Nella nota dal titolo: Pensiero e informazione (1), abbiamo avuto già modo di discutere alcune delle idee che il fisico e filosofo inglese Paul Davies ha espresso nel corso di una intervista rilasciata a Rodolfo Casadei e pubblicata dal settimanale Tempi.
Vogliamo riprendere la discussione, traendo spunto da un suo libro del 1992, tradotto e pubblicato in Italia (nel 1993 e nel 1996) con il titolo: La mente di Dio (2).
Davies conclude così questo lavoro: “Vale quanto meno la pena di tentare di costruire una teoria metafisica che riduca in parte l’arbitrarietà del mondo; ma in ultima analisi una spiegazione razionale del mondo, intesa come un sistema chiuso e completo di verità logiche, è quasi impossibile. Siamo esclusi dalla conoscenza ultima e dalla spiegazione ultima per opera di quelle stesse regole del ragionamento che ci predispongono a cercare una simile spiegazione. Se vogliamo andare più in là dobbiamo adottare un concetto di “comprensione” diverso da quello della spiegazione razionale, e forse la via mistica porta a una comprensione di questo genere” (3).
Che l’autore sia tentato di adottare un concetto di “comprensione” quale quello proposto dalla “via mistica” non ci sorprende affatto. Siamo convinti, infatti, che in ogni “meccanicista” si cela un’ombra “mistica”, così come in ogni “mistico” si cela un’ombra “meccanicista”.
In proposito, nella nota intitolata: Sul “buonismo” (4), abbiamo osservato: “Si ammette, dunque, che l’uomo possa, osservandone le leggi, volere il volere divino, che possa, in virtù dell’esperienza mistica, arrivare (pur se di rado) a sentire il sentire divino, ma non si ammette che possa, sviluppando la conoscenza spirituale, pensare il pensiero divino“.
Ed ecco appunto che Davies, ritenendo impossibile una comprensione “razionale” del mondo, basata cioè sul pensare, non sa fare di meglio che proporne una “mistica”, basata cioè sul sentire.
Ma per quale ragione ritiene impossibile una comprensione del mondo basata sul pensare? Perché ritiene che il pensare altro non sia, e non possa essere, che quello intellettuale, matematico o – come si usa dire oggi – “computazionale”.
Egli riconosce – è vero – che “lo sforzo intellettuale degli uomini non sempre procede attraverso il ragionamento deduttivo e induttivo”, che “la chiave dei più importanti successi della scienza spesso consiste nell’ispirazione o in liberi salti dell’immaginazione” e che il modo in cui si verifica “l’ispirazione è un mistero che solleva molti interrogativi” (5), ma si dice allo stesso tempo convinto che “i processi del pensiero umano non sono divini”, poiché “hanno origine nella struttura del cervello umano, e nei compiti che quest’ultimo, nel corso della sua evoluzione, ha imparato ad eseguire”, e che “l’operato del cervello, a sua volta, dipende dalle leggi della fisica e dalla natura del mondo fisico in cui abitiamo” (6).
“I dati immediati colti dai nostri sensi – afferma ad esempio – non sono direttamente intelligibili così come si presentano. Collegarli, immetterli in una struttura di comprensione, richiede un passo intermedio, un passo che chiamiamo teoria” (7).
Orbene, come ci siamo sforzati di mostrare in alcune delle nostre note (in quelle, in particolare, contenute nella sezione “studi gnoseologici”), tale “passo intermedio” è costituito, non dalla “teoria”, bensì dal pensare. Senza il pensare, infatti, non solo non si darebbe “teoria”, ma non si renderebbero neanche “intelligibili” i “dati immediati colti dai nostri sensi”: se non intervenisse cioè il pensare i “dati immediati” della percezione (i percetti) non potrebbero risolversi in concetti, e senza risolversi in concetti non potrebbero essere “collegati” tra loro.
Davies ha comunque ragione nel sostenere che se si vuole comprendere il mondo bisogna “andare più in là” del pensare intellettuale; ha però torto nel ritenere che, “più in là” di questo, ci sia, non un altro e superiore pensare, bensì un sentire: cioè a dire, una facoltà umana soggettiva e sognante che, in quanto tale, si situa “più in qua”, e non “più in là”, di quella oggettiva e vigile dell’intelletto.
“Ritengo assurdo suggerire – asserisce infatti – che le leggi naturali costituiscano analoghe proiezioni della mente umana. L’esistenza di regolarità nella natura è un fatto matematico oggettivo” (8); e ribadisce: “Praticando la scienza noi scopriamo regolarità e collegamenti reali, che cioè non siamo noi a inscrivere queste regolarità nella natura, bensì ve le leggiamo” (9).
Le leggi naturali, insomma, vengono “scoperte”, e non “inventate”. E anche se noi – aggiunge – “non sappiamo che cosa sono”, o “da dove provengano, possiamo tuttavia elencarne le proprietà” (10): vale a dire, l’universalità; l’assolutezza; l’eternità; l’onnipotenza (11).
Tali leggi sono dunque universali, assolute, eterne e onnipotenti, ma non si sa che “cosa sono” né “donde provengano”. Ma perché non lo si sa? Non lo si sa perché, prima ancora d’indagare la natura delle leggi, si dovrebbe indagare quella del pensare che le “scopre”, e che intesse le relazioni tra i singoli dati o i singoli fenomeni.
“Non esitiamo ad affermare – scrive tuttavia Davies – che il funzionamento dell’aereo nel suo complesso è conosciuto, perché crediamo che un aereo sia soltanto la somma delle sue parti” (12). Ebbene, si provi allora a smontare un aereo nelle sue molteplici parti, le si ammucchi in qualche dove, si chieda a un incompetente di ricomporle (e di riprendere magari a volare con il prodotto dei suoi sforzi), e si stia a vedere quel che succede.
Fatto sta che la qualità di un “assemblato” (e, a maggior ragione, di un composto organico) è determinata, non dalla “somma delle sue parti”, bensì dalla relazione in cui queste stanno fra loro. Si prendano, ad esempio, le cifre “1234” e “4321”. Benché il numero (quattro) e la “somma” (dieci) delle loro “parti” siano uguali, restano diverse. Oppure si prenda la parola “ramo”. Il concetto che esprime sta forse nella “somma” delle lettere di cui è composta, o non piuttosto nella loro relazione reciproca? Non è sufficiente, infatti, variare tale relazione per avere magari “mora”, e non più “ramo”? E un conto – ne converrà Davies – è arrampicarsi su un “ramo” o addentare una “mora”, altro arrampicarsi su una “mora” o addentare un “ramo”.
Qual è allora il problema? E’ che l’1, il 2, il 3 e il 4, del primo esempio, e la “r”, la “a”, la “m” e la “o” del secondo, si possono vedere con gli occhi, così come si possono vedere, e perfino toccare, le singole parti dell’aereo, mentre le relazioni che, collegando gli elementi fra loro, fanno dei singoli numeri una determinata cifra, delle singole consonanti e vocali una determinata parola, e delle singole parti un aereo, non si possono vedere né toccare. Eppure ci sono, esistono e rappresentano – come abbiamo visto – l’essenziale. Ebbene, la loro natura non è forse la stessa di quella del pensare che, in ciascuno di noi, intesse invisibilmente le relazioni fra le singole e “visibili” rappresentazioni?
Scrive al riguardo Davies: “Il fatto che l’informazione in quanto tale non possa essere percepita direttamente non riduce l’importanza nella nostra vita della “tecnologia dell’informazione” (…) Naturalmente siamo in grado di vedere o toccare il mezzo in cui è registrata l’informazione, come un disco o un microchip, ma non possiamo percepire in modo diretto l’informazione in quanto tale contenuta in essi” (13).
Non si può però pretendere di “percepire in modo diretto” l’informazione, vale a dire il concetto o l’idea, se non si è prima imparato a percepire in modo diretto il pensare.
Come può – si chiede ad esempio l’autore – “il mutevole mondo dell’esperienza essere radicato nell’immutabile mondo dei concetti astratti?” (14).
Già, ma chi ci dice che “l’immutabile mondo dei concetti” sia “astratto” in sé, e non piuttosto per noi: vale a dire, per il tipo di coscienza che solitamente ne abbiamo? E chi ci dice che questo non valga pure per il pensare, dal momento che siamo tutti normalmente coscienti dei soli “pensati” o delle sole rappresentazioni?
“Pensare – scrive ancora Davies – è un processo. Essere è uno stato” (15). Ma proprio questo è l’errore. Perché mai, infatti, l’essere (ci si perdoni il gioco di parole) dovrebbe essere uno “stato”, e non appunto un “essere”? Uno stato, in realtà, non è che il “passato” dell’essere (tant’è che, per esprimerlo, ci si deve servire del participio passato).
Dice sempre l’autore: “Nessun tentativo di spiegare il mondo, sia scientificamente che teologicamente, può essere considerato riuscito finché non riesce a spiegare la paradossale combinazione di temporale e atemporale, di essere e divenire” (16).
D’accordo, ma si facilitano forse le cose se si confonde l’essere con lo stato? E a chi apparterrebbe poi uno stato, se non all’essere? Non è sempre l’essere, ad esempio, a darsi, in natura, allo stato minerale, allo stato vegetale e a quello animale? Oppure, nell’uomo (e a tutt’altro livello), allo stato di sonno, allo stato di sogno o a quello di veglia?
Proviamo, per semplificare, ad analizzare la seguente frase: “Mario costruisce un tavolo”. “Mario” è il soggetto, “costruisce” il verbo, “un tavolo” l’oggetto. Che differenza c’è tra il soggetto e il verbo? Che il soggetto è il verbo in quiete o in potenza, mentre il verbo è il soggetto in movimento o in atto. Mario, dunque, è sia il soggetto sia il verbo. In qualità di soggetto è però in sé o per sé, mentre in qualità di verbo “fuoriesce” da sé. Ed è questa sua “estroversa” attività a esaurirsi e a rapprendersi poi nell’oggetto (nel tavolo).
Distinguendo il verbo (il divenire) dal soggetto (dall’essere), e l’oggetto (il divenuto o lo stato) dal verbo, non si dovrebbe quindi dimenticare che si tratta di livelli di manifestazione di un’unica e sola realtà. A questi tre livelli, ne va aggiunto tuttavia un quarto. Mario, infatti, avrebbe potuto benissimo costruire una sedia, anziché un tavolo. In quel caso, il suo agire avrebbe dato dunque corpo a un’altra idea. Questo ci fa capire che tra il soggetto e il verbo va posta l’idea, in quanto è solo quest’ultima che può dar forma all’agire, determinando di conseguenza l’azione.
Quale conclusione possiamo dunque trarre da queste brevi considerazioni? In primo luogo, che l’essere diviene e il divenire è (“In principio era il Verbo, – si legge appunto in Giovanni – e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, neppure una delle cose create è stata fatta”) (1,1-3); in secondo luogo, che una cosa è il divenire, altra il divenuto; in terzo luogo, che l’essere si dà come essenza o qualità sul piano atemporale e aspaziale delle idee, come divenire sul piano del tempo, e come divenuto o stato su quello dello spazio.
Ecco, dunque, perché coloro che muovono sul piano della mente computazionale credono, riuscendo a comprendere il divenuto o lo stato, di poter comprendere anche il divenire e l’essere, e di poter pertanto “considerare la natura essenzialmente come un processo computazionale” (17) o Dio, sulla scia dell’astronomo James Jeans, come un “matematico” (18).
“Il fatto che il mondo fisico – osserva al riguardo Davies – rifletta le proprietà computazionali dell’aritmetica ha una profonda conseguenza. Significa che, in un certo senso, il mondo fisico è un computer, come aveva congetturato Babbage” (19). (Charles Babbage, matematico, meccanico e filosofo inglese nato nel 1792 e morto nel 1871).
Non è tuttavia il mondo fisico a “riflettere le proprietà computazionali dell’aritmetica”, bensì è l’aritmetica a riflettere le “proprietà computazionali” del mondo fisico: ossia, tutte quelle proprietà che caratterizzano, nel mondo, quanto è privo di vita, di anima e di spirito, o quanto costituisce, in qualità di stato, la spoglia o il cadavere dell’essere.
In precedenza, abbiamo visto Davies affermare che “la chiave dei più importanti successi della scienza spesso consiste nell’ispirazione o in liberi salti dell’immaginazione”. Ebbene, il pensare che “va più in là” di quello intellettuale è detto appunto, da Steiner, “immaginativo” e “ispirativo” (e, ancora più in là, “intuitivo”). Lo stesso Steiner, però, così avverte: “L’uomo ha veramente, come uomo terrestre, alcunché di ciò che vi ha di più basso, e d’altra parte ha un’immagine riflessa di quanto v’ha di più alto, che è soltanto raggiungibile nell’intuizione. Gli mancano completamente, come uomo terrestre, appunto i campi intermedi. Egli deve conquistare immaginazione e ispirazione” (20).
Gli odierni scienziati, dunque, anziché sviluppare, muovendo da quella intellettuale (da “ciò che vi ha di più basso”), una coscienza immaginativa e una ispirativa, e per ciò stesso una chiara consapevolezza, rispettivamente, della realtà continua del movimento e di quella qualitativa delle idee, si compiacciono di “ruminare” astrazioni (paradigmi, paradossi, modelli o “teorie del tutto”), “sul piano – come scrive Davies – dell’eleganza matematica” (21).
I fisici – afferma addirittura – “stanno da tempo praticando in tal senso la metafisica”. Il carattere “autoreferenziale” della metafisica con cui si dilettano altro però non è, dal punto di vista psicodinamico, che il sintomo di una regressione: del fatto, cioè, che il loro interesse (la loro libido, direbbe Freud), è andato via via smarrendo l’originaria impronta “oggettuale” (che connotava, ad esempio, la scienza galileiana) per acquisirne una “narcisistica”.
E’ forse per questo, dunque, che i “mondi virtuali” si vanno facendo sempre più belli ed eleganti, mentre quelli reali si vanno facendo, purtroppo, sempre più brutti e grossolani.
Note:
01) Pensiero e informazione, 26 gennaio 2003;
02) P.Davies: La mente di Dio – Mondadori, Milano 1996;
03) ibid., p.287;
04) Sul “buonismo”, 5 marzo 2003;
05) P.Davies: op. cit., p.21;
06) ibid., p.14;
07) ibid., p.88;
08) ibid., p.92;
09) ibid., p.93;
10) ibid., p.93;
11) ibid., pp. 93-94;
12) ibid., p.87;
13) ibid., p.97;
14) ibid., p.30;
15) ibid., p.29;
16) ibid., p.34;
17) ibid., p.112;
18) ibid., p.171;
19) ibid., p.127;
20) R.Steiner: Conoscenza iniziatica – I.T.E., Milano 1938, vol.1°, p.67;
21) P.Davies: op.cit., p.68.