Il cervello, la mente e l’anima (11)

I

Benché nel “cognitivismo” spiri un’aria vagamente kantiana, Boncinelli non vi si trova a suo agio. Scrive infatti: “Il problema con il mentalismo, e in verità con tutto il cognitivismo, è che si tratta di dottrine formali del funzionamento della mente. Si parla di operazioni mentali, di processi, di trasformazioni, ma solo raramente di contenuti, mentre sembra che una delle caratteristiche principali della nostra mente sia la sua intenzionalità, cioè la sua necessità di pensare qualcosa, vedere qualcosa, credere qualcosa, immaginare qualcosa, sentire il profumo di qualcosa. Noi possiamo sentire il sapore di una pesca, di una fragola o anche di qualcosa di indefinito, ma non possiamo sentire in astratto un sapore senza un oggetto. I contenuti insomma sono di volta in volta diversi, ma sempre inseparabili dalle forme in cui la mente li recepisce. Da dove provengono questi contenuti? Ovviamente dal mondo esterno. Capire come la mente acquisti dal mondo i contenuti, ammettendo per il momento che le forme le abbia fin dalla nascita o che se le procuri per strada durante lo sviluppo, sembra essere il compimento che attende il cognitivismo e più in generale la scienza della mente di domani. Si tratta, come si vede, di una sorta di gnoseologia sperimentale. Quello che appare abbastanza chiaro è che i contenuti sono comunque mentali, cioè hanno subito una sorta di “trattamento” da parte dei sensi prima e della corteccia poi. Sono contenuti già passati in sostanza per le strettoie e le forche caudine dei nostri sistemi percettivi e non hanno una corrispondenza necessaria con gli oggetti del mondo” (130).
Ma quella proposta da Steiner, ne La filosofia della libertà, non è proprio una “gnoseologia sperimentale”? “Sperimentale”, ovviamente, nel solo modo in cui può esserlo una scienza che renda oggetto della propria indagine il conoscere. O si pretenderebbe di vedere i concetti, il giudicare e le rappresentazioni con gli occhi (fisici)? Dell’intero fenomeno della cognizione sensibile, l’unica cosa che è dato cogliere con gli occhi è l’immagine percettiva: anzi neanche quella, giacché grazie alle immagini percettive si prende coscienza delle cose, ma non delle immagini percettive stesse. Tanto è vero che si è portati a identificare (al modo del realismo ingenuo) l’immagine percettiva della cosa con la cosa, così come a un altro livello si è portati a identificare la rappresentazione con il concetto. Kant ha smascherato tale identificazione, distinguendo il noumeno (la cosa “in sé”) dalla sua immagine percettiva (dal fenomeno o dalla cosa “per noi”) e mostrando che questa altro non è che una rappresentazione proiettata nel mondo esterno: trasferita, cioè, dal piano delle due a quello delle tre dimensioni. Non ha però distinto (lasciando così incompiuta la sua “rivoluzione gnoseologica”) la rappresentazione dal concetto, poiché non ha compreso che la prima è il concetto per noi, mentre il secondo è la rappresentazione in sé. Quello che non ha fatto Kant lo ha fatto Steiner, mostrando che quella cosa “in sé” (quell’essenza della cosa) che si dà di norma e inconsciamente al percepire (in qualità di percetto) non è che quella rappresentazione “in sé” che, ove lo si volesse, potrebbe essere portata a coscienza in qualità di concetto. La coscienza ordinaria, capace di riferirsi al concetto solo in modo astratto (nominalistico), per poter fare esperienza della realtà spirituale del concetto dovrebbe educare, sviluppare e trasformare se stessa. Ebbene, si provi a proporre a un qualunque odierno “ricercatore” e “sperimentatore” un impegno del genere, e si stia a vedere quel che succede. È ben più comodo, infatti, servirsi di uno strumento materiale (in grado di potenziare le capacità degli organi di senso fisici), che non fare di se stessi uno strumento d’osservazione di tutto ciò che, per propria natura, non si presta a essere indagato altrimenti.

Qualcuno potrebbe dire: “Tu parli della realtà del concetto, ma non la dimostri !”. Ma per quale ragione dovremmo essere noi a dimostrarla, e non essere lui, se ci tiene, a dimostrarsela? Come una dimostrazione si mostra, ma non si dimostra, così anche la realtà del concetto si mostra, ma non si dimostra. E a chi si mostra? A chiunque, animato da sincero amore per la verità, abbia l’umiltà, il coraggio e la tenacia di darsi a uno studio e a una disciplina interiore atti a condurlo, non solo con il pensiero, ma con tutto se stesso al cospetto dello spirito.
Si dovrebbe comunque riconoscere che le idee che abbiamo avanzato (e che dobbiamo in toto a Steiner) sono le sole che potrebbero realizzare, come auspica Boncinelli, quel “compimento che attende il cognitivismo e più in generale la scienza della mente di domani”.

Scrive Boncinelli: “Quello che ci si aspetta dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive, come da ogni approccio di tipo scientifico ai problemi della mente, non è tanto l’affermazione che le rappresentazioni esistano o non esistano, quanto una caratterizzazione delle loro proprietà e del loro ruolo nelle attività cerebrali. E questa caratterizzazione è secondo noi ancora largamente al di là da venire. Ogni singola rappresentazione, alla stessa stregua di ogni singolo stato d’animo, sembra proprio incarnare quello che nel capitolo IV abbiamo chiamato uno psicostato, cioè uno stato della mente. Questo stato non è per niente facile da definire e si contrappone a un neurostato che è invece concretamente costituito da un complesso discreto di livelli di eccitazione nervosa, che viaggiano insieme dai sensi al cervello o che circolano tra le varie regioni del cervello stesso” (131).
Lasciamo stare gli “stati d’animo” che riguardano in prima istanza il sentire (il sistema ritmico) e non il pensare (il sistema neuro-sensoriale), e occupiamoci della contrapposizione tra il “neurostato” sensibile e lo “psicostato” extrasensibile. Dice Boncinelli che “ogni singola rappresentazione” sembra “incarnare” uno “psicostato” o “uno stato della mente”. Ma che cosa si crede che intenda dire Hegel quando afferma che le rappresentazioni “possono essere considerate come metafore dei pensieri e concetti”, se non che la “metafora” di un concetto è per l’appunto la sua “illustrazione” o “incarnazione” rappresentativa? Ma Hegel, si dirà, è un filosofo, non uno scienziato. D’accordo, ma quale vantaggio ricava lo scienziato dal non disporre di altrettanta finezza, lucidità e chiarezza di pensiero e d’idee? Lo stesso Hegel, del resto, avendo avuto già modo, ai suoi tempi, di prendere atto di tanta “resistenza” (in senso psicodinamico), così ha scritto: “In tempi moderni, a nessun concetto è andata così male come al concetto stesso, al concetto in sé e per sé” (132). Gli si può dare forse torto quando si scopre ch’è proprio il concetto sconosciuto a essere chiamato “archetipo in sé” da Jung, “psicone” da Eccles e “nucleo tematico” o “psicostato” da Boncinelli? Si noti, oltretutto, che tali infingimenti non aiutano nessuno dei tre a venire a capo del fatidico dualismo cartesiano. Nel tentativo di farlo, Jung (con l’aiuto di Wolfgang Pauli) escogita un ipotetico principio di “sincronicità”, Eccles (con l’aiuto di Popper) corregge in senso “interazionista” lo stesso Cartesio, e Boncinelli (nonostante l’aiuto di Kant) non sa far di meglio che affidarsi al domani. Dal momento che non si disdegna l’aiuto dei filosofi, perché non considerare allora quella tesi del nostro Gioberti secondo la quale ciò ch’è “implicato” nella sensazione (ma, dal punto di vista scientifico-spirituale, anche nel percetto, nello stimolo e nell’impulso nervoso che la precedono) si “esplica” nel concetto? Perché non ipotizzare, ossia, che quanto è implicito nel “neurostato” si espliciti nel corrispondente “psicostato”?
“Il punto cruciale – dice ancora Boncinelli – è che questa formulazione del problema non lascia adito a dubbi sulla corrispondenza numerica fra neurostati e psicostati. Non si tratta di una corrispondenza biunivoca, cioè di uno-a-uno, ma di una corrispondenza univoca, di molti-a-uno nella direzione che va dai neurostati agli psicostati. In un determinato individuo e in un determinato momento, a un neurostato corrisponde uno psicostato, ma lo stesso psicostato può corrispondere a molti, o moltissimi, neurostati diversi” (133).
Ebbene, non è significativo che tra un concetto e le sue rappresentazioni viga la medesima corrispondenza (“univoca”)? In un determinato individuo e in un determinato momento, a una rappresentazione corrisponde un concetto, ma nello stesso individuo, in momenti diversi, lo stesso concetto può corrispondere a molte, o moltissime rappresentazioni diverse. Ciò dipende dal fatto che la corrispondenza, andando dal cervello al concetto (privo di forma), è di “molti-a-uno”, mentre, andando dal concetto al cervello (in cui si dà, riflettendosi, in forma di rappresentazione), è di “uno-a-molti”.
Ci auguriamo sia evidente, a questo punto, quanto sia oltremodo dannoso che le odierne neuroscienze, anziché fondarsi sul realismo ingenuo, sul realismo metafisico, sull’antirealismo o sulla cosiddetta “filosofia digitale”, non si fondino sulla scienza dello spirito di Rudolf Steiner. Questa potrebbe fornire loro l’impianto e il metodo di pensiero di cui mancano, mentre quelle, come sta di fatto accadendo, potrebbero offrirle i riscontri empirici che ne comprovano la validità.

Scrive Boncinelli: “Un ultimo commento riguarda la pretesa di molti pensatori di ieri e di oggi di capire il mondo, e in particolare la mente, usando la mente. Questa è stata forgiata e si è evoluta per farci sopravvivere, non per comprendere se stessa” (134).
Dal momento, tuttavia, che le piante e gli animali sopravvivono egregiamente, pur non essendo dotati di una mente “computazionale”, viene da domandarsi se questa non si sia “forgiata” ed “evoluta” proprio “per comprendere se stessa”, permettendo così all’uomo di pervenire a una prima e basale forma di autocoscienza. A questa domanda si deve dare la seguente risposta: l’uomo (la res cogitans) si è diviso dal mondo (dalla res extensa) proprio per giungere all’autocoscienza.
Scrive Galimberti (nel già citato articolo apparso su la Repubblica): “Fu nel 1600, con la nascita della scienza moderna, che, per esigenze scientifiche, il corpo fu ridotto a organismo, a pura quantità, a semplice sommatoria di organi, perché solo così poteva essere trattato come tutti gli altri oggetti da laboratorio su cui ha potere la scienza”. D’accordo, ma come mai ciò è accaduto proprio allora e non prima? Non è evidente che per poter pensare un corpo come “pura quantità” occorre disporre di una coscienza che si sia ridotta a “pura quantità”: cioè a dire, a “intelletto” o a “mente computazionale”? Fatto si è che non c’è solo una storia delle cose, ma anche una storia della coscienza che le considera (che le pensa, le sente e le vuole). Se è vero, dunque, come dice Searle, che “per un gran numero di filosofi, la filosofia della mente è oggi la filosofia “prima””, allora la storia della mente dovrebbe essere oggi la storia “prima”. Nel medesimo articolo, Galimberti sostiene che l’anima non è che una “parola” atta a indicare il rapporto che il corpo vivente ha con il mondo (e che esiste, perciò, fintantoché vive il corpo). Per avvalorare questa tesi, ricorre alla cultura antica: “La parola ebraica nefes – dice ad esempio – poi tradotta in greco con psyché e in latino con anima significa semplicemente la vita del corpo”. Neppure lo sfiora quindi l’idea che la costituzione dell’uomo antico (in specie quella animico-spirituale) fosse diversa da quella del moderno uomo occidentale, e che quanto valeva per quello potrebbe non valere per questo. In realtà, il concetto di “anima”, come documentato da Francesco Sarri (135), viene alla luce (unitamente all’“anima razionale-affettiva”) con Socrate. Una cosa è certa: per non prendere degli abbagli, bisognerebbe conoscere, sia le sottili trasformazioni subite, nel corso dell’evoluzione, dal rapporto dell’anima (della psyché o, in termini antroposofici, del “corpo astrale”) con il corpo vivente (con la physis o, in termini antroposofici, col “corpo eterico”), sia quelle subite dal rapporto del corpo vivente con il corpo morto (col soma o, in termini antroposofici, col “corpo fisico”).
È singolare, peraltro, che in un’epoca come la nostra, in cui ci si vanta di essere storicisti ed evoluzionisti, non ci si occupi per nulla della storia e dell’evoluzione della coscienza. Monod, ad esempio, al fine di confutare quella che chiama la “proiezione animistica”, scrive: “L’atteggiamento fondamentale dell’animismo (così come intendo definirlo qui) consiste nel proiettare nella natura inanimata la coscienza che l’uomo possiede del funzionamento intensamente teleonomico del proprio sistema nervoso centrale” (136). Ma non ci era stato detto in precedenza (da McLuhan e altri) che il computer e le tecnologie delle telecomunicazioni “sono delle proiezioni meccaniche della mente umana in ogni angolo e in ogni fessura della realtà fisica”? Non sarà allora che Monod vede le “proiezioni” antiche, ma non quelle moderne? Come si può infatti proiettare l’animato sull’inanimato, così si può proiettare l’inanimato sull’animato. Dal momento, poi, che in entrambi i casi è il “funzionamento del sistema nervoso centrale” a essere spinto all’esterno, ci si potrebbe domandare: perché la (supposta) proiezione antica generava un’animazione, mentre quella moderna genera una disanimazione? E’ presto detto: perché, nel corso del tempo, il funzionamento del sistema nervoso si è modificato. Fu tra il XIV e il XV secolo, spiega Steiner, “che a un modo di pensare del tutto diverso, che aveva dominato durante il medioevo, cominciarono a sostituirsi i primi albori della mentalità che oggi predomina in modo assoluto” (137). Nel soggetto dell’anima senziente (per dire, in un Omero) e in quello dell’anima razionale-affettiva (per dire, in un Dante), il cosiddetto “processo di corticalizzazione” non aveva ancora raggiunto quel culmine che caratterizza il moderno soggetto dell’anima cosciente (nata, come detto, nel 1413). Lo dimostra il fatto che le “proiezioni meccaniche della mente umana” cominciano a investire la natura (terrestre e celeste) con Copernico (1473-1543) e poi, in modo sempre più profondo e sistematico, con Galilei (1564-1642), Hobbes (1588-1679) e Cartesio (1596-1650). Se l’antichità ha dunque, come dice Monod, “animato l’inanimato”, la modernità ha viceversa “disanimato l’animato” (nonché “devitalizzato il vivente”). Che cosa significa “disanimare l’animato”? Significa ignorare o “rimuovere” (in senso psicodinamico) le differenze qualitative (cosmiche) così da ridurre tutto il reale a quella sola dimensione (terrena) ch’è congeniale all’intelletto o alla “mente computazionale”. “Le strutture cristalline – dice appunto Monod – rappresentano una quantità d’informazione inferiore di parecchi ordini di grandezza rispetto a quella che si trasmette di generazione in generazione negli esseri viventi, anche nei più semplici. Questo criterio puramente quantitativo – è bene sottolinearlo – consente di distinguere gli esseri viventi da tutti gli altri oggetti, compresi i cristalli” (138).

Scarica PDF

Di Lucio Russo
Per qualsiasi informazione o commento, potete inviare una e-mail al seguente indirizzo: info@ospi.it



Nel campo sottostante è possibile inserire un nome o una parola. Cliccando sul pulsante cerca verranno visualizzati tutti gli articoli, noterelle o corrispondenze in cui quel nome o parola è presente