Il Sole 24 ore (25 marzo 2001) pubblica un articolo, intitolato:Com’è fragile la mia Dolly, di quel Ian Wilmut che, nel 1997, alla guida di una squadra di ricercatori, ha creato l’ormai famosissima pecora. In questo articolo, Wilmut distingue la clonazione cosiddetta “riproduttiva” da quella cosiddetta “terapeutica” e critica con asprezza il progetto di Antinori di “creare bambini clonati”. Scrive infatti: “I benefici della clonazione terapeutica sono per ora potenziali ma col tempo diventeranno reali: queste ricerche non vanno associate in alcun modo con gli attivisti della clonazione umana. Per riassumere, ogni tentativo di clonare esseri umani quando i problemi scientifici della clonazione nucleare, perfino quelli più elementari, sono ancora ben lontani dall’essere chiariti è pericoloso e da irresponsabili. Se tentativi talmente sconsiderati proseguiranno senza intralcio, tante persone ne soffriranno e si creeranno problemi sociali senza precedenti. Per di più quelle iniziative prive di scrupolo getteranno discredito sulle ricerche serie che riguardano l’embriogenesi e le cellule staminali umane, cioè su campi che potrebbero avere grandi ripercussioni sulla medicina”.
Ma come mai – chiediamoci – proprio il “papà” di Dolly arriva a fare delle simili affermazioni? Perché – spiega – “le esperienze fatte nei tre anni trascorsi dalla nascita della pecora Dolly, ci hanno consentito di capire bene i rischi delle tecniche attuali. Ci sono state clonazioni riuscite in quattro altre specie (topi, bovini, capre e maiali), e fallite in altre quattro almeno. Anche nelle specie in cui sono riuscite, è chiaro che il processo è di per sé insufficiente e produce solitamente fenotipi anomali. Proprio la presenza di anomalie molto simili nelle diverse specie suggerisce che lo stesso accadrebbe per la specie umana. Soltanto un’esigua percentuale di cloni risulta in una discendenza vitale. Di regola, i cloni di ruminanti sono sproporzionati, una condizione nota come “sindrome da discendenza grossa”. Si ritiene che certe disfunzioni placentari causino spesso la morte dell’embrione a vari stadi della gravidanza, e che i problemi respiratori e circolatori dei cloni vivi siano la causa più diffusa di morte neonatale. Anche sopravvissuti apparentemente sani possono soffrire di deficienze immunitarie, di malformazioni renali o cerebrali, che contribuiscono alla morte entro poco tempo. La mortalità e le anomalie degli animali nati vivi non dipendono dalla provenienza del nucleo del donatore e se ne deduce che il tasso elevato di mortalità e di fenotipi anomali sia dovuto a un meccanismo comune a tutte le specie, e gli esseri umani non farebbero eccezione”.
Tali esperienze – non c’è che dire – sono davvero sconfortanti. Ma a che cosa è dovuto tutto ciò? “Stando a tutta la documentazione disponibile – risponde sempre Wilmut – la morte degli embrioni clonati è dovuta non a cromosomi anomali bensì a un loro funzionamento errato. La funzione dei geni è controllata da svariate migliaia di proteine che si legano al Dna e lo modificano chimicamente, per esempio aggiungendovi piccole molecole”.
Dunque, ragioniamo. Se la morte degli embrioni clonati è dovuta a un errata funzione dei geni, e se la funzione dei geni è controllata dalle proteine, vuol dire allora che la morte degli embrioni clonati è dovuta a un errata funzione delle proteine. Ma chi controlla la funzione delle proteine? Questo non viene detto. E non viene detto perché non si è in grado di risalire dalla realtà dinamica della “funzione” alla realtà spirituale della “specie”: ovvero, a quella “essenza” o “insieme” (rappresentato, nel caso degli animali, da quello che Steiner chiama Io di “gruppo” o Io “collettivo”) che controlla e governa, per mezzo della “funzione”, le proprie parti sensibili.
Notiamo, comunque, che il risalire dall’anomalia dei cromosomi a quella del “loro funzionamento”, significa già risalire dall’osservazione di una “cosa” a quella di un “processo” o di un'”attività”: significa già risalire, cioè, dall’osservazione di una realtà sensibile a quella di una realtà extrasensibile. E’ proprio qui, però, che si presenta il problema. Questa seconda realtà (quella della funzione) non viene infatti osservata direttamente (quale causa di natura extrasensibile), bensì indirettamente (attraverso i suoi effetti di natura sensibile). Si è passati dunque – è vero – dalla coscienza delle cose (tipica del “realismo ingenuo”) a quella delle forze o dei processi che le governano (a quella, cioè, della loro funzione o interazione), ma in una forma del tutto astratta. Le forze cui si fa riferimento, infatti, potendo essere ipotizzate ma non percepite (direttamente), le si immagina non più sensibili, ma non ancora extrasensibili (com’è tipico di quel realismo che Steiner, ne La filosofia della libertà, definisce appunto “metafisico”). Non si riesce dunque ad avere una coscienza realistica della specie (come essenza o insieme) perché non si riesce ad avere una coscienza realistica di quell’attività che Steiner, nelle sue Massime antroposofiche, indica quale “effetto operante dell’Entità divino-spirituale”. E’ pur vero, d’altronde, che una coscienza del genere può darla l'”immaginazione” (nel senso in cui l’intende Steiner), ma non l’intelletto (o – come si usa dire oggi – la “mente”). Mentre l’intelletto non è infatti in grado (con l’osservazione e col pensiero) di sollevarsi neanche di una spanna dal piano sensibile o spaziale delle coseo , l’immaginazione – come testimonia, ad esempio, il lavoro scientifico di Goethe – è in grado invece di librarsi su quello extrasensibile o temporale dei processi.
Sempre Steiner, ne I punti essenziali della questione sociale, afferma che quello del “pane” non è, a ben vedere, che un problema di pensiero. Ma se questo è vero, figuriamoci se non è allora un problema di pensiero quello della clonazione (o quelli, più in generale, della genetica o della biologia molecolare). “Le nostre convinzioni – ha detto Craig Venter, nel corso di un’intervista (Corriere della Sera, 13 febbraio 2001) – sono mutate. Non è vero che un gene produca una proteina e una malattia. La chiave della salute è più complessa. E’ l’interazione dei geni, delle proteine e dell’ambiente (…) Il determinismo genetico è superato”. D’accordo, ma a che vale superare il determinismo “genetico”, se si finisce poi con l’approdare (come sembra fare Wilmut) a quello “proteico” o (come sembrano fare oggi i più) a quello “neuronale”? Dice Venter che la “chiave della salute” è costituita dalla “interazione dei geni, delle proteine e dell’ambiente”. Ma siffatta “interazione” – vorremmo chiedergli – è o non è? E se è, qual è allora la sua intrinseca natura? Sarà comunque vano porre simili interrogativi a chi è incapace di realizzare, non solo che le sostanze sono soggette alle forze, che le forze sono soggette alle leggi e che le leggi sono soggette all’essenza (o all’insieme), ma anche che il livello di coscienza che conosce (percepisce e pensa) le sostanze (l’intelletto legato al sistema neuro-sensoriale) è diverso da quello (“immaginativo”) che conosce le forze, così come da quello (“ispirativo”) che conosce le leggi e, a maggior ragione, da quello (“intuitivo”) che conosce l’essenza. Le “convinzioni” di Venter, dunque, saranno pure “mutate”, ma del tutto immutato rimane il livello di coscienza sul quale si fondano. Come abbiamo visto, egli riconosce che la salute “è più complessa” di quanto immagini il determinismo genetico, ma non sa poi far di meglio che alludere astrattamente a una “interazione” (dei geni, delle proteine e dell’ambiente): a un qualcosa, cioè, di cui oggi si parla molto (grazie al computer), ma di cui, in realtà, si sa poco o nulla. “Interazione” sta però per “azione” o “influenza reciproca” e quindi per “relazione” o “legame”. Si pensi, tanto per fare un esempio, al diamante e alla grafite. Pur essendo chimicamente uguali, sono diversi. Perché? Perché diverso è il legame degli atomi di carbonio che li compongono. Ma è la diversità del diamante e della grafite – ed è questa la domanda decisiva – a dipendere da quella del legame degli atomi, o è la diversità del legame degli atomi a dipendere da quella del diamante e della grafite? Un quesito del genere – sostiene Friedrich Georg Hunger – ci mette “di fronte alla vecchia disputa tra nominalisti e realisti, nella quale facciamo bene a non intrometterci rinunciando al problema se l’uovo sia nato prima della gallina. Questa questione non è di alcuna importanza…” (La perfezione della tecnica – Settimo Sigillo, Roma 2000, p.109). Ha torto Hunger nel non dare “alcuna importanza” a tale questione, ma ha ragione nel non intromettervisi poiché, per farlo positivamente, occorrerebbe saper distinguere il diamante e la grafite quali realtà (o essenze) extrasensibili, dal diamante e la grafite quali realtà (o cose) sensibili. Solo questa distinzione può infatti permetterci di capire che, a un primo livello, è la diversità del legame degli atomi di carbonio a dipendere da quella delle loro essenze, mentre, a un secondo livello, è la diversità delle loro sostanze a dipendere da quella del legame dei loro atomi.
Come si vede, il problema non è affatto irrisolubile (così come quello dell’uovo e della gallina), ma, per risolverlo, è necessario che la coscienza si riscuota dall’odierna pigrizia e ritrovi un minimo d’intraprendenza e di coraggio.
Sullo Specchio (supplemento a La Stampa del 17 marzo 2001), Piero Bianucci ricorda che il “vedere” umano – a detta di Gerald M.Edelman, Nobel per la medicina nel 1972 – è “qualcosa di profondamente diverso dal “vedere” di un sensore fotoelettrico. Anche il sensore “vede” la luce, e agisce di conseguenza aprendo o chiudendo la porta dell’ascensore. Ma certo non sa di vedere. E’ questa meta-percezione, l’essere coscienti della propria coscienza che noi chiamiamo mente o, attribuendole caratteri spirituali, anima. E’ questa meta-percezione ad aprire la vertiginosa prospettiva sulla libertà e quindi sulla responsabilità delle scelte, sul bene e sul male”. Un punto di vista del genere è indubbiame interessante, ma come portarlo avanti se non s’impara a distinguere l’Io dalla coscienza dell’Io, l’intelletto (o la mente), quale coscienza “corporea” o “spaziale” dell’Io, dagli altri e superiori livelli di coscienza e, soprattutto, l’anima dallo spirito? Nel trentatreesimo canto del Paradiso – come si sa – Bernardo di Chiaravalle comincia la propria preghiera con queste parole: “Vergine madre, figlia del tuo figlio…”. Ebbene, è detto più qui, del rapporto tra l’anima e lo spirito, che non in tutti gli odierni lavori scientifici. Infatti, senza lo spirito (l’Io come “padre”), non si darebbe l’anima (la coscienza come “figlia”), ma, senza l’anima (l’autocoscienza come “madre”), non si dà lo spirito (l’Io come “figlio”). In altre parole, senza l’Io, non si darebbe la “coscienza dell’Io”, ma, senza la “coscienza dell’Io”, non si dà l’Io. In Edelman (ma, per fortuna, non solo in Edelman) si avverte dunque la presenza di un Io che, in qualità di forza incosciente, cerca di aprirsi un varco verso la propria forma cosciente, per ritrovare così quel che, all’origine, è appunto un’unità di forza e forma o di volere e pensare. Solo in questo modo (e quindi con l’ausilio della scienza dello spirito) è possibile dunque evitare che tali germi di autocoscienza vengano abortiti e che si riprecipiti così nella tenebra di quell’anima incosciente che caratterizza tanto i realisti “ingenui” quanto quelli “metafisici”.
“Anche la meta-percezione del sé (quella di Edelman – nda) – chiede ad esempio Bianucci – è riducibile alla fisicità dei neuroni?”. Ma certo, – risponde pronto Edoardo Boncinelli – poiché “la consapevolezza, il pensiero e la libertà hanno base solo nella materia – l’insieme dei neuroni”. Ma tale “insieme di neuroni” – ci viene da domandare – è ancora un “neurone” (materialmente percepibile) o non lo è più? Infatti, delle due, l’una: o lo è ancora, e rimaniamo allora in attesa di vederlo con gli occhi del corpo (così come si vedono le “cose”); o non lo è più, e rimaniamo allora in attesa che ci si accorga di vederlo con gli occhi dello spirito (così come si vedono le “idee”).
Siamo però daccapo. Per vedere le “cose” con gli occhi del corpo non ci è richiesta grande fatica, mentre per accorgerci di vedere le idee con quelli dello spirito ci è richiesto di risvegliarci da quello stato di sonno che, nei confronti della vita, dell’anima e dello spirito, caratterizza la moderna coscienza intellettuale. Ma questo non tutti sono disposti a farlo, poiché implica la necessità di rimettere in discussione le cose, le idee e, in primo luogo, sé stessi.
Che cos’è un insieme?
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