“Meontologia – leggiamo in un Dizionario di filosofia – è “parola entrata recentemente nel linguaggio filosofico per designare polemicamente quelle filosofie nelle quali la ricerca metafisica è concentrata, piuttosto che sull’essere (ontologia), sul non-essere, ovvero il nulla”.
Ebbene, Gianni Baget Bozzo, in Di fronte all’Islam (Marietti, Genova 2001), fa largo uso di questa parola per caratterizzare il credo dei musulmani. La scelta dell’Islam – scrive – “fu di fermarsi al solo Corano, bloccando la dinamica del pensiero. L’Islam può essere solo obbedito, non può essere pensato (…) La teologia cristiana ha Dio come oggetto di pensiero (…) Nell’Islam Dio non può essere pensato. Non esiste una teologia musulmana che sia l’analogo musulmano della teologia cristiana (…) La metafisica del Dio del Corano non esiste, perché l’essere non è una dimensione comune tra Dio e l’uomo. Tra i 99 nomi divini del Corano non vi è il nome di essere (…) Il Dio coranico non è l’essere e non è un’essenza. E’ un’azione (…) Il Corano chiede al musulmano dei comportamenti, ed è in questi che si realizza la Potenza divina; la Potenza divina si compie nella sottomissione dei credenti (…) Per questo il termine più proprio per esprimere il Dio coranico sembra essere quello di Volontà” (pp.30, 39, 42, 43, 45).
Ma perché – viene allora da chiedersi – si dà il paradosso che la meontologia del volere coranico è (vive), mentre l’ontologia del pensiero cristiano non è (non vive)? E perché l’Islam “non pensato” viene “obbedito”, mentre il cristianesimo “pensato” non viene voluto?
“Ad un aumento della potenza della identità islamica – ammette infatti Baget Bozzo – corrisponde una perdita pressoché totale della identità cattolica e della identità cristiana innanzi all’Islam” (p.110).
“La teologia cristiana – dice – ha Dio come oggetto di pensiero”. Ma è questo forse sufficiente a rendere forte (vivente) il pensiero? No, non lo è. Infatti, non è forte (vivente) il pensiero che “ha Dio come oggetto” (come “pensato”), bensì quello che lo ha come “soggetto” (come “pensante”): quello, ossia, non che ha Dio, ma in cui è Dio. E Dio non è (non vive) nell’ordinario pensiero rappresentativo, bensì è (vive) in quel pensare (per così dire) “precosciente” che riflettendosi nello specchio corticale dà luogo al consueto e spento rappresentare. Rappresentare che non è perciò “essere”, bensì “non essere”.
“Se il pensiero fosse una forza – scrive Alessandra Iadicicco – vivremmo probabilmente in un mondo diverso” (Il Giornale, 19 gennaio 2001).
Viviamo dunque in questo mondo perché il pensiero – come dice ancora la Iadicicco – è “fiacco, molle, indifferente, malato, rinunciatario, conciliativo, vile, disimpegnato”, o – come dice invece Armando Torno – “corto”. In effetti, questo pensiero – detto da Gianni Vattimo “debole” (cfr. Il pensiero debole – Feltrinelli, Milano 1983) e da Massimo Scaligero “dialettico” – è incosciente tanto della propria intima realtà quanto di quella del suo oggetto: sia esso l’uomo, la natura o Dio.
Nel medesimo articolo, quali rappresentanti del cosiddetto “pensiero forte”, vengono (tra gli altri) indicati, da Gianfranco De Turris, Ernst Junger, Julius Evola e Yukio Mishima, da Franco Volpi, Nietzsche, René Girard, Schopenhauer e Gomez Davila, e da Claudio Bonvecchio, Jung, Eliade, Corbin e Florenskij. Si è dunque convinti che il pensiero sia “forte” quando sia persuaso di qualcosa (e quindi affermi), e sia viceversa “debole” quando non sia persuaso di nulla (e quindi neghi). In questo modo, tuttavia, la forza del pensare non viene ricavata dal pensare stesso, ma dal pensato; col paradossale risultato che il primo, dipendendo dal secondo, quanto più se ne fa forte, tanto più si fa debole.
Ma donde ricava la sua forza il pensato? E’ presto detto: dalla natura personale. Quello che si crede un “pensiero forte” non è dunque che un’opinione caricata di forza emotiva o istintiva dalla natura personale.
“Se Hitler avesse avuto un pensiero debole – sostiene Vattimo – avrebbe potuto al massimo uccidere gli ebrei suoi vicini di casa. Per compiere un genocidio aveva bisogno di una metafisica fortissima che lo garantisse”. Ma come si fa a considerare Hitler un “pensatore forte” e a porlo così, di fatto, sullo stesso piano, di un Kant, di un Fichte o di un Hegel? E’ vero, piuttosto, che la “metafisica fortissima” di cui parla Vattimo non è che una “metafisica debolissima” (criticamente) resa però “forte” (o, per meglio dire, “aggressiva”) dal fanatismo e dalla violenza: ovvero, da istanze che nulla hanno a che fare col pensiero.
Certo, se si è convinti che un individuo fanatico e violento sia per ciò stesso portatore di un “pensiero forte”, è comprensibile che ci si faccia allora paladini di un “pensiero debole”: ossia, di un pensiero la cui forza – come dice Vattimo – stia “nel suo effetto di indebolimento dei pensatori forti”.
Ma davvero non si riesce a immaginare nulla che vada al di là della sterile contrapposizione tra coloro che vogliono imporre con la forza la propria opinione e coloro che, credendo che sia l’opinione a essere forte, anziché rigettare una tale strumentalizzazione del pensiero, rigettano il pensiero stesso? “La positività – dice ancora Vattimo – è sempre minacciosa”. Ma la “negatività” lo è forse meno?
E’ comunque significativo che in nessuno degli interventi (sul tema: “Il tramonto del pensiero debole”) venga fatto il nome di Rudolf Steiner: del solo, cioè, che sia riuscito a mettere in luce, non solo la vera differenza che c’è tra il pensiero “forte” (vivente) e quello “debole” (riflesso), ma anche il come (scientifico-spirituale) e il perché (storico-evolutivo) il primo si sia trasformato nel secondo; del solo, altresì, che sia riuscito a indicare il modo in cui il moderno pensiero astratto o riflesso può riappropriarsi della vita o del vigore del suo stesso essere.
Baget Bozzo si preoccupa di una possibile islamizzazione della identità o della cultura europea. In effetti, specie nel campo delle neuroscienze e in quello della cibernetica, si presentano ogni tanto dei sintomi, non tanto d’islamizzazione (religiosa), quanto di arabizzazione (filosofica). In proposito, abbiamo altrove citato (vedi nota del 13 maggio 2001) l’articolo di Adriano Prosperi dedicato al De anima di Avicenna e intitolato “Anima mia che sei nel cervello”, ma un esempio ben più eloquente è rappresentato da Pierre Lévy che, nel suo L’intelligenza collettiva – per un’antropologia del cyberspazio (Feltrinelli, Milano 1999), dedica un intero capitolo (intitolato: “Coreografia dei corpi angelici – Ateologia dell’intelligenza collettiva”) ai rapporti tra la filosofia araba e la cibernetica.
In questo, Lévy, partendo dalla convinzione di Avicenna che vi sia un solo intelletto “agente” per tutti gli uomini, e che la coscienza dell’Io (o autocoscienza) non sia quindi che un fenomeno accidentale (dovuto al contingente inerire dell’intelletto “collettivo” al corpo “individuale”), arriva a proporre la sostituzione di tale intelletto (detto pure “spazio angelico” o “regno dei cieli”) con la “rete” o col “cyberspazio”, in qualità di “cervello collettivo” o “ipercorteccia” (p.113). “In questa versione trasformata, – scrive appunto – il mondo angelico o celeste diviene la regione dei mondi virtuali attraverso i quali gli esseri umani si costituiscono in intelletti collettivi. L’intelletto agente diventa l’espressione, lo spazio di comunicazione, di navigazione e negoziazione dei membri di un intellettuale collettivo. Così non abbiamo più a che fare con un discorso teologico ma con un dispositivo indissolubilmente tecnologico, semiotico e socio-organizzativo (…) Invece di emettere verso gli uomini la luce intellettuale che procede da Dio attraverso i cieli e gli angeli superiori, il mondo virtuale, che assolve al ruolo dell’intelletto agente, riflette i bagliori emanati dalle comunità umane (…) Tutto quello che nel discorso teologico procedeva dall’alto in basso deve essere tradotto nel dispositivo tecnico-sociale, come uno zampillio dal basso verso l’alto” (pp.106,108-109).
Cosa sta dunque accadendo? Sta accadendo che alla soggezione islamica alla volontà teologica, va sempre più corrispondendo la soggezione occidentale ed europea all’intelletto tecnologico. Lo spazio dell’intelligenza umana (individuale) – dichiara appunto Lévy – “è la dispersione. Il suo tempo, l’eclissi. Il suo sapere, il frammento. L’intellettuale collettivo ne realizza la riunificazione. Costruisce un pensiero transpersonale e continuo. Una cogitazione anonima, ma perpetuamente viva, alimentata da mille fonti, metamorfica” (p.115).
E’ oltremodo sintomatico che tale cogitazione venga detta “anonima”. E’ in questo modo, infatti, che all’avversione dell’Islam all’Io, sul piano della volontà, viene a corrispondere l’avversione delle neuroscienze e della cibenetica all’Io, sul piano del pensiero.
Se si vuole, dunque, che “a un aumento della potenza della identità islamica” corrisponda un aumento della potenza della identità cristiana (per un incontro – s’intende – e non per uno scontro di civiltà), altro non si può fare, allora, che sollevarsi dal piano del pensiero “debole”, riflesso o “rappresentativo” a quello del pensiero “forte”, vivente o “immaginativo”: ovvero, a quel piano che, ove si fosse fatto tesoro della lezione di Goethe e, a maggior ragione, di quella di Steiner, ci avrebbe già permesso di vivere – per riprendere le parole della Iadicicco – “in un mondo diverso”.
In un mondo, ad esempio, in cui non si sarebbe dato l’attuale e tragico scontro tra le forze arimaniche che alimentano (in primo luogo sul piano del pensiero) il materialismo occidentale e quelle luciferiche che animano (in primo luogo sul piano della volontà) il fondamentalismo islamico. “Come l’elemento luciferico, – spiega infatti Steiner – anche quello arimanico ha il suo lato oscuro. In esso risiede l’origine dei traviamenti del pensiero, come nell’elemento luciferico quella delle colpe della volontà” (Elemento luciferico ed elemento arimanico nel rapporto con l’uomo – Antroposofia, anno XLVII, n°4, p.200).
Contro una “modernità” che si ostina a rimanere ancorata al pensiero materialistico e all’ego (vale a dire, a quella forma d’individualismo che deriva dalla coscienza corporea dell’Io), è scesa dunque in campo un'”anima di gruppo” ancorata al passato (o alla tradizione), e vincolata alla legge e all’obbedienza (e quindi alla volontà). Questa (che raccoglie, non a caso, le simpatie dell’antimodernismo dell’estrema destra e del collettivismo dell’estrema sinistra) non è però che la contro-immagine di una forza spirituale che la modernità è ancora restìa a partorire dal proprio seno. Per quale ragione, infatti, la “fede” nella materia dovrebbe essere sinonimo di modernità e scientificità, mentre quella nello spirito di arretratezza e fanatismo? Per quale ragione, ossia, non potrebbe darsi una scienza dello spirito: ovvero, una conoscenza ed esperienza dello spirito all’altezza della modernità?
Scrive Steiner: “Mentre al di fuori della vita animica umana l’elemento arimanico e quello luciferico sono forze dell’evoluzione cosmica in lotta tra loro, un influsso troppo forte sulla vita cosciente da parte dell’elemento arimanico prepara nell’anima stessa il terreno anche per gli attacchi di natura luciferica. E quando l’uomo viene compenetrato da quest’ultimo elemento sviluppa una tendenza particolare a far sì che la propria vita animica cosciente venga permeata anche dal carattere arimanico” (Ibid., p.203).
Se s’immagina l’intera umanità come un sol uomo, il prevalere dell’elemento arimanico nella sfera cosciente (o del pensiero) non fa dunque che approntare il terreno per un attacco dell’elemento luciferico nella sfera incosciente (o della volontà).
La stampa ha di recente riportato che l’uomo – a detta di Dulbecco – avrà presto un cuore di maiale. Ebbene, non è a dir poco curioso che la scienza occidentale si appresti a trapiantare nell’uomo cuori di maiali, mentre proprio l’Islam considera la carne di questo animale impura e quindi da evitare? Ove poi si consideri che la conoscenza, sempre per l’Islam, è un’epifania “il cui organo di percezione ha sede nel cuore” – cuore (qalb) che, in quanto “trono dello Spirito nel mondo del Mistero, è in rapporto con l’intelligenza (‘aql), la conoscenza (‘ilm), l’Angelo (lo Spirito Santo, l’Intelligenza agente)” (Henry Corbin: Storia della filosofia islamica – Adelphi, Milano 1991, pp.68 e 79) – è allora proprio ingiustificato che i fondamentalisti – come ricorda R.A. Segre (Il Giornale 22 settembre 2001) – considerino l’uomo occidentale ed europeo “il prodotto di una società corrotta” e “materialista”: ovverosia, “un essere vigliacco, edonista, debole, in preda a istinti bassi, animaleschi”?
“Nella tradizione islamica – scrive Evola – vengono distinte due guerre sante, l’una è la “grande guerra santa” – el-jihadul-akbar – l’altra la “piccola guerra santa” – el-jihadul- acghar – da un detto del Profeta che, di ritorno da una spedizione guerriera, disse: “Siamo tornati dalla piccola guerra alla grande guerra santa”. La grande guerra è di ordine interno e spirituale; l’altra è la guerra materiale, quella che si combatte all’esterno contro un popolo nemico, in particolare, con l’intento di riprendere popoli “infedeli” nello spazio, ove vige la “legge di Dio”, dar al-islam. Tuttavia la “grande guerra santa” sta alla “piccola guerra santa” come l’anima sta al corpo; ed è fondamentale per la comprensione della ascesi eroica o “via dell’azione”, intendere la situazione nella quale le due cose divengono una sola, la “piccola guerra santa” facendosi il mezzo grazie al quale si attua una “grande guerra santa” e viceversa: la “piccola guerra santa” – quella esteriore – divenendo quasi un’azione rituale che esprime e testimonia la realtà della prima. In effetti, in origine l’Islam ortodosso concepì un’unica forma di ascesi: quella legantesi appunto al jihad, alla “guerra santa”. La “grande guerra santa” è la lotta dell’uomo contro i nemici che egli porta in sé. Più esattamente, è la lotta del principio più alto dell’uomo contro tutto quel che in lui vi è di soltanto umano, contro la sua natura inferiore e ciò che è impulso disordinato e attaccamento materiale” (Economicismo – Settimo Sigillo, Roma 2001, pp.65-66).
A mero titolo di curiosità, rileviamo che il dato è confermato da Sergio Noja Noseda che, sul Corriere della Sera (19 ottobre 2001), così scrive: “L’espressione Jihad nel suo senso di “guerra guerreggiata” fu corretta da una tradizione attribuita a Maometto che faceva una distinzione tra “grande guerra” contro gli istinti deteriori dell’uomo e “piccola guerra” in armi. Questa distinzione è rifiutata, almeno dai cosiddetti estremisti che ne sostengono l’obbligo collettivo sia pure solo per “salvare il territorio musulmano” e “respingere l’ostilità dei miscredenti” com’è scritto nell’opera dedicata al Jihad del fondatore dei “fratelli musulmani””.
Va osservato, tuttavia, che la “grande” e la “piccola” guerra santa sono destinate a unificarsi (come appunto vorrebbero – a detta di Noja Noseda – gli “estremisti”) per il semplice fatto che una “via dell’azione” è una ascesi della volontà che ridimensiona o vanifica, in quanto tale, qualsiasi distinzione – per dirla con Agostino – tra il “combattimento interiore” (spirituale) e quello “esteriore” (materiale). Può essere infatti “interiore” l’ascesi del pensare o del sentire, ma non quella del volere poiché quest’ultimo è legato al corpo e quindi all’agire o al comportamento.
Un tempo (quello dell’anima senziente – esauritosi nel 747 a.C.), un’ascesi del genere poteva in effetti consentire un’affermazione del “principio più alto dell’uomo” in quanto la volontà era allora veicolo diretto dell’Io. Oggi non è più possibile, però, poiché (soprattutto nell’uomo occidentale) la volontà, non solo non è più tramite diretto dell’Io, ma si è resa addirittura tramite – come dice Evola – della “natura inferiore”, di “ciò che è impulso disordinato” e dell'”attaccamento materiale” (in una parola, dell’Es freudiano). La “grande guerra santa” non può perciò essere, attualmente, che “la lotta del principio più alto dell’uomo contro tutto quel che in lui vi è”, non di “soltanto umano”, bensì di subumano o inumano. Ma per poter distinguere quanto nell’uomo è umano da quanto non lo è, occorre discernere e quindi conoscere e pensare. L’uomo moderno può dunque intraprendere la “grande guerra santa” soltanto come un’ascesi del conoscere e del pensare.
Da questo punto di vista, l’attuale scontro tra il fondamentalismo islamico e l’Occidente si rivela dunque lo scontro tra un’anacronistica ascesi del volere e una mancata (e quindi “colpevole”) ascesi del pensare. In altri termini, contro un Occidente che non è stato capace di dichiarare una “grande guerra santa” (ovvero, una guerra spirituale contro sé stesso), il fondamentalismo islamico ha dichiarato una “piccola guerra santa”: tanto più “piccola”, oltretutto, in quanto terroristica.
Si rifletta: non è forse significativo che a una mancata ascesi del volere all’interno del pensare (come quella indicata da Rudolf Steiner) si sia venuta a contrapporre un’ascesi del volere all’esterno del pensare (come quella indicata dal fondamentalismo islamico)? Non dice nulla il fatto che a un Occidente che non ha saputo ancora aprirsi una via allo spirito mediante il pensare (e quindi una via libera, critica e individuale) si sia venuta a contrapporre una via allo spirito mediante il volere (e quindi una via autoritaria, dogmatica e collettiva)? E la condizione della donna islamica non è appunto un simbolo dello stato in cui è costretta quella parte “femminile” dell’anima umana che – secondo una precisa indicazione di Steiner – è legata al pensare o alla “forma” (mentre quella “maschile” è legata al volere o alla “forza”)?
Di fronte all’Islam
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