Il cervello, la mente e l’anima (10)

I

Scrive Boncinelli: “Secondo lo schema concettuale corrente la mente tesse innanzitutto rappresentazioni e stati d’animo. È difficile dire che cos’è una rappresentazione mentale, ma fortunatamente tutti sappiamo più o meno di che cosa si tratta. Quello di rappresentazione è probabilmente il concetto cardine di ogni teoria della mente e anche il punctum crucis della difficoltà di ridurre quest’ultima, anche solo concettualmente, a un prodotto dell’attività cerebrale” (117).
Chiariamo, anzitutto, ch’è il pensare, non la “mente”, a tessere le rappresentazioni, e ch’è il sentire, non la “mente”, a tessere gli “stati d’animo” (il sentire è in diretto rapporto col sistema mediano o ritmico, non con quello neuro-sensoriale). Dice Boncinelli ch’è “difficile dire cos’è una rappresentazione mentale”. Ma diventa ancor più difficile se si fa, come si dice, “d’ogni erba un fascio”: se non si analizza cioè il fenomeno e non se ne valutano tutte le componenti. Nemmeno dire che cos’è l’acqua è stato facile, ma lo sarebbe stato ancor meno se non si fossero scoperti, analizzandola, l’ossigeno e l’idrogeno, ma si fosse scoperto solo uno dei due. Cosa si sarebbe detto in tal caso? Si sarebbe probabilmente detto che l’acqua costituisce il “punctum crucis della difficoltà di ridurre” la sostanza liquida “a un prodotto” di quella gassosa o aeriforme. Mettendo la rappresentazione al posto dell’acqua, la percezione al posto dell’ossigeno, e il concetto al posto dell’idrogeno, ben si comprende ch’è “difficile dire che cos’è una rappresentazione” se si conosce la realtà della percezione, ma non quella del concetto.
Il realismo ingenuo crede che la rappresentazione sia una sorta di “fotografia” (una riproduzione mentale) dell’oggetto percepito e che il cervello sia una sorta di “macchina fotografica”. Non spiega, tuttavia, chi sia il “fotografo” che usa la seconda per ottenere la prima. Vorrebbe far credere che il fotografo (il soggetto) e la macchina fotografica (il cervello) siano la stessa cosa, ma incontra serie difficoltà, come riconosce lo stesso Boncinelli, a far passare questa idea.
In realtà, la rappresentazione è una produzione del soggetto (a partire dal concetto “virulentato” o “fecondato” dalla percezione) e non una riproduzione dell’oggetto, ed è un’immagine del concetto e non dell’oggetto. “Le rappresentazioni in genere – dice Hegel – possono essere considerate come metafore dei pensieri e concetti” (118); e la filosofia altro non fa, in fondo, “che trasformare le rappresentazioni in pensiero” (119); “La rappresentazione – dice inoltre – è (…) il punto medio tra l’immediato trovarsi determinato dell’intelligenza, e l’intelligenza medesima nella sua libertà, che è il pensiero” (120). In termini scientifico-spirituali, la rappresentazione è il “punto medio” tra la percezione e il concetto. Come si coniugano, nell’acqua, l’idrogeno e l’ossigeno, così si coniugano, nella rappresentazione (nell’anima) il concetto, attinto dal mondo spirituale mediante lo spirito, e la percezione, attinta dal mondo materiale mediante il corpo. Boncinelli dice ch’è difficile, “anche solo concettualmente”, ridurre la rappresentazione “a un prodotto dell’attività cerebrale”. Ma non si tratta di ridurla, bensì di comprenderla, allargando qualitativamente la coscienza, e non restringendo qualitativamente il fenomeno.
Il comportamentismo, assolutizzando il momento percettivo del fenomeno, non solo non dilata l’orizzonte della coscienza intellettuale, ma addirittura lo cancella. “Secondo i comportamentisti – dice infatti Boncinelli – la mente è una scatola nera nella quale non vale assolutamente la pena di mettere il naso” (121). E’ da notare che la loro presa di posizione nei confronti dell’uomo è analoga a quella dei fisici nei confronti delle cosiddette “particelle”: di queste, infatti, studiano solo il “comportamento”, ritenendo che la loro essenza (qualità) non sia appunto che una “scatola nera nella quale non vale la pena di mettere il naso”.
Il cognitivismo, assolutizzando di contro il momento pensante del fenomeno, dilata l’orizzonte della coscienza intellettuale, ma in modo quantitativo e non qualitativo. Abbiamo detto che i moderni fisici teorici sono in realtà dei “metafisici”. Se si ha presente la distinzione fatta da Karl Jaspers tra le “immagini del mondo” e gli “atteggiamenti” (122) (distinzione che ricalca quella di Steiner tra le concezioni spirituali del mondo e il modo in cui vengono animicamente vissute) (123), si può dire che tali fisici vivono in modo prevalentemente mistico una concezione o una immagine del mondo che oscilla tra il materialismo e il matematismo. Questo spiega il perché appaiano, sì, dei metafisici, ma dei metafisici anomali o sui generis, in quanto intenti a speculare non sull’Essere o su Dio, ma sulle particelle subatomiche o subnucleari. La speculazione dei veri “metafisici”, benché anacronistica, è in sintonia con il canone filosofico dell’anima razionale-affettiva (la cui evoluzione va dal 747 a.C. al 1413 d.C.), mentre quella dei “fisici”, benché moderna (se non post-moderna), è in contrasto con il canone scientifico dell’anima cosciente (la cui evoluzione comincia nel 1413 d.C.): ossia con il canone galileiano o newtoniano. Sia chiaro: non è che tale canone non possa essere messo in discussione: un conto però è discuterlo alla luce di un superiore livello di coscienza (come quello che ha permesso a Goethe di mettere in discussione la Philosophia botanica di Linneo o la teoria dei colori di Newton), altro discuterlo alla luce di un livello di coscienza astratto e superato.
In breve, andare al di là dell’intelletto è cosa diversa dal tornare al di qua dello stesso; dal momento, però, ch’è impossibile retrocedere nella storia, che cosa si fa allora? Si partoriscono degli “ibridi” nei quali il vecchio e il nuovo si mescolano confusamente, a tutto detrimento e dell’intelletto e della scienza. L’intellettualismo e lo scientismo sono appunto degli ibridi. Abbiamo detto del comportamentismo (un’attitudine volontaristica che muove tra il materialismo e il sensismo) e del cognitivismo (un’attitudine logicistica che muove nello psichismo). Quest’ultimo, espandendo in modo quantitativo la coscienza intellettuale, è divenuto appunto intellettualismo. Basti, a provarlo, questa considerazione. I razionalisti di un tempo (di quello ad esempio di Leibniz) erano coscienti di trafficare con le idee (magari “innate”), mentre i razionalisti di oggi (i “cognitivisti”) trafficano con le idee, ma sono convinti di maneggiare, al pari dei computer, dei simboli, dei dati o delle informazioni “artificiali”. A detta di Howard Gardner – riferisce infatti Boncinelli – i tratti salienti del “cognitivismo” sarebbero i seguenti: 1) l’analisi delle rappresentazioni assunte quali realtà autonome; 2) lo studio del computer e dei suoi processi di elaborazione; 3) l’accantonare in maggiore o minore misura “l’emozione e il contesto e più in genere la cultura e la storia”; 4) la fiducia nell’utilità di un approccio profondamente interdisciplinare; 5) “un profondo radicamento dei temi trattati (…) nelle problematiche del pensiero filosofico” (124).
Non discuteremo questi tratti, ma un paio di considerazioni vogliamo farle. La prima è questa: se per studiare la rappresentazione la si “isola” (la si estrapola cioè dal contesto, da quello, in particolare, della percezione e del concetto), si finisce con l’assomigliare a dei soggetti che, per studiare l’acqua bollente, la “isolino” dal fuoco o che, per studiare il sogno, lo “isolino” dalla veglia e dal sonno. Che tale isolamento non prometta nulla di buono lo suggerisce anche il fatto che la funzione dell’intelletto, come si sa (o si dovrebbe sapere), è analitica, mentre quella della ragione è sintetica. È l’intelletto a “isolare” quei concetti che la ragione è deputata poi a ricollegare e riunificare. Come fa a isolarli? Trasformandoli, con il concorso della percezione (sensibile), in rappresentazioni (“chiare e distinte”). Studiare una rappresentazione isolandola significa pertanto isolare una realtà già “isolata” che deve proprio a tale circostanza il suo carattere enigmatico. “L’enigmaticità di un oggetto – scrive Steiner – risiede nel suo stato di separazione”; e aggiunge: “Spiegare una cosa, render comprensibile una cosa, non significa dir altro se non ricollocarla in quel complesso da cui per la disposizione (…) della nostra organizzazione [conoscitiva], essa era stata strappata” (125). Si consideri che Goethe, per studiare il colore, non lo ha isolato, bensì messo in dinamica interrelazione da un lato con la “luce” e dall’altro con la “tenebra”, e che Steiner, per studiare la rappresentazione, non l’ha isolata, bensì messa in dinamica interrelazione da un lato con il concetto e dall’altro con la percezione.
La seconda è questa: perché tanta fiducia nell’“utilità di un approccio profondamente interdisciplinare”? Si spera forse che da un’“ammucchiata” di opinioni possa scaturire un’idea? O si spera che l’ego (ossia l’uomo “isolato”) possa rimediare alla propria unilateralità e alle proprie manchevolezze col mero aggregarsi ad altri ego?

Scrive Boncinelli: “Innumerevoli sono le linee di ricerca che secondo i cognitivisti dimostrano l’esistenza e la dinamica funzionale delle rappresentazioni mentali”; i loro esperimenti “dimostrano che la nostra mente non procede esclusivamente dal basso verso l’alto, bottom up, cioè dagli elementi percettivi agli schemi mentali, ma anche dall’alto verso il basso, top down, poiché rappresentazioni e schemi mentali esercitano un ruolo significativo nell’organizzazione stessa dei percetti” (126).
Qui c’è del vero. E’ difficile però apprezzarlo se si ricorre, per esprimerlo, a un linguaggio o “gergo” così astratto e indeterminato. Tutto apparirebbe più chiaro se si dicesse: l’Io (non la “mente”) agisce non solo in senso afferente (non “bottom up”), cioè lungo la via che va dai contenuti della percezione (che preferiamo chiamare percetti, non “elementi percettivi”) ai concetti (non agli “schemi mentali”), ma anche in senso efferente (non “top down”), cioè lungo la via che va, all’inverso, dai concetti (non dalle “rappresentazioni”) alle immagini percettive (non ai “percetti”). Perché non lo si fa? Non lo si fa perché si tenta di supplire alla “opacità” dei contenuti con il “luccichio” delle forme.
Come i bambini imparano a parlare (per imitazione) prima di pensare, così quello che Steiner chiama il “genio” della lingua ha dato all’uomo il linguaggio (il significante) prima di dargli i mezzi concettuali atti a cogliere il significato. Dal momento che il genio della lingua può perciò aiutare ad accostare quello del pensiero, ecco allora che quanti intendono impedire, più o meno scientemente, tale accostamento si danno da fare per alterare o corrompere il linguaggio, strappandolo dalle mani del suo genio per rimodellarlo in funzione di quelli che credono (ingenuamente) essere i loro interessi, e che sono invece gli interessi di una sorta di “contro-genio” che mira a strappare l’uomo alla propria umanità.
Un altro esempio: alcuni “schemi mentali – dice Boncinelli – sembrano ricadere a loro volta in classi di schemi di base che sono in numero finito e sono anzi in una certa misura preconfezionati” (127). Le “idee innate” dei vecchi “razionalisti” si sono dunque trasformate negli “schemi mentali preconfezionati” dei nuovi “mentalisti”. Costoro avrebbero anche scoperto che gli schemi mentali “di base” sono “in numero finito”. Ma non è stato Aristotele, più di duemila anni fa, a scoprire che le “categorie” (le idee o i concetti “di base”) sono “in numero finito”? Parlare di “categorie”, di “concetti” o d’“idee” non è però considerato oggigiorno “scientifico”. Va considerata una fortuna che ci sia ancora consentito di parlare di “note” e di “colori” (secondo Boncinelli peraltro inesistenti) e non di “schemi di base” sonori e cromatici.
Il cognitivismo ha ampiamente contribuito al diffondersi di tali “vezzi” linguistici. “La convinzione del cognitivista – scrive Boncinelli – che la mente possa essere studiata come un’entità autonoma avente dei suoi propri contenuti e delle sue proprie leggi raggiunge la sua massima codificazione nel pensiero di Jerry Fodor che vede nell’elaborazione dell’informazione e nella costituzione e gestione di simboli e rappresentazioni l’unica realtà della mente. Nel costruire e manipolare i suoi simboli la mente non ha nessuna necessità di ispirarsi alla realtà del mondo circostante, ma può procedere per lo più in piena autonomia, adottando criteri suoi propri. La mente e il pensiero possono avere anche un loro linguaggio, il linguaggio del pensiero o mentalese, ipotizzato da Fodor già una ventina d’anni fa” (128).
Al politichese, al sinistrese, al sindacalese e ad altri gerghi del genere possiamo dunque aggiungere, grazie a Jerry Fodor, il mentalese e, grazie a Roberto Beretta, l’ecclesialese (129). Beretta però scherza, mentre Fodor fa sul serio. Cominciamo allora col ricordare che la rappresentazione appartiene a noi (alla nostra anima), mentre il concetto e il percetto appartengono, rispettivamente, al mondo spirituale (ch’è quello materiale visto dall’interno) e a quello materiale (ch’è quello spirituale visto dall’esterno). L’essenza delle cose o dei fenomeni si dà quale “concetto” al pensare e quale “percetto” al percepire (al volere). Il concetto giunge all’anima attraverso lo spirito (l’Io), mentre il percetto giunge all’anima attraverso il corpo. Ciò che perviene all’anima dall’interno (dall’Io) non è però che l’interno dell’esterno: non è, cioè, che l’essenza di ciò che perviene all’anima dall’esistenza. E qual è allora l’anima che “non ha nessuna necessità di ispirarsi al mondo circostante, ma può procedere per lo più in piena autonomia, adottando criteri suoi propri”? È l’anima o, per meglio dire, la psiche “narcisistica” o “solipsistica”: ossia quella che, trovando “ripugnante”, come dice Searle, il doversi sporcare le mani con il reale, preferisce appagarsi del proprio raffinato “autoerotismo” (compreso quello del “mentalese”).

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Di Lucio Russo
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