“A guidare gli uomini e le civiltà – scrive Emanuele Severino – sono soprattutto i significati e, in particolare, quelli che potremo chiamare i significati dominanti. Il pensare dell’uomo di ogni tempo e di qualsiasi epoca non può infatti prescindere da quell’orizzonte specifico che è costituito dal significato concretamente attribuito alle parole “essere”, “verità” e “libertà” (P.Coda – E.Severino: La verità e il nulla – San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, p.23).
Ma “essere”, “verità” e “libertà”, prima ancora che “parole”, sono “concetti”. E’ importante sottolinearlo poiché una cosa sono i “concetti” (in sé), altra la (nostra) “coscienza dei concetti”. Se “gli uomini e le civiltà” dipendono, per la loro esistenza, dal “significato concretamente attribuito” ai concetti, tale significato dipende dunque, a sua volta, dal livello di coscienza che “gli uomini e le civiltà” portano incontro all’essere dei concetti: vale a dire, dal modo in cui li pensano. E quando portano loro incontro il “lume naturale”, ossia l’ordinaria coscienza rappresentativa (vincolata alla percezione sensibile) arrivano perfino a dare all’essere il significato di un non-essere (come fanno, ad esempio, i “nominalisti”).
“Se la verità è in rapporto all’uomo, – dice Severino – essa non può che esserlo in termini originari: in caso contrario la speranza dell’uomo di raggiungere la verità e la sua stessa ricerca non potranno che avere un esito fallimentare. La verità va dunque pensata non come l’esito di un processo di ricerca, non come un possesso che si acquisisce, non come un punto di vista che si cerca di comunicare, non come una convinzione personale, ma invece come una presenza originaria che si evidenzia come conditio sine qua non della stessa ricerca della verità. Quest’ultima infatti, proprio in quanto presenza originaria, è la condizione di possibilità stessa di ogni viaggio e non invece il punto d’arrivo di viaggi che, in quanto preparati e realizzati nella non-verità, non potranno in alcun modo avere la verità come proprio approdo” (p.25).
D’accordo, ma se la verità è una “presenza originaria”, che senso ha allora la sua “ricerca”? E’ chiaro che si può rispondere in modo soddisfacente a questa domanda soltanto se si distingue – come abbiamo detto – la “verità” dalla “coscienza della verità”. Quale essere “in sé”, la verità è infatti una “presenza originaria”, ma, quale essere “per noi” (o “nostro essere”), è invece “l’esito di un processo di ricerca”. Un conto infatti è l’essere, altro l‘essere della coscienza dell’essere: ovvero, lo spirito (l’essere autocosciente). Ed è attraverso il divenire che l’essere si fa spirito.
Osserva Severino che il termine “con cui il mondo greco indica la verità”, alétheia, indica, sì, un “disvelamento”, ma non ancora il contenuto che viene appunto “disvelato”. Questo viene infatti indicato – a suo dire – dal termine epistéme che, significando “ciò che nel disvelamento si manifesta come stante e imponentesi su ciò che vorrebbe scuoterlo, smentirlo, metterlo in discussione” (p.26), presenta “la verità come stabilità” (p.27).
E qui si viene al dunque. Il Cristianesimo, – sostiene – essendosi sviluppato “all’interno del termine “verità” messo a punto dai Greci” (p.27), parla dunque “greco, nel senso che sia terminologicamente che concettualmente si muove nell’orizzonte di pensiero elaborato da questo specifico popolo dell’Occidente. Certo si potrà tentare di far parlare il cristianesimo con lingue differenti da quella greca. Facendo questo tuttavia si finirà con l’alterare radicalmente la fisionomia stessa del cristianesimo” (p.29).
Ecco, dunque, quanto può accadere ove non si distingua il Cristo (il Logos) dalla coscienza del Cristo (dalla Sophia), vale a dire dal Cristianesimo. Se è vero, infatti, che del Cristo si è avuta finora una coscienza “greca” (ma ad altri livelli – come precisa Steiner – anche “ebraica” e “romana”), non è vero, invece, che la trasformazione di tale coscienza finirebbe con l'”alterare radicalmente la fisionomia stessa del cristianesimo”. Se si dice questo, si è evidentemente convinti, dal momento che “alterare” significa “falsificare” o “contraffare”, che la trasformazione della coscienza “greca” (“ebraica” e “romana”) in una coscienza “cristiana” del Cristo non potrebbe che peggiorare il Cristianesimo. Il che è paradossale in quanto è semmai il sopravvivere di tale coscienza (quale pendant di quella materialista moderna) ad aver finora alterato la fisionomia del Cristianesimo, e ad aver quindi impedito di comprendere il Cristo per quello che è. “Non ci manca il Cristo, – afferma appunto Steiner – ci manca invece la conoscenza del Cristo, la Iside del Cristo, la “Sofia” del Cristo” (La ricerca della nuova Iside, la divina Sofia – Antroposofica, Milano 1997, p.15).
Il problema è tutto qui. “Venne in casa sua, – dice il Vangelo – e i suoi non lo ricevettero” (Gv 1,11): ovvero, venne il Cristo, ma non fu “ricevuto” dalla coscienza “cristiana” (che non poteva – ovviamente – essersi ancora sviluppata), bensì appunto da quella “greca” (“ebraica” e “romana”) che non era in grado di rendergli – come il Battista – vera “testimonianza”. Ma perché allora è venuto? Proprio perché si rendesse possibile, muovendo da quella coscienza (espressione – secondo Steiner – dell'”anima razionale e affettiva”), e in grazia della sua presenza (della presenza in ogni individuo del suo Essere), un divenire o uno sviluppo “cristiano” (attraverso l'”anima cosciente”) dell’essere della coscienza stessa, e quindi dell’uomo.
Se esiste “l’eterno – dice Severino – non può esistere il divenire” (p.31). Eppure, il prologo del Vangelo di Giovanni si apre con queste parole: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. Che potrebbero anche leggersi: “In principio era il Divenire, e il Divenire era presso l’Essere, e il Divenire era l’Essere”, e quindi significare: l’Essere diviene, il Divenire è.
Sostiene appunto Piero Coda (professore di teologia sistematica presso la Pontificia Università Lateranense di Roma) che l'”essere di Dio come divenire” non va pensato “come contrapposto e/o alternativo all’eterno e all’essere, ma va invece inteso in Dio come l’atto stesso dell’essere” (pp. 47-48); infatti: “L’essere-Dio di Dio è il suo Essere l’Uno (e l’Unico) che si rivela nel Logos incarnato, crocifisso e abbandonato come agape, e cioè come Trinità: nel senso che Dio è sé (l’Essere) “divenendo” in Sè l’Altro da Sè: “uscendo” da Sè come Padre, facendo essere (generando) il Figlio, e “ritrovando” Sè nella koinonia-libertà che è lo Spirito” (p.70).
Dunque, il Padre, “generando” il Figlio, “ritrova Sè” nello Spirito: il che equivale a dire che l’Essere Diviene Spirito.
Prima di finire, ancora due parole sul “nulla”. Se “l’ontologia cristiana – afferma Severino – giungesse a dire che l’essente in quanto essente è ed è impossibile che non sia, allora l’ontologia cristiana avrebbe davvero la verità come oggetto” (p.61).
Ebbene, anche se l’ontologia cristiana dovrebbe avere la verità come “soggetto” (“Io sono la via, la verità e la vita” – Gv 14,6), e non come “oggetto”, Severino ha comunque ragione nel chiedere al Cattolicesimo di liberarsi dell’idea del “nulla”.
E’ questa, del resto, una delle questioni sulle quali si è venuto a scontrare con la “Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede” che, al terzo punto dell'”elenco delle proposizioni riguardanti la dottrina filosofica del Prof. Severino”, dichiara appunto: “Non è accettabile la spiegazione che il Prof. Severino dà della creazione come semplice apparire di un essere eterno, in quanto la S.Scrittura (2Mcc. 7, 28) e il Magistero (Conc.Lateranense IV, DS, n. 800 e Vaticano I, nn. 3002 e 3025) chiaramente insegnano che Dio ha creato ex nihilo tutte le cose” (E.Severino: Il mio scontro con la Chiesa – Rizzoli, Milano 2001, pp.133-134).
Orbene, pur non avendo da insegnare niente a nessuno (tantomeno poi, a Coda e ai membri della “Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede), ci sentiamo di fare, al riguardo, una semplice considerazione di carattere logico: se il nulla fosse, essendo il nulla, il nulla non sarebbe. “L’essenza del nichilismo” – per riprendere il titolo di una delle opere di Severino – è appunto un'”essenza”, cioè una determinata entità spirituale, e non un “nulla”; e ciò è legato al fatto che il nulla, al contrario dell’essere che, poggiando su di sé, ha il potere di affermare, è condannato, poggiando (come un parassita) sull’altro da sé, a poter soltanto negare.
Ancora un’osservazione: un bicchiere vuoto è “vuoto”, sì, d’acqua ma, proprio per questo, è “pieno” d’aria. Allorché Coda dice che il vero nulla, dal punto di vista cristiano, è il “fallimento della libertà” (P.Coda- E.Severino: op.cit. p.57), c’è perciò da domandarsi se tale “vuoto” o “nulla” non sia piuttosto un “pieno” o uno “stato” (ossia, la condizione opposta a quella che discende dalla realizzazione della libertà). Lo stesso Coda, d’altronde, sembra non essere del tutto convinto della propria affermazione; subito dopo sente infatti il bisogno di ricordare che, per Tommaso, il fallimento della libertà è l'”inferno”, e non quindi il “nulla” (come si augurerebbero forse i nihilisti).
Cristo e Cristianesimo
C