Il cervello, la mente e l’anima (1)

I

Al lettore

Nel dicembre del 2015, il nostro amico Daniel Kmiecik, cui dobbiamo la traduzione in francese di numerosi articoli dell’“Osservatorio” (pubblicati dal sito belga IDCCH – “Initier, Dévelloper, Connaître, Cultiver, Humaniser”), ci ha inviato (e gliene siamo come sempre molto grati) la traduzione de Il cervello la mente e l’anima, da noi pubblicato 15 anni fa (12 dicembre 2001).
Questo ci ha indotto a riprenderlo e a rivederne e rinfrescarne quasi esclusivamente la forma, dal momento che il contenuto ci è oggi parso ancora più valido.
Lo pubblichiamo dunque, diviso in dodici parti, in sostituzione di quello del 2001.

Il cervello, la mente e l’anima (1)

Si obbligano i giovani a frequentare le università nelle quali si fanno sì esperimenti conoscitivi, ma si rende del tutto illogico il loro pensare, la base della loro vita dell’anima.
R.Steiner

Che cosa è più difficile di tutto?
Ciò che a te sembra più facile: vedere coi tuoi occhi quel che hai sotto il naso.
J.W.Goethe

Come si sa, una cosa sono i fatti, altra le teorie che li mettono in rapporto tra loro. Ebbene, Steiner ha più volte affermato che quanto insegna la scienza dello spirito (o antroposofia) può essere in contrasto con alcune delle moderne teorie scientifiche, ma non con i fatti sperimentalmente accertati. Ciò dipende dal fatto che il pensiero moderno quanto più si è reso “ingegnoso”, vale a dire abile a gestire gli oggetti e le cose, tanto più si è reso inabile a gestire se stesso e le idee. Il che altera quell’equilibrio tra osservazione e pensiero che dovrebbe garantire la scientificità del conoscere (non a caso, Steiner sottolinea che in Goethe uno “spirito profondissimamente filosofico” si è unito a una capacità di “immersione piena d’amore nell’oggetto dato dalla ricerca sperimentale-sensibile”) (1).
Proveremo a dimostrarlo, estrapolando e discutendo alcuni passi del libro di Edoardo Boncinelli: Il cervello, la mente e l’anima (2). Perché abbiamo scelto questo lavoro? Perché “alcuni libri – dice John Searle – sono importanti non perché risolvono un problema o lo affrontano indicandone una soluzione, ma perché sono sintomatici della confusione del loro tempo” (3).

Scrive Boncinelli: “Il mio io, qualunque cosa esso sia, non può entrare in comunicazione diretta con le cose del mondo, ma ne percepisce una parte e se la rappresenta” (4).
Chi ha detto che l’Io “non può entrare in comunicazione diretta con le cose del mondo”? Lo ha detto Kant. Boncinelli, infatti, non solo non nasconde, in questo lavoro, la propria ammirazione per il filosofo di Königsberg, ma in altra sede così confessa: “Tra i miei progetti editoriali c’è un libro che vorrei intitolare: Kant che ti passa. O, per esteso: Se ti viene un dubbio metafisico, Kant che ti passa […] Che cosa vorrei scrivere? Che Kant era un biologo eccezionale. Ha risolto nel Settecento due problemi fondamentali, il problema della conoscenza da un lato, e il problema della morale dall’altro. La biologia moderna ha rivendicato totalmente queste conquiste di Kant” (5).
Abbiamo dunque a che fare con un testo di divulgazione “scientifica” (Le straordinarie scoperte sull’intelligenza umana: questo il suo sottotitolo) ipotecato da un pregiudizio filosofico. Ove poi considerassimo che anche Einstein non ha fatto mistero della sua ammirazione per Schopenhauer (ammirazione che lo ha portato ad affermare [buddisticamente]: “Il vero valore di un uomo si determina esaminando in quale misura e in che senso egli è giunto a liberarsi dall’io”) (6), potremmo dire, parafrasando un vecchio adagio: “Scienziato che vai, filosofo che trovi”.
Non tanto è Kant, comunque, a essere un “biologo eccezionale”, quanto piuttosto è Boncinelli a essere un “kantiano eccezionale”. Non siamo sicuri, però, che Kant avrebbe apprezzato una simile eccezionalità: che avrebbe cioè gradito di trovarsi cooptato dai biologi e vedere così riportati nel ristretto ambito della loro specializzazione tanto il problema della “ragion pura” quanto quello della “ragion pratica”.
È singolare, ad esempio, prima ammettere che non si sa bene che cosa sia l’Io e poi sostenere che “qualunque cosa esso sia” non potrà mai entrare “in comunicazione diretta” con le cose. Non sarà che la medicina kantiana, se è in grado (come dice Boncinelli) di “far passare” i dubbi metafisici, non è invece in grado di “far passare” le certezze metafisiche (cioè, i dogmi o i pregiudizi)?
Anche l’idea che l’Io, delle cose, “percepisce una parte e se la rappresenta” deriva da Kant (dalla sua distinzione tra il “noumeno” e il “fenomeno”), e quindi dal fatto che il fondatore dell’idealismo critico, distinguendo il contenuto oggettivo della percezione (la cosa in sé) dalla sua immagine soggettiva (dall’immagine percettiva della cosa) e giudicando inconoscibile il primo, si è lasciato completamente sfuggire il ruolo svolto dal concetto nel processo che presiede alla formazione della rappresentazione e dell’immagine percettiva.
Ma perché tanta ammirazione per Kant? Perché Kant, sembrando avallare alcune conclusioni della scienza attuale, conferisce loro dignità o nobiltà critica. Una di tali conclusioni, ad esempio, è che ogni verità è “relativa” poiché l’atto conoscitivo è il risultato di un’interazione tra il soggetto (l’osservatore) e l’oggetto (l’osservato). Già, ma chi è a osservare che l’atto conoscitivo è il risultato di un’interazione tra l’osservatore e l’osservato? E per quale motivo, poi, l’ovvia circostanza che si dia un’interazione tra l’osservatore e l’osservato dovrebbe pregiudicare l’oggettività del conoscere? Per quale motivo, cioè, la soggettività (la relatività) delle immagini percettive, delle sensazioni e delle rappresentazioni dovrebbe pregiudicare l’oggettività (l’assolutezza) dei concetti?
Gli odierni scienziati, quando non sono kantiani, sono dei “realisti ingenui” o dei “realisti metafisici”. All’indomani dell’assegnazione del premio Nobel per la medicina ad Arvid Carlsson, Paul Greengard ed Eric Kandel, Giovanni Maria Pace intervista Rita Levi Montalcini e le chiede: “Il premio di quest’anno, proprio perché riguarda scoperte fondamentali relative ai meccanismi cerebrali, prefigura gli sviluppi che la ricerca sul cervello avrà nei prossimi anni. Che cosa apparecchiano le neuroscienze?”. Risponde la Montalcini: “Avrà notato che da alcuni anni il maggior numero di premi Nobel va ai neuroscienziati. Una tale concentrazione di sapere lascia prevedere come prossima la soluzione del problema dei problemi, la risposta alla madre di tutte le domande: che cos’è la coscienza? Voglio dire che le neuroscienze, insieme con le scienze cognitive, sono oggi l’avanguardia intellettuale che ci farà decifrare l’essenza della specie umana”. Chiede allora il giornalista: “Quanto manca alla scoperta dell’anima?”; e la Montalcini risponde: “Parlare di date è difficile. Tuttavia il progresso è così rapido, grazie anche all’enorme sviluppo dell’informatica, e così esteso che non dovrebbe tardare. Capiremo che cosa sono l’autocoscienza, la conoscenza, la creatività umana” (7).
Immaginiamo allora che un primitivo, udendo una strana voce provenire dal folto della foresta, vi s’inoltri per scoprire a chi appartenga e che, raggiunta una piccola radura, trovi una radio che sta trasmettendo un discorso. Inutile dire che quella che per noi è una semplice radio sarà per lui un qualcosa di misterioso e inquietante. Che cosa crederà? Di trovarsi di fronte a un essere che parla, o a un oggetto che trasmette il parlare? È molto probabile che crederà di trovarsi di fronte a un essere che parla, e ne sarà vieppiù convinto quando, dopo averlo colpito con una pietra, constaterà che quell’essere non parla più.
Ebbene, una logica del genere non è granché diversa da quella che fa dire alla Montalcini che è prossima, grazie al progresso delle neuroscienze e delle scienze cognitive, la soluzione dei problemi della coscienza, dell’autocoscienza, della creatività e dell’essenza della specie umana. Intendiamoci, benvenute siano le neuroscienze e le scienze cognitive, così come benvenuta è la conoscenza del modo in cui è fatta e funziona una radio. Ma in qual modo ed entro quali limiti simili discipline hanno a che fare con l’anima e con lo spirito dell’uomo? Non si sa forse che anche la più sofisticata delle radio rimarrebbe inesorabilmente muta se non ci fosse in qualche dove un essere umano che per suo tramite trasmette la propria voce? E come sperare, poi, di risolvere il problema della coscienza, e quindi della veglia, se non si è stati ancora capaci, come ammette Boncinelli, di risolvere quelli del sonno e del sogno (8)?

Il libro è intitolato: Il cervello, la mente e l’anima, ma delle circa trecento pagine che lo compongono una trentina sono dedicate alla mente, un’altra trentina all’anima e quasi tutte le altre, più o meno esplicitamente, al cervello e al sistema neuro-sensoriale. Anziché considerare tre diversi piani di realtà (come quelli, ad esempio, che Karl Popper chiama “mondo 1” o degli oggetti e stati fisici, “mondo 2” o degli stati di coscienza, “mondo 3” o della conoscenza in senso oggettivo), Boncinelli riduce al “mondo 1”, detto della materia, sia il secondo, detto dell’energia, sia il terzo, detto dell’informazione: anziché elevare, cioè, la coscienza dello spazio o della materia (intellettuale) alla coscienza del tempo o dell’energia (detta, da Steiner, “immaginativa”) e poi alla coscienza della qualità o dell’essenza (detta, da Steiner, “ispirata”), riconduce queste nell’ambito della modalità (riflessa) di pensiero che caratterizza la prima (scrive Searle: “La storia della filosofia della mente degli ultimi cent’anni è in gran parte costituita dal tentativo di sbarazzarsi del mentale dimostrando che non esiste alcun fenomeno mentale oltre ai fenomeni fisici. Il tentativo di descrivere questi sforzi costituisce uno studio affascinante, perché le ragioni che li sottendono sono caratteristicamente nascoste. Il filosofo materialista ha la pretesa di offrire un’analisi dei fenomeni mentali, ma il suo proposito segreto è quello di sbarazzarsi di tali fenomeni. Lo scopo è quello di descrivere il mondo in termini materialistici senza dire nulla riguardo alla mente che non risulti evidentemente falso”) (9).

Che differenza c’è, si domanda Boncinelli, tra gli esseri inanimati e quelli viventi? Che i primi, risponde, sono mossi, mentre i secondi si muovono. Il che dovrebbe implicare che per capire l’intrinseca natura della vita (del tempo o dell’energia) bisognerebbe capire l’intrinseca natura del movimento. Dice però Boncinelli: “Due sono le cose che saltano agli occhi: gli esseri viventi hanno, a differenza della materia inanimata, da una parte un’attività autonoma sostenuta nel tempo e dall’altra una certa reattività”; e aggiunge: manca comunque “a tutt’oggi una definizione rigorosa di vita e di vivente”. Questa ammissione non gli impedisce tuttavia di affermare quanto segue: “Oggi si sa che gli esseri viventi sono essenzialmente dei motori – meccanici, termici, chimici o elettrochimici – che prendono dall’ambiente circostante energia di buona qualità e gliela restituiscono degradata. Il saldo attivo di questa trasformazione viene utilizzato per sostenere la loro incessante attività, il grosso della quale è finalizzato a mantenersi vivi, una certa porzione a moltiplicarsi e un’altra porzione a trasformare, più o meno sensibilmente, l’ambiente circostante” (10).
Ma se si riconosce che manca “a tutt’oggi una definizione rigorosa di vita e di vivente”, come si fa ad affermare che “gli esseri viventi sono essenzialmente dei motori”?

(C’è peraltro da sperare che Boncinelli non abbia inteso dire che il “grosso” di tale “saldo attivo” venga consumato da tutti gli esseri viventi allo stesso modo: che non abbia inteso dire, cioè, che anche l’attività dei “motori umani” si esaurirebbe nel mangiare [nel “mantenersi vivi”], nel riprodursi [nel “moltiplicarsi”] e nel lavorare [nel “trasformare, più o meno sensibilmente, l’ambiente circostante”]. Se così non fosse, il suo lavoro approderebbe infatti alla medesima conclusione di quell’ignoto rimatore che, interrogatosi circa il senso della vita, ci ha tramandato la seguente e sublime risposta: Si lavora e si fatica / Per il pane e per la f….)

Va comunque detto, scherzi a parte, che il modo in cui Boncinelli tratta gli esseri viventi è migliore di quello in cui li tratta, ad esempio, Jacques Monod. Che cosa fa quest’ultimo? Prima afferma che la geometria caratteristica dei cristalli “riflette le interazioni microscopiche interne all’oggetto stesso” e poi invita il lettore a chiedersi “se le forze interne che conferiscono agli esseri viventi la loro struttura macroscopica non abbiano per caso la stessa natura delle interazioni microscopiche delle morfologie cristalline” (11). L’interrogativo è conseguente, ma la premessa potrebbe essere sbagliata. Chi ha detto che le forze che conferiscono la loro caratteristica geometria ai cristalli sono interne, e non esterne? Si pensi alle impronte lasciate dai piedi sulla sabbia. Le forze che generano e determinano la loro forma sono forse interne alla sabbia? Ma questo, a Monod, non interessa. Ciò che gli preme è di poter utilizzare tale premessa per parlare degli esseri viventi come di “macchine che si riproducono” (12).

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Di Lucio Russo
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