Si stenta a credere, sulle prime, che ci siano delle persone seriamente convinte, come i sostenitori della cosiddetta Ipotesi forte dell’intelligenza artificiale (I.F.I.A.), che “tutta l’attività mentale umana sarebbe programmabile su computer” (1).
Poi però, considerando che non vi è errore che non contenga almeno un briciolo di verità, ci si rende conto che esiste, in effetti, un’attività mentale interamente “programmabile su computer”, ma che si tratta, non dell’”attività mentale umana”, bensì appunto di quella dei sostenitori dell’Ipotesi forte dell’intelligenza artificiale.
Ipotesi che non si vede cos’abbia peraltro di “forte” dal momento che impone a coloro che la sostengono di abbandonare il “buon senso”, di spogliarsi della loro umanità, di amputarsi del restante organismo, e di ridursi così a esseri dotati soltanto di una testa: di una testa, oltretutto, la cui intelligenza è “totalmente algoritmica” (2) o “computazionale” (3): vale a dire, “numerabile e puramente meccanica” (4).
Fa bene perciò Francesco Lerda (ordinario, dal 1975 al 1996, di Teoria delle Macchine Calcolatrici presso il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino) a ricordare quanto segue: “E’ certamente vero che diverse attività mentali umane, anche al di fuori dei calcoli numerici, sono di tipo algoritmico: ma non esiste alcun serio argomento scientifico che renda sia pure soltanto plausibile supporre che la stessa cosa valga per tutta l’attività della mente umana” (p.18); e ad aggiungere: “Noi conosciamo bene le linee dell’evoluzione (…) degli sviluppi del pensiero scientifico moderno, i contributi dei singoli scienziati, le situazioni sociali e culturali in cui sono maturati, ma non abbiamo alcuna idea dei processi mentali profondi secondo i quali sono nate e si sono sviluppate tali conoscenze; in altri termini, conosciamo ciò che è avvenuto, le situazioni in cui le cose sono avvenute, le giustificazioni scientifiche delle nuove acquisizioni, la loro collocazione nel contesto filosofico e scientifico generale, ma non i meccanismi di pensiero, le idee secondo cui si sono svolti i fatti (…) Noi non abbiamo una definizione, anzi nemmeno una descrizione soddisfacente della nozione di idea, eppure sono le idee l’elemento fondamentale per la creatività” (6).
Il che vuol dire, insomma, che conosciamo cosa è avvenuto, ma non come è avvenuto. Sarebbe tuttavia più prudente, ignorando la natura dei “processi mentali profondi”, non parlare – come fa Lerda – di “meccanismi” di pensiero. Per quale ragione tale natura dovrebbe essere infatti “meccanica”, e non magari “vivente”?
Afferma il matematico G.C.Rota (citato da Lerda): “ Nessuno ha la più pallida idea di come operi il processo di induzione scientifica, e già nel chiamarlo “processo” stiamo forse facendo un’assunzione pericolosa” (7). Ma l’”assunzione” che quelli del pensiero siano “meccanismi”, è forse meno “pericolosa” dell’”assunzione” che quello dell’induzione sia un “processo”?
Scrive Lerda: “Cosa dire dei rapporti fra la creatività artistica dell’uomo e la pura attività algoritmico-computazionale? Pensiamo un momento a tre fra i più grandi artisti di tutti i tempi e di tutti i paesi: Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Sono stati sparsi fiumi di inchiostro sulle loro opere, sugli influssi del primo sugli altri due e del secondo sul terzo; ma quali sono stati i processi mentali attraverso i quali sono pervenuti alla realizzazione dei loro immortali capolavori? (…) Cosa sappiamo dei processi mentali di questi tre grandi? Possiamo sostenere che tali processi siano esclusivamente di natura algoritmico-computazionale?” (8).
D’accordo, ma se ne saprebbe forse di più se si parlasse, anziché di processi “algoritmico- computazionali”, di “meccanismi di pensiero”?
Lerda prende comunque le distanze tanto dai sostenitori dell’I.F.I.A. quanto da alcuni dei suoi più importanti e decisi avversari, quali il fisico inglese Roger Penrose, il filosofo americano John R. Searle e il neurofisiologo, sempre americano, Roger Wolcott Sperry.
Scrive infatti: “La debolezza dei paradigmi di Searle, Penrose, Sperry sta nel fatto che da un lato non si vuole rinunciare ai “processi mentali superiori” quali la coscienza, le idee, i sentimenti, le immaginazioni, ecc.; d’altro canto non si fornisce alcuna pur vaga indicazione di come un ambiente puramente fisico-chimico-biologico possa dar luogo a quei processi mentali superiori. Ricollegandoci al punto di vista del logico sovietico Manin, l’algoritmo non è in grado di giustificare l’intelligenza più di quanto la biologia sia in grado di giustificare la vita. Purtuttavia si continua a rifiutare di prendere in considerazione una realtà “spirituale” distinta da quella matematica, in particolare una mente distinta dal cervello” (9).
Benissimo. Ma è disposto Lerda a prendere in considerazione una realtà spirituale (senza virgolette) come quella che si può ad esempio conoscere e sperimentare grazie alla scienza dello spirito di Rudolf Steiner? O preferisce riferirsi allo spirito solo astrattamente, e mantenersi prudentemente ancorato al “dualismo interazionista” di John Eccles?
Ove si considerasse, infatti, la vivente realtà dello spirito, non solo si dovrebbero distinguere le idee dai sentimenti, i processi conoscitivi dai processi creativi, la “mente computazionale” dal pensiero e il pensiero dal cervello (che si limita a rispecchiarne l’attività), ma, in ordine ai problemi di cui stiamo trattando, occorrerebbe anche rovesciare la prospettiva.
La vera questione non è infatti: “In che modo il pensiero supera i processi algoritmici?”; bensì è: “In che modo il pensiero decade a processo algoritmico?”.
Per cominciare a rispondere a questo interrogativo, si deve però tornare a Hegel. “Il pensiero, che produce solo determinazioni finite – scrive infatti – e che si muove in esse, si chiama intelletto (nel senso più proprio della parola)” (10). Ciò che si usa chiamare oggi “mente” è dunque l’intelletto. Ma che cosa sono quelle “determinazioni finite” che produce e tra le quali si muove? Sono le rappresentazioni. L’intelletto – spiega appunto – si distingue dalla rappresentazione nel porre “relazioni di universale e particolare, o di causa ed effetto, ecc., e quindi relazioni di necessità tra i caratteri isolati della rappresentazione, laddove questa li lascia nel suo campo indeterminato, l’uno accanto all’altro, connessi col semplice anche.” (11).
L’intelletto elabora dunque le rappresentazioni, così come il calcolatore elabora le informazioni. Scrive infatti Lerda: “La precisazione rigorosa della nozione di algoritmo è stata fornita nel 1936 dal matematico e informatico inglese Alan Turing. Egli fa riferimento ad elaborazioni numerabili operanti in modo finito ma non limitato su oggetti numerabili di dimensioni finite ma non limitate (questa è proprio la modalità con cui opera l’uomo quando tratta oggetti singolarmente considerati uno per volta)…” (12).
Va sottolineato, tuttavia, che l’intelletto in tanto procede a “elaborazioni numerabili” in quanto le rappresentazioni sono state appunto “numerate”. Nel calcolatore – spiega infatti Lerda – “le informazioni, cioè i dati o le istruzioni, sono codificate in binario, utilizzando due soli simboli, 0 ed 1, detti bit.”(13).
Ma per quale ragione vengono “codificate in binario”? Perché questo “codice” altro non è che l’espressione, sul piano “computazionale”, della logica (analitica) dell’intelletto e, in particolare, di quel “principio d’identità” (e del “terzo escluso”) per il quale se 0 è 0, non può essere 1, e se 1 è 1, non può essere 0.
Fatto si è, però, che tali elaborazioni, pur se algoritmiche, necessitano di movimento, e che il movimento necessita di energia. Un calcolatore spento non procede infatti ad alcuna elaborazione. Ma se per far funzionare il calcolatore serve energia elettrica, per far funzionare l’intelletto di quale energia c’è allora bisogno? E’ presto detto: dell’energia di quel pensare che sgorga dall’Io (spirituale) in modo vivo, fluente e continuo. Una cosa è dunque il pensare, altra l’intelletto. Quest’ultimo contrassegna infatti un particolare livello di manifestazione o, per essere più precisi, una particolare modalità di movimento del pensiero che non tanto riflette la sua natura quanto quella del piano o del terreno sul quale si attua.
Facciamo un banale esempio. Immaginiamo di dover percorrere ogni giorno, con l’auto, lo stesso tragitto e d’incontrare più semafori che – come può capitare – talvolta sono tutti rossi e talaltra tutti verdi. Nel primo caso il nostro movimento sarà discreto, nel secondo continuo.
Che il movimento assuma l’una o l’altra caratteristica dipende dunque dal fatto che gli vengano o meno frapposti degli ostacoli.
Ebbene, mettendo al posto dell’auto il pensiero, si dovrebbe allora dire: “Il movimento del pensiero è (in sé) uno, ma assume l’una o l’altra fisionomia a seconda che incontri o meno degli ostacoli”. Ma quali sono gli “ostacoli” che può incontrare il pensiero? E’ semplice: le singole e finite rappresentazioni. Queste potrebbero essere infatti paragonate a dei sassi che emergono da un torrente, e che l’acqua, col suo ininterrotto fluire, può bagnare, aggirare, superare e collegare, ma non penetrare. Ove infatti li penetrasse, l’acqua diverrebbe un’interna forza plasmatrice e l’essere minerale dei sassi si muterebbe nell’essere vegetale delle piante. In queste – come insegna la dottrina della metamorfosi di Goethe – la foglia, il calice, la corolla e il frutto si sviluppano appunto l’uno dall’altro, non limitandosi quindi a stare, come i sassi, l’uno accanto all’altro. Anche le rappresentazioni, tuttavia, ove venissero penetrate dalla forza viva del pensiero si muterebbero (nell’accezione di Steiner) in “immaginazioni”. E alla coscienza intellettuale (o rappresentativa), capace di collegare solo in modo sequenziale A a B, B a C, C a D, e così via, verrebbe in tal modo ad aggiungersi quella “immaginativa” capace invece di trasformare, senza soluzione di continuità, A in B, B in C, C in D, e così via.
Ove poi immaginassimo al posto dei sassi dei blocchi di ghiaccio, ci renderemmo conto che la natura di ciò che fluisce non è essenzialmente diversa da quella di ciò che ostacola. L’acqua non è infatti che ghiaccio allo stato liquido, così come il ghiaccio non è che acqua allo stato solido.
Ma questo vale anche per il pensiero. Il “pensare” (quale verbo) non è infatti che pensiero allo stato “liquido” (o vivente), mentre i “pensati” (o le rappresentazioni) non sono che pensiero allo stato “solido” (o morto).
Qual è però il processo che permette al pensare di coagularsi nel pensato? Quello della percezione. “La rappresentazione – spiega infatti Steiner – non è altro che un’intuizione riferita ad una determinata percezione, un concetto che è stato una volta congiunto con una percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione” (14). E’ la percezione, dunque, a far sì che il pensare precipiti dallo stato “liquido” a quello “solido”, e che il concetto si trasformi in una rappresentazione finita.
Non basta dunque parlare in modo generico – come fa Lerda – di “processi mentali superiori”, ma occorre distinguere – come fa Steiner – i gradi della coscienza superiore (15). Un grado, infatti, è quello in cui si danno i pensati (o le rappresentazioni), un altro quello in cui si dà il pensare, e un altro ancora quello in cui si danno i concetti o le idee (così come, d’altro canto, uno è quello di veglia, un altro quello di sogno, e un altro ancora quello di sonno). Al di sopra di questi c’è poi ovviamente il soggetto: vale a dire l’Io. Si tratta di livelli qualitativamente diversi che, ove si avessero meno pregiudizi, potrebbero essere messi tranquillamente in rapporto, nell’ordine, con i tradizionali elementi “terra”, “acqua”, “aria” e “fuoco”.
Abbiamo detto, in precedenza, che il pensare sgorga dall’Io. Meglio sarebbe stato dire, però, che il pensare è un atto dell’Io o l’Io in atto. L’uno e l’altro sono pertanto presenti e operanti, seppure in modi diversi, a ogni livello di coscienza. Al più basso, ad esempio, il pensare si dà come intelletto e l’Io come ego: cioè a dire, come rappresentazione (“solida”, e quindi corporea) dell’Io.
E’ dunque il pensare, in qualità di forza continua, a collegare tra loro i vari livelli di coscienza, così come sono le scale, volendo esemplificare, a collegare tra loro i diversi piani di un palazzo. Una cosa, tuttavia, sono (in sé) i livelli di coscienza, altra la consapevolezza che l’uomo ne ha. Come è possibile infatti digerire pur ignorando le leggi e le forze che governano la digestione, così è possibile pensare (non però il pensare stesso) pur ignorando le leggi e le forze che governano il pensiero.
L’uomo, in virtù dell’evoluzione naturale, ha già fatto suo il primo di tali livelli: quello intellettuale (o “rappresentativo”). E lo ha fatto suo a tal punto da averlo identificato con il proprio ordinario stato di veglia. Lo ha fatto suo, se ne serve, lo studia, ma non lo comprende, come stanno appunto a dimostrare, loro malgrado, gli attuali studi sull’intelligenza umana e su quella artificiale.
Ma perché non lo comprende? Perché, come per studiare e comprendere gli stati di sonno e di sogno è necessario essere svegli, così per studiare e comprendere quello ordinario di veglia sarebbe allo stesso modo necessario salire di livello. Certo, risvegliarsi dal sonno e dal sogno, superando i limiti di questi due inferiori livelli di coscienza, è un fatto naturale, mentre “risvegliarsi” dalla “veglia”, superando i limiti dell’ordinaria coscienza intellettuale, è una conquista spirituale che esige, in quanto tale, un impegno teorico e pratico extraordinario: quello richiesto appunto dalla scienza dello spirito a ogni suo libero e serio seguace.
Abbiamo detto, all’inizio, che si stenta a credere che ci siano delle persone seriamente convinte che “tutta l’attività mentale umana sarebbe programmabile su computer”. La cosa, tuttavia, potrebbe apparirci a questo punto meno strana, poiché è facile immaginare quante e quali “ipotesi forti del sonno e del sogno” potrebbero formulare degli individui che stessero dormendo o sognando.
Volendo, si potrebbe far qui valere la tesi di Kurt Gödel (ricordato da Lerda) secondo la quale la “coerenza di un sistema” non può essere dimostrata “all’interno del sistema stesso” (16). Una cosa comunque è certa: solo un pensiero vivo può rendere oggetto di scienza il pensiero morto. Chi ama infatti parlare del pensiero vivo stando nel pensiero morto, lo sogna, ma non lo conosce, mentre chi ama parlare del pensiero morto stando nel pensiero morto finisce – come stiamo vedendo – col dare (alla lettera) i “numeri”.
Quanto detto può altresì aiutarci a capire il perché tanto Eccles che Lerda optino, nei riguardi del rapporto mente-cervello, per un “dualismo interazionista”. Anche noi infatti, ove ci fossimo limitati a scoprire quattro livelli di coscienza superiori (“superiori” rispetto al sogno e al sonno), avremmo potuto optare per un “quintuplice interazionismo”. Non lo abbiamo fatto, però, in quanto abbiamo anche trovato, nel pensiero, una sorta di “quintessenza” che, in qualità di “tessuto” connettivo, rende il molteplice “uno” e, nel cervello, un particolarissimo “specchio” deputato a rifletterne l’attività. Come l’occhio – secondo quanto afferma Goethe – è creato dalla luce per la luce, così il cervello è creato dal pensiero per il pensiero.
Anche in questo caso, dunque, non ci si dovrebbe limitare a parlare in modo generico di un’interazione, ma si dovrebbe cercare di capire in virtù di quali forze, e in quale modo, essa si attui. Ci sarebbe da considerare, ad esempio, che il rispecchiamento corticale è già frutto, in qualche modo, di una ”interazione” (anche se non di quella tra “psiconi” e “dendroni” di cui parla Eccles), ma, soprattutto, che quest’ultima è sempre e comunque un fenomeno dinamico: ovvero, l’espressione di un incontro di forze o di volontà delle quali sarebbe invero decisivo arrivare a discernere i soggetti. Ma come discernerli senza disporre di una scienza della vita, dell’anima e dello spirito (o degli spiriti)?
Un’ultima considerazione. Abbiamo udito Rota affermare: “ Nessuno ha la più pallida idea di come operi il processo di induzione scientifica, e già nel chiamarlo “processo” stiamo forse facendo un’assunzione pericolosa”; e abbiamo sentito Lerda dire: “Noi non abbiamo una definizione, anzi nemmeno una descrizione soddisfacente della nozione di idea, eppure sono le idee l’elemento fondamentale per la creatività”.
Chi ci segue sa che abbiamo dedicato una nota al “moto pendolare vivente” (17) di cui parla Steiner, ne La filosofia della libertà, e che l’abbiamo fatta seguire da una breve appendice intitolata: “Induzione e deduzione” (18). Ebbene, in quest’ultima, neanche a farlo apposta, abbiamo non solo affermato che “senza il “moto pendolare vivente” di cui parla Steiner non avremmo né induzione né deduzione”, ma ci siamo anche domandati: “Che idea ha “dell’”idea” l’odierno scienziato? Forse quella fornitagli dalla neurofisiologia o dalla neurobiologia? E cioè di una specie di “cosa”? Oppure quella fornitagli dalla cibernetica? E cioè di una mera “informazione”? Fatto sta che una cosa sono le idee della scienza (ossia, la coscienza), altra è la scienza delle idee (ossia, l’autocoscienza)”.
Abbiamo voluto sottolinearlo non per “farci belli” (poiché quel poco di buono che riusciamo a fare lo dobbiamo interamente a Steiner), ma per dar modo, a quanti credono che il suo insegnamento, essendo ormai trascorso quasi un secolo, sia in tutto o in parte inattuale, di riflettere, ed eventualmente ricredersi.
Note:
01) F.Lerda: Intelligenza umana e intelligenza artificiale – Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2002, p.8;
02) ibid., p.12;
03) ibid., p.13;
04) ibid., p.29;
05) ibid., p.18;
06) ibid., p.36;
07) ibid., p.43;
08) ibid., p.46;
09) ibid., p.61;
10) G.W.F. Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Bari 1989, p.39;
11) ibid., p.35;
12) F.Lerda: op. cit., p.10;
13) ibid., p.9;
14) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p.89;
15) cfr. R.Steiner: I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1977;
16) F.Lerda: op. cit., p.54;
17) Del “moto pendolare vivente“, 1 marzo 2003;
18) Induzione e deduzione, 4 marzo 2003.