Scrive Boncinelli: “In natura l’odore di violette non esiste, come non esiste un accordo in Do o il giallo paglierino. Ciascuno di questi è un segmento di realtà ritagliato da uno dei nostri sensi e da essi elevato al rango di sensazione. Così un fascio di luce bianca contiene in sé un’infinità di raggi luminosi di lunghezza d’onda diversa, come si può facilmente osservare facendola passare ad esempio attraverso un prisma di vetro. Ma non contiene né trasporta “colori”. È il nostro occhio, collegato col nostro cervello, che vi individua, vi identifica e vi discerne i vari colori. Il mondo di per sé non è popolato né di sensazioni né di stimoli” (89).
Qui ben si vede come togliendo l’anima al mondo la si toglie all’uomo, e come togliendo l’anima all’uomo la si toglie al mondo. Che cosa c’è di “scientifico” in un’affermazione del genere? Si rifletta: se un colore non è che “un segmento di realtà ritagliato da uno dei nostri sensi e da essi elevato al rango di sensazione”, per quale ragione ciò non dovrebbe valere anche per l’occhio e per il cervello? Come si fa a dire, cioè, che il colore che percepiamo è una sensazione soggettiva, mentre l’occhio e il cervello che percepiamo sono l’occhio e il cervello oggettivi? Chi si è arrogato il diritto di tracciare una linea, stabilendo che ciò che ne è al di qua è una “sensazione” (soggettiva), mentre ciò che ne è al di là è una “realtà” (oggettiva)? Si tratta di un frutto dell’esperienza, o non piuttosto di una presa di posizione (filosofica) che ricalca la distinzione fatta da Locke tra le “qualità primarie” e le “qualità secondarie”?
Boncinelli distingue il “neurostato” dallo “psicostato”. Ma per quale ragione l’odore di violette, l’accordo in Do e il giallo paglierino non potrebbero essere degli psicostati (delle manifestazioni – direbbe James Hillman – dell’Anima Mundi) che, dopo aver attraversato l’ambiente in forma di stimoli e il corpo umano in forma di neurostati, cominciano a rivelarsi nell’anima (in forma di sensazioni) per quel che realmente sono: ossia, delle qualità? La Montalcini si attende, come abbiamo visto, che le neuroscienze e le scienze cognitive svelino, da un momento all’altro, “l’essenza della specie umana”. Ma è plausibile che possano svelare l’essenza della specie umana delle scienze che non sono neanche in grado di risalire, in virtù del profumo e del colore, all’essenza delle specie vegetali?
Abbiamo detto che i fisici rimuovono l’essenza dell’oggetto e i neuroscienziati quella del soggetto. Freud insegna però che il “rimosso” (ciò ch’è stato respinto nell’inconscio) tende a riaffiorare alla coscienza per mezzo della “proiezione”. Che cos’è la “proiezione”? È un’operazione, spiegano Jean Laplanche e J.-B. Pontalis, “con cui il soggetto espelle da sé e localizza nell’altro, persona o cosa, delle qualità, dei sentimenti, dei desideri e perfino degli “oggetti”, che egli non riconosce o rifiuta in sé” (90).
Nel caso delle neuroscienze, il soggetto “espelle da sé” e “localizza nell’altro”, ossia nel cervello e negli organi di senso, se stesso. Dice infatti Boncinelli che i nostri sensi “non osservano passivamente il mondo ma lo interrogano. Solo così possono comunicare che cosa effettivamente hanno percepito. Per arrivare a tale risultato è richiesto l’apporto di una precedente conoscenza, un sapere antico, un diverso tipo di informazione acquisita tanto tempo fa e accumulata nei millenni nelle nostre cellule e nei nostri geni sotto forma di patrimonio genetico. Per imparare bisogna conoscere. Chi non sa niente non impara o, più correttamente, in assenza di ogni informazione non si acquisisce nuova informazione” (91). Ma sono i sensi a interrogare il mondo, o è l’Io a farlo mediante i sensi? E che cosa vuol dire poi “interrogare”? Vuol dire “percepire” o vuol dire “pensare” (come porterebbero a credere gli insistiti riferimenti all’informazione e alla conoscenza)?
In realtà, l’Io “interroga” il mondo mediante l’atto del percepire e accoglie le sue risposte mediante l’atto del pensare. Una cosa, tuttavia, è la risposta del mondo (il concetto), altra la coscienza che l’Io ne ha o, per essere più precisi, il modo in cui se la rappresenta. La coscienza ordinaria è a tal punto inadeguata alla risposta del mondo (alla realtà spirituale del concetto) da dare l’impressione che non sia il mondo a rispondere al soggetto, ma che sia il soggetto stesso a “suonarsela e cantarsela”: ossia, a interrogare e rispondere. In tale impressione c’è comunque della verità: mentre il concetto appartiene all’oggetto (all’entelechia) e quindi al mondo, la rappresentazione che il soggetto di norma se ne fa appartiene invece a lui stesso. Per poterlo capire, ci si dovrebbe però accorgere che è lo sconosciuto concetto a rendere possibile, in occasione della percezione (sensibile), il formarsi della conosciuta rappresentazione. A tal fine, possiamo solo rimandare a quanto detto da Steiner ne La filosofia della libertà (in particolare, nel sesto capitolo).
“La vista – scrive Eccles – ci offre le esperienze percettive più straordinarie. L’immagine invertita che raggiunge la retina è soggetta a una serie di procedimenti analitici eseguiti in modo sequenziale e parallelo dalla corteccia visiva, dove aspetti come inclinazione, direzione, movimento, forma, contrasto, intensità e colore vengono selezionati per l’analisi; in nessuna parte del cervello, però, si realizza la sintesi dell’immagine retinica originale, tranne che per una banale e infrequente risposta per il volto o per le mani in alcuni neuroni del lobo temporale inferiore (…) Bisogna riconoscere che le esperienze perfette di immagini visive hanno sede nella mente, che sembra in grado di compiere una sintesi a partire dall’analisi della corteccia visiva” (92); “le esperienze perfette di immagini visive”, osserva inoltre, sarebbero impossibili se non intervenisse l’attenzione. Ma che cos’è l’attenzione? Secondo Boncinelli è un qualcosa che gioca un ruolo essenziale nell’opera di integrazione, ma di cui “non si conoscono ancora bene” le “basi fisiologiche” (93); secondo Eccles, invece, è possibile “ipotizzare che un io sia in grado, attraverso l’attenzione, di attivare con la volontà parti selezionate della neocorteccia” (94).
Abbiamo detto, poco fa, che tanto l’atto percettivo quanto quello pensante sono atti dell’Io. L’atto dell’Io è uno, ma prende la forma dell’atto pensante, quando si manifesta nella sfera (cefalica) del pensare, e quella dell’atto percettivo, quando si manifesta nella sfera (metabolica) del volere: il primo si presenta come attenzione (come “volere nel pensare”); il secondo come intenzione (come “pensare nel volere”).
Scrive Boncinelli: “Osservazioni preliminari che sembrano tuttavia promettere clamorosi sviluppi suggeriscono che in questi processi (in quelli d’integrazione – nda) intervenga un meccanismo di sincronizzazione dell’attività nervosa dei vari neuroni impegnati nell’osservazione attenta di un particolare presente in una data scena” (95). In attesa dei “clamorosi sviluppi” di tali “osservazioni preliminari”, osserviamo che il problema non sta tanto nello stabilire se intervenga o meno un “meccanismo di sincronizzazione dell’attività nervosa dei vari neuroni”, quanto piuttosto nello stabilire chi sia, eventualmente, a deciderne e guidarne l’intervento. Se è vero, infatti, come dice Eccles, che, “attraverso l’attenzione, l’io è in grado di attivare, con la volontà, parti selezionate della neocorteccia”, per quale ragione non potrebbe attivare, allo stesso modo, anche un “meccanismo di sincronizzazione”?
Chiariamo una cosa. Ci permettiamo di fare le presenti obiezioni, pur non possedendo nella maniera più assoluta le competenze di un Boncinelli o di un Eccles, per la sola ragione che una cosa sono i “fatti” scoperti dagli specialisti (il “caso” è però un’“idea”, non un “fatto”), altra il pensarli e rapportarli tra loro, cosa questa che non riguarda soltanto gli specialisti, ma chiunque sia in grado di esercitare una seria attività critica (“Per un gran numero di filosofi – scrive Searle – la filosofia della mente è oggi la filosofia “prima””) (96). Quando si afferma, come fa ad esempio Michel Jouvet, “che la funzione dell’attività onirica costituirà probabilmente una delle ultime frontiere nella conoscenza del cervello da parte di se stesso” (97), si pone più una questione di ordine gnoseologico, che non biologico o neurofisiologico (si vedano, di Steiner: Introduzioni agli scritti scientifici di Goethe; Verità e scienza; Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo (98); La filosofia della libertà). Affermando che il cervello conosce se stesso, Jouvet pensa di aver risolto il problema dell’autocoscienza. Ma chi è a conoscere ch’è il cervello a conoscere se stesso? Abbiamo già accennato alla “rimozione”. Ebbene, la si può qui cogliere in “flagranza di reato”. Anziché dire, infatti (come sarebbe stato corretto): “Io penso che il cervello pensi se stesso”, Jouvet rimuove l’“Io penso”, e quindi l’Io sono, e dice: “Il cervello pensa se stesso”. Non è questo, forse, il colmo dell’autoincoscienza?
Dice Boncinelli che un’affermazione “fondamentale” della teoria neodarwiniana è che “tutti i viventi hanno origine da antichissimi antenati comuni”. D’accordo, ma per quale motivo ciò non potrebbe valere anche per gli stati (o i livelli) di coscienza? Per quale motivo, cioè, l’odierno stato di veglia non potrebbe avere origine da antichissimi stati di coscienza comuni: da quelli, in specie, che sopravvivono nelle attuali forme del sogno e del sonno? Se s’intende per “evoluzione”, come dice Steiner, il “reale svilupparsi, per via di leggi naturali, di ciò ch’è posteriore da ciò ch’è precedente” (99), non è allora necessario, per capire “ciò ch’è posteriore”, comprendere “ciò ch’è precedente”? E le neuroscienze, che dicono di conoscere lo stato di veglia, conoscono gli stati di sogno e di sonno? No, non li conoscono. “Non sappiamo – dice infatti Boncinelli – qual è il ruolo fisiologico del sonno, e tantomeno dei sogni, ma è certo che nessun mammifero superiore può vivere a lungo senza dormire (…) Il sonno REM è presente in tutti i mammiferi a eccezione del delfino e dell’echidna e nella maggior parte degli uccelli, mentre sembra assente negli altri vertebrati. Curiosamente se ne ignora del tutto il ruolo” (100). E Jouvet ribadisce: “Il grande problema dell’attività onirica è che noi non possiamo attribuirle una funzione”; i fisiologi si sentono “vedovi di una funzione” (101).
E’ questa una riprova che la scienza odierna non è un prodotto dell’intero essere umano, bensì della sola sua “testa”: di quella sola sua parte, cioè, che consente, grazie al cervello, la vigile attività dell’intelletto.
E’ questa scienza “cefalocentrica” ad aver stabilito, guarda caso, che la morte è in primo luogo un evento cerebrale.
Negli anni settanta, ebbe fortuna un libro di Herbert Marcuse, intitolato: L’uomo a una dimensione. Ebbene, una delle poche cose giuste di quel libro era appunto il titolo: l’uomo “cefalocentrico” è infatti un “uomo a una dimensione” che si sforza di ridurre l’intera realtà alla sua stessa condizione.
Scrive Eccles (riferendo un’esperienza di P.E. Roland): quando un soggetto “prestava attenzione a un dito sul quale stava per essere applicato uno stimolo tattile appena percettibile, si osservava un aumento del flusso sanguigno cerebrale regionale nell’area corrispondente al dito, nella circonvoluzione post-centrale della corteccia cerebrale, come pure nella regione prefrontale. Tale aumento doveva essere dovuto all’attenzione mentale, perché durante la registrazione non veniva applicato alcuno stimolo” (102). Si può perciò “prevedere – aggiunge – che in futuro si scoprirà che l’immensa serie di pensieri silenziosi di cui siamo capaci è in grado di promuovere attività in così tante regioni specifiche della corteccia cerebrale che gran parte della neocorteccia si potrà considerare sotto l’influenza mentale del pensiero” (103). Il fatto viene ricordato anche da Boncinelli: “È lo stato funzionale delle varie aree del cervello – scrive – e in particolare della corteccia cerebrale che viene messo in risalto con la PET, positron emitting tomography, che permette di visualizzare l’afflusso di sangue ai vari distretti del cervello di una persona che sta eseguendo determinate operazioni mentali. È stato appurato da tempo che l’esecuzione protratta di un compito mentale fa affluire una certa quantità di sangue, cioè di ossigeno, nelle regioni del cervello che vi sono attivamente impegnate” (104).
Si è dunque appurato che il soggetto, in virtù dell’“attenzione” o dell’“esecuzione di determinate operazioni mentali”, è in grado d’influire sull’attività del sangue e su quella sottostante dei nervi (“questo aumento dei segnali – precisa Eccles – indica un aumento del flusso sanguigno che, a sua volta, rappresenta un indice quantitativo dell’attività corticale sottostante” (105). Ma se il cervello fosse (come si crede) autosufficiente per quale motivo dovrebbe fare un simile “giro” attraverso il sangue? Per quale motivo, cioè, non dovrebbe fare immediatamente quel che ha da fare, anziché modificare il flusso sanguigno prima di tornare a sé? E che dire, alla luce di un fatto del genere, della convinzione che il cuore è una “pompa”? Risulta forse che l’attenzione o l’esecuzione di determinate operazioni mentali, per determinare le variazioni del flusso sanguigno, transitino prima dalle parti del cuore per variarne il “pompaggio”? I dati riportati da Eccles e Boncinelli assumerebbero ben altro significato se venissero considerati dal punto di vista della scienza dello spirito. Spiega infatti Steiner che l’immediato veicolo dell’Io, nel corpo fisico, è il sangue, e che non è perciò il movimento del cuore a determinare quello del sangue, ma è il movimento del sangue a determinare quello del cuore. “Molto recentemente – scrive Victor Bott – questa concezione del cuore come organo di equilibrio è stata verificata sperimentalmente in due ambiti differenti. Il professor Manteuffel ha fatto degli esperimenti su dei cani deviando la circolazione fuori del cuore ed ha constatato che il volume-minuto era considerevolmente aumentato. Se il cuore fosse una pompa, noi avremmo dovuto constatare una diminuzione o persino un arresto della circolazione. Alcuni bambini portatori di certe malformazioni cardiache presentano ugualmente un volume-minuto considerevolmente aumentato. Il professor Manteuffel cita il caso di una bambina di nove anni del peso di 25 Kg nella quale aveva misurato un volume-minuto di 11,3 litri. Sette giorni dopo l’operazione eseguita negli Stati Uniti, il volume minuto era di 1,451 litri, cioè normale. Altre osservazioni vanno nello stesso senso. D’altra parte, gli embriologi sanno perfettamente che la circolazione sanguigna è precedente all’esistenza del cuore e delle pulsazioni” (106).
Non è più convincente, dunque, che sia l’Io, mediante l’attenzione e il pensare (suoi atti), a intervenire in prima istanza sul sangue e a prendere poi coscienza del suo intervento grazie al nervo (strumento, non dell’attenzione o del pensare, ma della coscienza dell’attenzione e del pensare)? Ci piacerebbe molto sapere che cosa vieta di prendere in considerazione questa ipotesi e di verificarla.