Il cervello, la mente e l’anima (9)

I

Scrive Boncinelli: “Parliamo adesso della memoria, quella vera, quella biologica, quella di cui tutti noi disponiamo per conservare i ricordi in qualche parte del nostro cervello (…) Purtroppo dal punto di vista scientifico c’è ben poco da dire di questa facoltà: alcune distinzioni, una mole di aneddoti, un paio di meccanismi abbastanza ben studiati e niente più” (107).
Benché si ammetta che “dal punto di vista scientifico” della memoria “c’è ben poco da dire”, si sostiene che i ricordi si trovano conservati “in qualche parte del nostro cervello”. Ma che cosa penseremmo di qualcuno che ci confidasse di conservare dell’acqua in un cassetto del comò? Non gli crederemmo, perché sappiamo che la natura dell’acqua non lo consentirebbe. La modalità e il luogo di conservazione di una cosa dipendono anche, se non soprattutto, dalla natura della cosa. Come si fa perciò ad affermare che i ricordi si trovano conservati “in qualche parte del nostro cervello” se si ammette che della loro natura non si sa quasi nulla?
Per capire come stiano davvero le cose, si dovrebbe anzitutto distinguere il ricordo in sé da ciò che sperimentiamo quando lo rievochiamo: si dovrebbe cioè distinguere il ricordo in sé (che appartiene al passato) dall’immagine mnemonica (che appartiene al presente). Che cos’è infatti la memoria se non la facoltà di ricondurre il passato al presente (di gestire, seppure limitatamente, il tempo)? Chiarito questo, ci si domandi: se la natura dell’immagine mnemonica ha carattere immaginativo (rappresentativo), quale carattere avrà allora la natura del ricordo in sé? Non sarà che il cervello non ha a che fare col ricordo in sé, ma solo con la coscienza del ricordo in sé (con la sua rappresentazione)?
Boncinelli distingue la memoria a breve termine (che “ci permette di conservare un piccolo numero di nozioni per un periodo piuttosto breve, frazioni di secondi o secondi”) dalla memoria a lungo termine (che “ci permette di avere delle conoscenze e di fare delle esperienze sulla base degli eventi passati”) (108), e poi si domanda: “Dove sono custoditi i ricordi a lungo termine? E sotto che forma? Dove si trovano le loro registrazioni fisiche, che possiamo anche chiamare engrammi o tracce mnestiche? Non si sa.” (109); “Se non sappiamo dove è localizzato, possiamo almeno sapere in che cosa consiste l’engramma? Purtroppo no” (110).
Come si vede, la nescienza della realtà del concetto oscura non solo i processi di formazione della rappresentazione e dell’immagine percettiva, ma anche quello dell’immagine mnemonica. Scrive Scaligero: “Logicamente l’uomo sa che cosa è un concetto, ma ignora che cosa esso sia come forza e come nasca e quale il suo potere di compimento nel reale: che è più che il suo apparire dialettico e logico: il potere medesimo della Vita” (111). Non possiamo qui riportare, ovviamente, quanto afferma allo stesso proposito Steiner ne La filosofia della libertà, ma possiamo ricordare (sperando che il lettore si senta sollecitato ad affrontare tale opera) che quella che Kant ha creduto un’inconoscibile “cosa in sé” non è che la conoscibile “essenza” della cosa, e ch’è questa a darsi (in modo ordinariamente inconscio) in veste di concetto. E’ in questa stessa veste, per tornare alla memoria, che i ricordi in sé vivono in noi. Steiner, al riguardo, ha spesso fatto questo esempio. S’immagini una persona che, camminando avanti e indietro in una stanza, passi ripetutamente davanti a uno specchio. Ogni volta che gli passerà davanti vi vedrà la propria immagine. Ma questo non accadrà perché lo specchio avrà custodito al proprio interno quella immagine per ripescarla e riportarla ogni volta in superfice, ma perché la creerà sempre di nuovo. Ora se al posto della persona mettiamo il concetto e al posto dello specchio il cervello, ci sarà chiaro non solo il rapporto tra il ricordo e l’immagine mnemonica, ma anche quelli tra il percetto e l’immagine percettiva e il concetto e la rappresentazione. Non si tratta di tre diversi rapporti, ma di uno stesso rapporto colto a tre diversi livelli: non può essere colto al livello del percetto e dell’immagine percettiva (della coscienza di sonno) né al livello del ricordo in sé e dell’immagine mnemonica (della coscienza di sogno), ma può essere colto al livello del concetto e della rappresentazione (della coscienza di veglia).
Contro tale presa di coscienza, militano però, da una parte, i seguaci del realismo ingenuo e del realismo metafisico e, dall’altra, i seguaci, come li chiama Searle, dell’“antirealismo” (gli “scettici”, gli “idealisti”, i “costruttivisti” o i “prospettivisti”). Sempre Searle dà la seguente interpretazione psicologica dell’antirealismo: “Molte persone trovano ripugnante che noi, con il nostro linguaggio, la nostra coscienza, i nostri poteri creativi dobbiamo essere soggetti e dobbiamo rendere conto a un mondo materiale muto, stupido e inerte. Perché dovremmo rendere conto al mondo? Perché non dovremmo pensare al “mondo reale” come a qualcosa che noi stessi creiamo e quindi a qualcosa che deve rendere conto a noi? Se tutta la realtà è una “costruzione sociale”, allora siamo noi ad avere il potere, e non il mondo. La motivazione profonda per la negazione del realismo non è fornita da un particolare argomento piuttosto che da un altro, ma da una volontà di potenza, da un desiderio di controllo e da un risentimento profondo e consolidato” (112).
Dubitiamo che le forze motrici dell’antirealismo siano la “volontà di potenza”, il “desiderio di controllo” e il “risentimento” (il marxismo, ad esempio, pur essendo un realismo, non si è dimostrato alieno da simili “vizi”), mentre troviamo convincente che l’antirealista sia mosso, psicologicamente, da una sorta di ripugnanza per il mondo materiale. Chi conosce la scienza dello spirito sa che tale sentimento è “patognomico” degli spiriti luciferici: ossia di quegli spiriti che sono in grado, in virtù della loro incommensurabile superbia, di generare ogni forma di mania. Searle non si è accorto, però, che la sua diagnosi potrebbe essergli ritorta contro. Com’è possibile, infatti, che gli antirealisti desiderino, più o meno inconsciamente, essere “maniacalmente” indipendenti dal mondo, così è possibile che i realisti (materialisti) desiderino, più o meno inconsciamente, esserne “depressivamente” dipendenti.
Lo abbiamo voluto rilevare, perché il realismo di Steiner, in quanto realismo dello spirito (del pensare, delle idee e dell’Io) non è ovviamente un antirealismo, né un realismo ingenuo (della materia), né un realismo metafisico (dell’energia). Dal punto di vista psicologico, il suo realismo (o “idealismo empirico”) elude perciò tanto la mania (luciferica) che la depressione (arimanica) e apre una “terza” via che, per dirla con Vladimir Solov’ev, è “divinoumana”, e quindi cristica (113).

(Ecco un paio di esempi di quanto i seguaci del realismo e dell’antirealismo stiano in guardia. Il quotidiano la Repubblica (114) dà notizia che due “eminenti medici britannici”, dopo aver analizzato per un anno e “da un punto di vista strettamente scientifico, i casi di pazienti sopravvissuti ad arresti cardiaci”, sono giunti alla conclusione che l’anima esiste. “Peter Fenwick, neuropsichiatra all’Istituto di Psichiatria di Londra, e Sam Parnia, ricercatore clinico presso l’ospedale di Southampton, in uno studio che sarà pubblicato dalla rivista medica Resuscitation ipotizzano che la mente sia indipendente dal cervello e quindi la coscienza, cioè l’anima, continui a vivere dopo la morte cerebrale”. Dal momento che una notizia del genere potrebbe turbare i materialisti, che cosa fa la Repubblica? La integra con un articolo di Umberto Galimberti e con un’intervista allo psico-biologo Alberto Oliverio che cercano, alla stessa stregua di due esorcisti, di renderla inoffensiva. “Questi racconti – dice tra l’altro Oliverio – esercitano una forte suggestione sull’immaginario”. Può darsi, ma si è mai preoccupato, Oliverio, della “forte suggestione” che esercitano “sull’immaginario” i racconti dei materialisti?
Negli stessi giorni, durante un dibattito televisivo dedicato al medesimo caso, uno degli “esperti” presenti ha detto che quello che i pazienti sopravvissuti ad arresti cardiaci sperimentano e riferiscono non sarebbe che un sogno. Ma come spiegare – ammesso e non concesso che sia così – che facciano quasi tutti lo stesso sogno? Non è questo l’aspetto più sorprendente del fenomeno? Lo scienziato, è vero, cerca di spiegare un nuovo fenomeno riconducendolo ad altri già noti. Ma gli è forse noto il fenomeno (o la legge) del sogno? E per quale ragione, allora, pretende di spiegare una cosa che non conosce per mezzo di un’altra che conosce ancora meno? Fatto sta che la conoscenza nasce laddove il fenomeno suscita meraviglia, e non paura. Quando il fenomeno suscita paura non gli si va incontro per comprenderlo, bensì per negarlo.)

Scrive Boncinelli: “Che cos’è in sostanza l’esperienza? Un’esperienza singola è il risultato di un complesso di eventi specifici che ci sono capitati e che per qualche ragione ci hanno colpito. Salvo rare eccezioni, nel prosieguo della nostra vita noi terremo conto di qualche elemento di quell’esperienza, sul piano conoscitivo o su quello emotivo o su entrambi. Il suo ricordo costituirà comunque un patrimonio che conserveremo in qualche forma dentro di noi. Una serie di esperienze singole organizzate intorno a un nucleo tematico rappresenteranno un bagaglio esperienziale della nostra vita” (115).
Scrive invece Steiner: “Posso chiamare mia esperienza la somma di tutto quello di cui posso formarmi delle rappresentazioni”; per questo, esemplifica, “il viaggiatore che non adopera il pensiero e il dotto che vive in sistemi astratti di concetti sono ugualmente incapaci di acquistare una ricca esperienza” (116). L’esperienza, in quanto sintesi di percezione e concetto, si concreta in una rappresentazione che può essere poi “investita” in vario modo dal sentimento. Ma che cos’è, come dice Boncinelli, quel “nucleo tematico” intorno al quale si organizzano le “singole esperienze”, ossia le rappresentazioni? Secondo Jung, sarebbe un “archetipo”, mentre l’“insieme di rappresentazioni” (caratterizzate da una comune “tonalità affettiva”) che gli ruotano attorno sarebbe un “complesso” (psichico). Tanto Boncinelli che Jung hanno dunque constatato che più rappresentazioni ruotano attorno a un solo nucleo, ma non hanno compreso che tale nucleo è il concetto. Lo ripetiamo: è impossibile comprendere il rapporto (subcosciente) tra il ricordo in sé e l’immagine mnemonica se non si è compreso il rapporto (tessuto, nella coscienza, dal pensare) tra il concetto e la rappresentazione. Boncinelli collega giustamente l’esperienza alla memoria. Una cosa, però, sono il concetto e la percezione che, strutturando la rappresentazione, strutturano l’esperienza, altra è la sua memorizzazione. La facoltà che abbiamo di ricordare le esperienze non le spiega, ma le presuppone. La rappresentazione (animica) è un concetto (spirituale) che è stato collegato, almeno una volta, con una percezione sensibile. Il ricordo è un concetto che, dopo essersi collegato con una percezione, si ritira dal corpo, dove si è dato come immagine percettiva, e dall’anima, dove si è dato come rappresentazione, per trattenersi in un corpo intermedio (detto, da Steiner, “eterico” o “vitale”) dal quale può essere poi rievocato in forma d’immagine mnemonica.

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Di Lucio Russo
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