedere, consistente – scrive – nel fatto che il mio pensiero lavora oggettivamente o, in altri termini, non si separa dagli oggetti, ma gli elementi di questi, le loro immagini sensibili, ne sono assorbite e penetrate; che il mio vedere è già un pensare, il mio pensare un vedere – procedimento al quale egli non può negare il suo plauso” (80).
Non ce ne voglia Boncinelli, ma dubitiamo che il dott. Heinroth avrebbe concesso al suo modo di procedere il medesimo plauso. Gli vanno comunque riconosciute due attenuanti: la prima è che, riguardo alla mentalità “matematico-ingegneristica” o “informatica”, dice: “Non conosciamo ancora tutti i risvolti di questa logica computazionale e può darsi che in futuro arriveremo alla conclusione che la rappresentazione che ce ne siamo data sia troppo grossolana e debba essere abbandonata in favore di una più articolata” (81); la seconda è che il suo modo di procedere è quello assunto da tutta la scienza nel momento stesso in cui ha rinnegato il “goetheanismo” (ossia il frutto più maturo della civiltà e della cultura europee) per gettarsi, più o meno deliberatamente, nelle braccia del materialismo (82). Si consideri che se lo spirito del “goetheanismo” (non solo quello di Goethe, ma anche di Lessing, Herder, Schiller o Novalis) non fosse stato ripreso e portato avanti da Steiner, oggi disporremmo solo di una scienza che ha pudore, come abbiamo visto, dell’anima e dello spirito, e per ciò stesso dell’uomo. Dovrebbe essere l’uomo, però, ad avere pudore di una tale scienza. Sia chiaro: stiamo parlando dello spirito che anima (o meglio, disanima) la scienza attuale e non dei singoli scienziati. Una cosa è il peccato, altra il peccatore. L’odierna scienza materialistica crede di non avere nulla a che fare con la morale, giacché ignora che il vero è il bene così come si dà alla scienza (al pensare) e il bene è il vero così come si dà alla morale (al volere) : ignora, quindi, che una scienza che non ha a che fare con il bene non ha neppure a che fare con il vero. Teorizzare che la scienza è una cosa e la morale un’altra serve solo a nascondere il fatto che il manifesto male morale non è che l’altra faccia della occulta menzogna scientifica. “Gli ideali che hanno illuminato la mia strada – dice Einstein – e mi hanno dato costantemente un coraggio gagliardo sono stati il bene, la bellezza e la verità” (83). Ciò non gli impedisce, tuttavia, di fare queste affermazioni: “Non credo affatto alla libertà dell’uomo nel senso filosofico della parola” (84); “Dal punto di vista obiettivo, preoccuparsi del senso o del fine della nostra esistenza e di quella delle altre creature mi è sempre parso assolutamente vuoto di significato” (85). Anche Einstein fa quindi parte di coloro che lamentano il “decadimento della dignità umana” (86) senza rendersi conto ch’è il materialismo (nelle sue varie versioni) a mortificare non solo la “dignità umana”, ma anche quella della scienza, allorché la “legalizza”, “formalizza” o “protocolla”.
Fatto sta che come per lo Stato non esisteremmo se non esistesse il nostro certificato di nascita, così per l’odierna comunità scientifica i tre quarti del reale (il reale vivente, il reale animico e il reale spirituale) non esistono, dal momento che, con i mezzi di ricerca di cui dispone (idonei all’indagine del reale inorganico), non possono essere “scientificamente certificati” (“I concetti scientifici esistenti – scrive Heisenberg – abbracciano sempre una parte molto limitata della realtà, mentre l’altra parte, quella tuttora incompresa, è infinita) (87).
Quel che più preoccupa, comunque, è che quanto si sta oggi verificando in campo scientifico finisce con l’infirmare, caotizzare o disgregare pian piano l’intelletto (“il ben dell’intelletto”). Scrive Rifkin: “Sociologi e psicologi come Sherry Turkle e Robert J.Lifton stanno già osservando un cambiamento nel tipo di consapevolezza che si trova nella prima generazione di ragazzi cresciuti nell’era dei computer: essi si discostano dall’antica nozione di un “sé ben definito” e si avvicinano a un nuovo concetto di “sé multiplo”” (88). Rifkin però non si chiede (e come potrebbe?) se tale nuovo “sé multiplo” costituisca, rispetto al vecchio “sé ben definito” (all’ego), un progresso o un regresso: se abbia a che fare, cioè, con il “Sé spirituale” di cui parla Steiner o con quel fenomeno patologico (nevrotico o psicotico) detto “dissociazione della personalità”.

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Di Lucio Russo
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