Nel corso di una conferenza, tenuta a Dornach il 27 ottobre del 1918, Rudolf Steiner così si espresse: “Se esiste una verità fondamentale per il presente, è proprio questa: il socialismo si è liberato dei vecchi pregiudizi della nobiltà, della borghesia e delle caste militari, ma per contro esso soggiace alla fede nell’infallibile scienza materialistica, alla fede nel positivismo, come oggi viene insegnato”(1).
Orbene, non appena si intraprende la lettura de L’individuo libertario (2) di Paolo Flores d’Arcais (direttore di Micromega e noto intellettuale di sinistra) ci si accorge che tale affermazione di Steiner, benché siano trascorsi più di ottant’anni, conserva intatta, purtroppo, la sua validità.
Il primo capitolo di questo libro (dal quale – sia chiaro – non vogliamo trarre che qualche spunto di riflessione) si apre infatti con un paragrafo (intitolato: Sappiamo tutto) in cui l’autore ci presenta, quale propria “professione di fede”, una minuscola summa delle conclusioni cui sarebbe giunta – a suo dire – l’attuale indagine “scientifica” dell’uomo e del mondo. Riteniamo giustificato il parlare di “professione di fede” (benché l’autore si dichiari per un’etica “senza fede” e simpatizzi per l’illuminismo), poiché è evidente che egli fa sue tali conclusioni con la stessa fiducia e con il medesimo fervore con i quali un credente sposa la dottrina della propria Chiesa. Chi altri, del resto, se non colui cui è stata appunto rivelata la verità, potrebbe affermare – come fa Flores d’Arcais – che ormai è inutile “fingere”, “illudersi”, “nascondersi” o “sfuggire” poiché “sappiamo tutto. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Il nulla e il perché del nostro essere al mondo”?(3) Dal momento – dice inoltre – che “tutte le grandi ed “eterne” domande della filosofia hanno infine ricevuto risposta” (4) e che sappiamo ormai l'”essenziale”, non ci rimane che adottare una filosofia del “disincanto”.
Come si vede, se coloro che ripongono la propria fede nell’insegnamento della Chiesa giudicano la conoscenza umana “limitata”, Flores d’Arcais, riponendo analoga fede nell’insegnamento della scienza materialistica, la giudica invece “esaurita”. “Sappiamo tutto – scrive appunto -, inutile baloccarsi. Quello che è stato e quello che è, e che tutto poteva essere diversamente. E che sapremo quello che ancora non sappiamo. Ogni dettaglio, dalla galassia al neurone. E quello che ancora non sappiamo non inciderà sull’essenziale. Che ormai sappiamo, definitivamente”(5).
Come si possa affermare, con tanta sicurezza, che “quello che ancora non sappiamo non inciderà sull’essenziale” costituirebbe davvero un mistero se non fossimo già abituati a osservare, purtroppo, che tanto ingenuo entusiasmo per i cosiddetti “risultati” dell’attuale ricerca scientifica è più diffuso, in genere, tra gli intellettuali o i letterati (tra coloro, cioè, che dispongono di una cultura prevalentemente umanistica) che non tra gli addetti ai lavori. Mentre i secondi si cimentano infatti, quotidianamente, con le asperità della ricerca e con quelle di una corretta interpretazione dei dati forniti dalla stessa (con un puro problema, perciò, di pensiero), i primi si avvalgono invece, per lo più, delle estemporanee e semplificanti sintesi operate dalla cosiddetta “divulgazione scientifica”. Ad esempio, mentre Flores d’Arcais è convinto, da intellettuale, “che di questo cervello che è il nostro ogni giorno impariamo particolari sulla mappa delle sensazioni e dei pensieri, sugli enzimi delle passioni e sulla chimica della volontà, e sappiamo che un giorno sempre più prossimo sapremo cosa materialmente voglia dire “coscienza”, appercezione trascendentale, consapevolezza di essere “io””(6), John Eccles, da Nobel per la neurofisiologia, raccomanda invece di guardarsi da quella “radicata ortodossia materialista, sia filosofica che scientifica, che si erge a difendere i propri dogmi con un fariseismo che può quasi essere equiparato a certo dogmatismo religioso del passato” (7) e cita, tra gli altri, il fisico quantistico Henry Margenau che, nel suo Il miracolo dell’esistenza, così si è espresso: “La mente può essere considerata un campo nel comune senso fisico del termine. Ma si tratta di un campo non-materiale” (8)
Sia chiaro che, dicendo questo, non abbiamo alcuna intenzione di schierarci dalla parte di Eccles o di Margenau, ma vogliamo solo fornire un esempio del fatto che è proprio il mondo scientifico a essere più che consapevole, non solo di non sapere “tutto”, ma nemmeno l'”essenziale” (del resto, il procedimento “induttivo” della scienza, generalizzando quanto è stato osservato in un numero necessariamente limitato di casi, impone di formulare le “leggi” in termini di probabilità, e non di necessità).
Fatto si è che quello dell’attuale scienza materialistica è un sapere, in rapporto a tutto ciò che nella realtà è morto o inorganico, ma è un non-sapere in rapporto a tutto ciò che, nella stessa, è invece vivente, animato e spirituale. Per mutare questo non-sapere in un sapere, la ricerca, guidata dallo stesso spirito che anima la scienza della natura inorganica, dovrebbe riuscire a forgiare dei metodi d’indagine congeniali alle realtà della vita, dell’anima e dello spirito, cessando quindi di affrontare questi campi munita di quel solo metodo che si è ormai assuefatta a seguire (parlando della nascita della scienza, Steiner dice appunto: “Non si riconosce tale origine, quanto all’essenza della scienza stessa, se si considera l’oggetto al quale la scienza si rivolge, ma la si trova bensì nella attività dell’anima umana che si manifesta nello sforzo conoscitivo. Occorre appunto concentrare l’attenzione sul comportamento dell’anima, in quanto acquista scienza. Se ci si abitua a mettere in moto tale attività soltanto quando si tratti di oggetti accessibili ai sensi, è facile acquistare l’opinione che l’essenziale sia la percezione sensoria. E si trascura di rilevare che un certo atteggiamento dell’anima umana è stato per l’appunto applicato solamente alle manifestazioni sensibili. Ma si può andare oltre questa arbitraria autolimitazione, e considerare il carattere dell’attività scientifica, indipendentemente dal caso particolare della sua applicazione”) (9).
Mentre il sapere della scienza, ad esempio, si traduce invariabilmente in oggettiva e significativa “potenza” (ossia, nella capacità del soggetto di dominare l’oggetto o la res extensa), il suo non-sapere si traduce invariabilmente in una non meno oggettiva e significativa “impotenza” (ossia, nella incapacità del soggetto di dominare sé stesso o la res cogitans); ed è proprio questo non-sapere che impedisce all’attuale scienza materialistica di costituirsi quale fondamento dell’etica: vale a dire, di quel livello di esperienza che, in quanto esclusivamente umano, potrebbe discendere unicamente da un sapere della morte, della vita, dell’anima e dello spirito.
Cosciente di ciò (ossia, che l’etica, pur essendo “infondabile”, sia comunque “necessaria”), Flores d’Arcais tenta allora, nella speranza di riuscire a risolvere il problema, di reperire degli “argomenti per custodire valori irrinunciabili con tutta la fragilità dell’infondabile”(10).
Tale lodevole intento non lo induce però a dubitare della validità delle attuali conclusioni della scienza materialistica, bensì lo spinge a proporre un’etica che si mostri in qualche modo compatibile con la “filosofia del disincanto”.
Ma come varare sul serio una “filosofia del disincanto” se, pur “disincantati” nei confronti di tutto ciò che ci perviene dal passato in veste metafisica, ci si lascia poi “incantare” da tutto ciò che ci giunge dal presente in forma fisica?
“La nostra – dice – sta diventando la stagione del pensiero frivolo” (11). E’ vero, ma come affrancarsi da tale “frivolezza”, se non liberando il pensiero tanto dall’antica ipoteca metafisica (spiritualistica) quanto dall’attuale ipoteca fisica (materialistica)?
Il problema, dunque, non sta tanto nel fatto che quella propostaci da Flores d’Arcais voglia essere una “filosofia del disincanto”, quanto piuttosto nel fatto che tale “disincanto” si riveli parziale o unilaterale: che si riveli, cioè, un cosciente disincanto in rapporto al passato, ma un incosciente incanto in rapporto al presente.
“Il senso nel disincanto, – scrive – questo il problema. E le decisioni che ne conseguono. Se non si torna all’interrogativo etico fondamentale, all’antinomia di un fondamento necessario e al tempo stesso impossibile, e non si esplora una via d’uscita diversa dal panico del finito, si spinge la filosofia – bene che vada e anche risparmiandole gli esoterismi oracolari postmetafisici – nelle secche di gigantesche tautologie” (12).
Fondare un’etica è insomma necessario, ma al tempo stesso impossibile. Ma perché è impossibile? Perché – secondo quanto abbiamo visto – non si ha il coraggio o la spregiudicatezza di osservare criticamente molti dei “dogmi” dell’attuale scienza materialistica.
Si dovrebbe convenire, d’altro canto, ch’è davvero impossibile che un’etica umana possa derivare da una scienza non-umana: ovvero, da una scienza che, sapendo intendere, a causa dei propri contingenti limiti di pensiero, il solo mondo inorganico, si vede costretta a ridurre a questo livello ogni restante e superiore realtà.
Ricorda Nicola Matteucci: “Non ha detto forse Croce che i tedeschi avevano il concetto, ma non la pratica della libertà, mentre gli inglesi ne avevano solo la pratica?” (13).
Ma se la libertà – si rifletta – altro non è che la “pratica” del suo “concetto”, avere il “concetto” della libertà, ma non la sua “pratica” o, viceversa, avere la “pratica” della libertà, ma non il suo “concetto”, vuol dire allora non avere la libertà (La filosofia della libertà di Rudolf Steiner si divide infatti in due parti: una dedicata appunto al “concetto” o alla “scienza della libertà” e l’altra dedicata invece alla “pratica” o alla “realtà della libertà”) (14).
Orbene, Flores d’Arcais, non ricevendo alcun aiuto, per il “concetto” della libertà, dalla scienza materialistica, tenta allora di fondarne (probabilmente in ossequio al gramsciano “pessimismo del pensiero e ottimismo della volontà”) una pratica “acefala” o, per meglio dire, “noncognitivista”. Scrive, ad esempio: “Perché possano mettere radici responsabilità, individuo, esistenza, è necessario che la filosofia prenda congedo dall’Essere in tutti i suoi travestimenti e metamorfosi: Dio, Spirito, Storia, Natura, Destino, Individuo, ecc.” (15).
Dovremmo insomma scegliere – a suo dire – tra l'”Essere” e l'”esistere” o tra l'”Essere” e gli “enti”. “In questo universo di enti e di esistenze destituiti di senso, – dice appunto – la conoscenza degli enti e delle loro relazioni misurabili appartiene alla scienza, che non ha bisogno di legittimazione. La filosofia, su questo, deve solo tacere (e semmai proteggere la scienza dalle indebite incursioni del “pensare”). La scienza è l’ambito della conoscenza dell’essere una volta che l’essere sia riportato alla sua “essenza”, cioè a modesto e onnipresente predicato degli enti, che di ciascun ente ribadisce il particolare “essere” senza mai unificarli in totalità di senso, senza mai inorgoglirli (e inorgoglirsi) in ipostasi” (16).
Qui il discorso si fa davvero sconcertante.
Egli, infatti, non solo, nell’universo che si è finalmente congedato dall'”Essere”, non riesce a scorgere altro che “enti ed esistenze destituiti di senso”, le cui reciproche relazioni, oltretutto, possono essere, dalla scienza, soltanto “misurate”; non solo, degrada prima l'”Essere” a “essenza”, per ridurre poi questa a un “modesto e onnipresente predicato degli enti” (quasi che un “onnipresente predicato degli enti”, pur se “modesto”, non fosse comunque un “universale”); non solo, nella speranza di poter continuare – come si dice – a “vedere gli alberi, ma non la foresta”, auspica che la molteplicità degli enti non venga mai unificata in una “ipostasi” o in una “totalità di senso”, mostrando così d’ignorare che il singolo ente è già una “ipostasi” (il risultato, vale a dire, di un processo di “unificazione” dei molteplici impulsi nervosi che giungono al cervello); ma, quel ch’è indubbiamente più grave, nel timore – come dice – che le “indebite incursioni del “pensare”” disturbino il lavoro della scienza (che – a suo dire – “non ha bisogno di legittimazione”), arriva addirittura a pretendere che la filosofia si faccia “ancella” della stessa o si taccia.
La filosofia e il pensiero, dunque, dopo essersi con tanta fatica emancipati dall’antica tutela e autorità dei metafisici, rischiano così di finire sotto la moderna tutela e autorità dei fisici. Al “teologo dello spirito” che biasimava ieri “le indebite incursioni del “pensare”” nella sfera della religione, vorrebbe infatti sostituirsi il “teologo della materia” che biasima oggi, invece, le “indebite incursioni del “pensare”” nella sfera della scienza (materialistica).
Ma c’è di più. Quand’è – ci si potrebbe chiedere – che una “incursione” del pensiero potrebbe essere a ragione definita “indebita”? Solo quando – possiamo subito rispondere – non vi fosse corrispondenza tra la qualità del pensiero impegnato nell’indagine e la qualità dell’oggetto dell’indagine stessa. In altre parole, quando ci si desse a indagare la vita, l’anima e lo spirito con lo stesso tipo (o livello) di pensiero atto a indagare la sola realtà inorganica, ecco allora che ci si troverebbe davvero al cospetto di “una indebita incursione del “pensare””. Ma non è forse questo che fa quella scienza materialistica che tanto entusiasma Flores d’Arcais?
Fatto sta che il primo compito di un vero ricercatore, ove realizzasse che le “indebite incursioni del “pensare”” sono già attuate, ideologicamente, dalla scienza materialistica e riduttivistica (allorché si tratta di mettere in rapporto tra loro i dati forniti dall’esperienza), dovrebbe essere proprio quello di smascherare, grazie a un pensiero realmente libero, le opposte prevaricazioni del pensiero raggelato, da un lato, dalla paura dello spirito e, dall’altro, dalla paura della materia.
Per quanto riguarda il primo (quello materialistico), Eccles dice appunto: “Se si dovesse descrivere la motivazione più profonda del materialismo, si potrebbe affermare che essa è semplicemente un terrore della coscienza […] La ragione più profonda della paura della coscienza sta nel fatto che la coscienza possiede il carattere sostanzialmente terrificante della soggettività” (17). Può essere interessante notare, peraltro, che quanto affermato qui da Eccles coincide, quasi alla lettera, con quanto dice, allo stesso proposito, Steiner: “Il materialismo non è logica, – afferma infatti quest’ultimo – ma codardia davanti allo spirituale. Tutti i suoi argomenti sono solo un oppio per addormentare questa paura” (18).
Flores d’Arcais ha comunque ragione nel sostenere che “se l’Essere è, l’etica non è” (19), poiché “se l’Essere è, l’etica si spegne in obbedienza” (20). Tuttavia, per ben intendere il senso di queste affermazioni, senz’altro efficaci, ma anche troppo sbrigative, è necessario evitare – cosa ch’egli non fa – di mettere sullo stesso piano (quali meri ed equivalenti “travestimenti” dell'”Essere”), concetti tanto diversi quali quelli di “Dio”, di “Spirito”, di “Storia”, di “Natura”, di “Destino” e d'”Individuo”.
Sarebbe doveroso distinguere, anzitutto, il concetto di “Essere” da quello di “Spirito”. Una cosa, infatti, è l’Essere come Natura (l’Essere incosciente o cosciente), altra è l’Essere come Spirito (l’Essere autocosciente). Solo tale distinzione ci consente infatti di capire che l’Essere, laddove si dà come natura (cioè, nei regni minerale, vegetale e animale), in tanto spegne l’etica “in obbedienza” in quanto, a tale livello, è ancora un “Dover-essere” (21). In effetti, quella che gli studiosi della morale chiamano la “grande divisione” (quella appunto tra l'”Essere” e il “Dover-essere”) si determina solo quando, per rendere possibile la nascita della moderna autocoscienza, l'”Essere” (il pensare o la “forma”) si divide dal “Dover-essere” (dal volere o dalla “forza”). Tale momento, ovvero quello in cui l'”Essere”, svuotato della sua intrinseca “forza” comincia a manifestarsi come mera “forma” o come “non-essere”, viene significativamente a coincidere con quello in cui s’instaura, sul piano noetico, il dualismo cartesiano (“Nei classici dell’antichità – nota infatti Luca Fonnesu – sembra mancare una tematizzazione esplicita della nozione di “dovere”) (22). Quale prima conseguenza di ciò, si ha allora che la “coscienza dell’Essere” (l'”autocoscienza”, o la “coscienza dell’Io”), per il fatto di sorgere in virtù della mediazione del “non-essere” (del pensiero astratto), non riesce a darsi, inizialmente, che quale non-essere dell’Essere, o quale Spirito privo di forza e di vita. In tale veste, esso comincia comunque a opporsi alla natura vivente, permettendo così all’etica di accendersi (nel regno umano) in libertà. Il salto evolutivo (o la mutazione) che consente all'”Essere” di farsi “Spirito”, comporta dunque, necessa-riamente, la dura prova del “non-essere”: di quel “non-essere”, ossia, che caratterizza appunto la moderna coscienza intellettuale.
Ove paragonassimo, tanto per dare un’immagine, l'”Essere” originario a un agrume, potremmo allora paragonare l'”Essere” e il “Dover-essere” (che derivano dalla sua scissione) rispettivamente, alla sua scorza senza succo e al suo succo senza scorza. Del resto, che viga un generale equivoco nei confronti di queste due nozioni e, in specie, nei riguardi di quella dell'”Essere”, ci viene involontariamente confermato dallo stesso Fonnesu. Questi, infatti, dopo aver ricordato che il discorso del “dovere” è “prescrittivo”, “normativo”, “precettivo” e “direttivo”, mentre quello dell'”essere” è “descrittivo”, “assertivo”, “indicativo” e “dichiarativo”, così dice (citando R.M. Hare): “La funzione del linguaggio descrittivo è appunto descrivere, rappresentare, mentre la funzione del linguaggio prescrittivo è del tutto diversa, ed è quella di “guidare la condotta”” (23). Ecco che, al linguaggio dell'”essere”, viene dunque attribuita quella funzione “rappresentativa” ch’è propria invece del “non-essere” della ordinaria coscienza intellettuale (definita, non a caso, da Steiner, “rappresentativa”, “oggettiva” o, in quanto fondata sulla percezione sensibile, “materiale”). Un ulteriore (e ancor più chiaro) esempio di quanto andiamo sostenendo ce lo fornisce nientemeno che Hume. “Poiché la morale ha un’influenza sulle azioni e sulle affezioni, – afferma infatti – ne consegue che essa non può derivare dalla ragione, e ciò in quanto la sola ragione, come si è già dimostrato, non può mai avere un’influenza del genere. La morale suscita le passioni e produce o impedisce le azioni. La ragione di per se stessa è del tutto impotente in questo campo. Le regole della morale, perciò, non sono delle conclusioni della nostra ragione […] Finché si ammette che la ragione non ha alcuna influenza sulle nostre passioni e sulle nostre azioni, sarà vano sostenere che la morale si scopre solamente in virtù di una deduzione della ragione. Un principio attivo non può mai fondarsi su un principio inattivo, e se la ragione è di per se stessa inattiva, tale deve rimanere in tutte le sue forme e in tutti i suoi aspetti, sia che essa si impegni in questioni naturali o morali, sia che consideri i poteri dei corpi esterni o le azioni degli esseri razionali” (24).
Si dovrebbe considerare, tuttavia, che se l’etica dell'”Essere” (quale espressione di un pensare ancora unito al volere) “si spegne in obbedienza”, quella dello “Spirito” (quale espressione di un pensare scissosi dal volere e resosi per ciò stesso “impotente” o “inattivo”) si accende invece, al suo inizio, in dis-obbedienza. Proprio per questo, però, tanto la prima (quella incosciente della natura vivente o della physis) che la seconda (quella cosciente dello spirito morto o del nomos) non possono rappresentare una vera etica della libertà. La seconda, comunque, quale etica non più animata dallo spirito “pagano” della natura, ma da quello “veterotestamentario” della legge, costituisce, quale “libertà da” o “libertà negativa”, l’imprescindibile presupposto della “libertà per” o della “libertà positiva”.
Al riguardo, ancora Fonnesu scrive: “Dover-essere ed essere, prescrizione e descrizione, valori e fatti: è con queste coppie che si designa di solito la cosiddetta “grande divisione” tra i due ambiti che ci interessano, il cui problema principale è stato per lungo tempo risolvere la questione della possibilità di ridurre l’ambito del dovere all’ambito dell’essere o di derivare il primo dal secondo” (25).
Il problema attuale, tuttavia, non è quello – come dice Fonnesu – di “ridurre l’ambito del dovere all’ambito dell’essere o di derivare il primo dal secondo”, né tantomeno quello di scegliere – come dice Flores d’Arcais – tra l'”Essere” e il “Dover-essere”, bensì quello di ri-costituire, prendendo le mosse dal “non-essere” della coscienza ordinaria, e portandosi al di là sia dell’essere vivente della natura sia dello spirito morto della legge, l’unità originaria quale Spirito vivente.
Dice infatti il Vangelo (Gv.1-16): “È dalla pienezza di Lui, che noi tutti abbiamo ricevuto grazia sopra grazia. Infatti da Mosè fu data la legge; da Gesù Cristo invece è stata fatta la grazia e la verità”.
Abbiamo detto, all’inizio, che non ci fa piacere il constatare che l’affermazione di Steiner circa il soggiacere del socialismo “alla fede nell’infallibile scienza materialistica” si dimostri ancora valida. Dispiace infatti osservare che gli intellettuali di sinistra, costretti dalle vicende storiche del comunismo (o del “socialismo reale”) a un ripensamento delle proprie concezioni, non si siano ancora accorti che il materialismo al quale si sentono così strettamente legati altro non sia, in realtà, che la peggiore delle eredità borghesi (“Tanto ha trionfato dovunque, oggigiorno, – osservava ad esempio Julien Benda (nel 1932) – il dogma dell’impotenza dell’ideale e della sovranità della vita materiale” (26).
Flores d’Arcais è vicino a cogliere questa verità allorché scrive: “Partiamo da qui, dalla modernità come presunta realizzazione dell’individuo. In realtà, proprio quello dell’individuo è il progetto per eccellenza eluso, che caratterizza la modernità come l’epoca dello scarto. L’epoca dove estremo si fa il divario fra i valori solennemente proclamati (in ogni Costituzione e in ogni dichiarazione di ogni politico) e la pratica dei poteri costituiti. L’ipocrisia è la verità della modernità realmente esistente, che promette l’individuo ma lo disattende” (27).
Ebbene, tale “ipocrisia” non è forse quella del borghese sempre pronto a esaltare, a parole, i valori spirituali dell’essere, ma a badare poi, nei fatti, a quelli materiali dell’avere? E non è proprio a motivo di questo che Marx ha ritenuto di dover subordinare, agli interessi “strutturali” dell’economia, quelli “sovrastrutturali” della cultura o dello spirito?
In effetti, il fatale errore di Marx, e di tutti coloro che a lui si sono richiamati (e tuttora si richiamano), è stato appunto quello di scambiare tale stato di fatto (frutto della condizione borghese) per uno stato di diritto (frutto della condizione umana). Di credere, cioè, che la vita della cultura o dello spirito, non potendo essere diversa da quella astratta, retorica e pedante della borghesia, dovesse farsi definitivamente da parte per lasciare il posto alla concretezza della vita materiale o economica. Da questo punto di vista, il socialismo materialistico altro non ha fatto, in fondo, che portare impudicamente alla luce quel “sottosuolo” di interessi che la borghesia si è sempre sforzata invece pudicamente, ma anche ipocritamente, di celare.
Flores d’Arcais, comunque, nella speranza di contribuire – come dice – a “reinventare la sinistra”, ripudia il marxismo, getta alle ortiche il concetto di “classe” e sostiene che quella della sinistra deve ormai essere una “rivoluzione liberale (libertaria) permanente” poiché – afferma provocatoriamente: “sinistra vuol dire individuo” (28). Già, ma cosa vuol dire individuo? Vuol dire forse un corpo? O un corpo e un’anima? Oppure un corpo, un’anima e uno spirito? D’accordo che il borghese parla “astrattamente” dell’anima e dello spirito e pensa “concretamente” al corpo: ma perché, al fine di superare un simile fariseismo, non pensare allora “concretamente” al corpo, all’anima e allo spirito, anziché affermare la realtà del primo e negare quella degli altri due?
“Ethos democratico – sostiene ancora – equivale a dire individuo moralmente, culturalmente, socialmente autonomo. Senza questa personalità democratica, diffusa ed egemone, la democrazia è periclitante” (29). Ne siamo più che convinti. Ma quella della “personalità democratica” – chiediamo – è forse una questione di neuroni, di sinapsi, di enzimi o di “chimica della volontà”? Insomma, è una questione che va risolta sul piano della coscienza e della cultura o su quello della farmacologia o dell’ingegneria genetica?
“Non rinunciare mai a portare la democrazia a compimento – dice inoltre – è stringente dovere proprio nella lucida consapevolezza che si tratta di un ideale” (30). Già, ma se tale “ideale” – secondo quanto ci ha insegnato all’inizio – ha un fondamento “materiale” analogo a quello della “coscienza”, dell'”appercezione trascendentale” e della “consapevolezza di essere “io””, perché impegnarsi allora sul piano culturale o politico, e non su quello biologico? Perché non darsi alla ricerca, cioè, di quelle sostanze o di quei farmaci capaci di trasformare tutti i “nemici della democrazia” (vale a dire, “tutti i nemici della personalità e dell’ethos democratico”) in altrettanti “individui, moralmente, culturalmente e socialmente autonomi”?
Vogliamo invero sperare che Flores d’Arcais – la cui “indignazione verso l’esistente” comprendiamo e condividiamo – si renda conto che porre a fondamento dei valori ideali o morali la realtà materiale o biologica, potrebbe anche finire, presto o tardi, con l’indurre qualche sconsiderato a voler forgiare, su tali basi, non più una “razza superiore”, bensì una “razza democratica”.
A suo dire, coloro che rifiutano la filosofia del “disincanto” la rifiutano per il “timor panico del nichilismo. Per paura che i valori primi, se infondabili, spalanchino il baratro del relativismo etico, dell’indifferenza morale. Del “tutto è permesso”” (31). Può darsi. Ma da quale “timor panico” – ci si dovrebbe anche chiedere – sono invasi coloro che, pur riconoscendo che tali valori sono infondabili sulla base di una scienza materialistica, si rifiutano di fondarli sulla base di una scienza spirituale? Hanno forse paura, mollando la gruccia del pensiero fisico, di ricadere nelle braccia di quello metafisico? Suvvia, un po’ d’immaginazione! Possibile che non si sappia far altro che passare – come dice Claudio Magris – “dalla utopia al disincanto” (ovvero, dal punto di vista psicologico, dalla mania alla depressione)? E se è vero che “chi semina vento raccoglie tempesta”, è mai possibile, allora, che tutti gli orrori della volontà raccolti nel Novecento, quali frutti di tutti gli errori di pensiero seminati soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, non siano ancora sufficienti a rimuovere i tanti pregiudizi che ancora vietano, ai più, di prendere in seria considerazione la “scienza dello spirito” di Rudolf Steiner e, in specie, il contributo che essa potrebbe offrire all’impegno per uno sviluppo pienamente umano dell’individuo e della società?
Scrive Flores d’Arcais: “Perché vi sia mercato, è necessario che qualcosa (molte “cose”, in verità) non sia in nessun modo negoziabile, acquistabile, scambiabile, mercanteggiabile. Le leggi e i giudici, per cominciare” (32).
Ebbene, non è proprio questo uno dei principali obiettivi perseguiti dalla proposta di una “triarticolazione dell’organismo sociale” avanzata da Steiner? (33)
Torneremo tra breve sull’argomento. Proviamo invece a osservare, nel frattempo, come Flores d’Arcais affronta la questione di quello che chiama il “primato etico”.
A suo parere, infatti, se si assegna tale primato all'”Essere”, questo, in quanto primato della natura, finisce per spegnere l’etica “in obbedienza”; se lo si assegna invece all'”Io”, questo finisce per produrre una “egocrazia” e l’inevitabile guerra di tutti contro tutti; se lo si assegna infine al “Noi”, questo, in quanto primato del gruppo o del collettivo, comporta un deprecabile “conformismo” degli individui. È perciò chiaro – conclude – che un primato del genere non lo si può assegnare che al “Tu”.
“Solo attraverso il primato del tu – dice appunto – si può inaugurare un mondo di individui”, perché – spiega – “ciascuno è individuo in quanto la sua irripetibilità è riconosciuta come identità (e non alterità di nemico, o di non uomo) da un altro. La sua identità gli è garantita come valore dall’essere il tu dell’altro. Resterebbe, altrimenti, un semplice e inutilizzabile vissuto d’identità. Solo la reciprocità del tu fonda l’identità dell’individuo, a limitazione dell’autodistruttivo delirio dell’io” (34).
Così facendo, Flores d’Arcais non si accorge però di decretare tanto la morte dell'”autocoscienza” (del “cogito, ergo sum”) quanto la nascita dell'”eterocoscienza” (del “cogitas, ergo sum”). “Solo la reciprocità del tu – afferma infatti – fonda l’identità dell’individuo”: il che significherebbe, a rigore, che ciascuno, non essendo in grado di mantenere “eretta”, da solo, la propria identità, non potrebbe far altro, una volta lasciato a se stesso, che farla cadere e smarrirla (ove fosse così, si dovrebbe peraltro riconoscere che Robinson Crusoe – l’eroe inglese dell'”anima cosciente” o dell’autocoscienza – è stato invero fortunato a ignorare che la propria identità non fosse altro che “un semplice e inutilizzabile vissuto”) (35).
Fatto sta, che “l’identità dell’individuo” si “fonda” sulla opposizione del soggetto all’oggetto, e non sulla “reciprocità del tu”. È proprio per questo, infatti, che il soggetto, abituato a sostenere l’autocoscienza contrapponendosi all’oggetto, è portato a considerare “oggetto” anche l’altro “Io” o il “tu”.
In ogni caso, pur essendo anche noi convinti che il primato dell'”Essere” vada escluso (poiché, quale primato della “necessità”, non permette alcuna scelta), riteniamo però che il problema non consista tanto nell’assegnare, sulle pagelle dell'”Io”, del “Noi” e del “Tu”, i voti di condotta, o nel segnare alla lavagna i primi due dalla parte dei “cattivi” e il terzo da quella dei “buoni”, quanto piuttosto nello stabilire, innanzitutto, a chi spetti il privilegio di prendere una cotale iniziativa.
L’idea del primato del “Tu”, ad esempio, a chi è venuta? È stata posta, ossia, da quell'”Io” che risponde al nome di Paolo Flores d’Arcais o gli è stata imposta da un qualche “Noi” o da un qualche “Tu”?
In realtà, basterebbero questi semplici interrogativi per realizzare ch’è esclusivamente l'”Io” a poter decidere a chi debba essere assegnato un tale primato (osserviamo – per inciso – che se la libertà comincia allorché il pensare si divide dal volere, l’amore, quale supremo compimento della stessa, comincia invece allorché il pensare, tornando a unirsi liberamente al volere, prende a dar vita a un’esperienza diversa sia da quella del pensiero intellettuale che da quella del volere naturale o istintivo).
È del resto comprensibile che Flores d’Arcais, fermo com’è alla considerazione esclusivamente analitica di questi dati, non abbia per nulla valutato la possibilità che l'”Io” stesso sia in grado di portarsi oltre il suo stato esistenziale di “ego”. Ove si distinguesse infatti – come sarebbe doveroso – l'”Io” dalla coscienza dell'”Io”, non si tarderebbe a scoprire che l'”ego”, quale coscienza meramente “corporea” o “spaziale” dell'”Io”, altro non è, in realtà, che il soggetto della moderna coscienza borghese. Chiunque intenda perciò superare tale livello di coscienza (chiunque voglia, cioè, che l'”Io” si riconosca nel “Tu” o nel “Noi”) non può far altro, allora, che impegnarsi a condurre l’autocoscienza oltre il suo presente limite materiale: ossia, oltre quel limite che essa già varca, venendo però meno a se stessa, ogni volta che entra in modo del tutto naturale nello stato di sonno e di sogno. Soltanto quindi rafforzandosi (grazie a un’opportuna pratica interiore), la coscienza può riuscire a varcare tale “soglia” senza smarrirsi e a sperimentare così il proprio soggetto, non più soltanto come “ego” (nello spazio), ma anche, ai suoi livelli superiori, come “Io vivente” (nel tempo), come “Io animico” e come “Io spirituale”.
Osserva in proposito Steiner: “Il pensare è al di là di soggetto e oggetto. Esso forma questi due concetti come forma tutti gli altri […] Non è che il soggetto pensi per il fatto di essere soggetto bensì esso appare a se stesso come soggetto perché ha la facoltà di pensare” (36). Da questo punto di vista, potremmo anche dire, perciò, che se l'”ego” è il soggetto pensato (o rappresentato, in quanto percepito in precedenza come corpo), l'”Io” è invece il soggetto del pensare, e quindi il vero pensante.
Flores d’Arcais vorrebbe, a ragione, che l'”ego” non vedesse nell’altro un “oggetto” (se non addirittura – come scrive – un “nemico” o un “non uomo”); non si avvede, tuttavia, che una cosa del genere la si può evitare soltanto superando quella sfera materiale o corporea nella quale gli individui, proprio per il fatto di sperimentarsi separati gli uni dagli altri, hanno cominciato a realizzare l’autocoscienza. Se davvero si vuole, insomma, che il “Tu” non sia avvertito più come un “oggetto”, ci si deve allora educare a sperimentare il “Tu” (o il mondo) nell’Io e l’Io nel “Tu” (o nel mondo). Ciò può realmente avvenire, però, solo se, grazie alla pratica della scienza dello spirito, si rafforza e sviluppa la forza del pensare (del volere nel pensare).
Flores d’Arcais ha giustamente a cuore il “finito” o gli “enti”, ma non si rende conto che l’esistere dipende, in primo luogo, dalla coscienza dell’essere (“se fossi re e non lo sapessi – recita appunto l’adagio – sarebbe come se non lo fossi”).
Si pensi, ad esempio, al processo di metamorfosi grazie al quale un bruco si muta dapprima in crisalide e poi in farfalla. Orbene, c’è forse qualcuno disposto a credere che l’esistenza di un bruco ignaro delle proprie potenzialità sia in tutto e per tutto uguale a quella di un altro che ne è invece consapevole? E che il rapporto del primo con gli altri (con quelli, in particolare, che si sono già trasformati in crisalidi o in farfalle) sarà in tutto e per tutto uguale a quello del secondo?
Di fatto, come ciascun bruco non è che una potenziale farfalla, così ogni “ego” non è che un potenziale “Io”. Ove si paragonasse il bruco all'”Io” allo stato di “ego”, la crisalide all'”Io” allo stato di “Tu” e la farfalla all'”Io” allo stato di “Noi” (“dico espressamente l’anima individuale – precisa infatti Steiner – perché – e lo dico intenzionalmente – sulla terra non esiste solo l’individuale anima umana, ma anche l’umanità”) (37), ci si renderebbe conto allora di quanto sia inadeguato, a tale viva realtà, l’approccio di quell’intelletto che in tanto si pone il problema del “primato” tra l'”ego”, il “Tu” e il “Noi”, in quanto concepisce questi come delle realtà statiche, separate e giustapposte.
A conferma di ciò, osserviamo che il medesimo intelletto si trova di nuovo in difficoltà allorché prende in esame la natura dei tre celebri ideali di “libertà”, “uguaglianza”, “fratellanza”, e quella, soprattutto, dei loro reciproci rapporti.
Dice infatti Flores d’Arcais: “Storicamente il termine sinistra nasce con la rivoluzione francese, dunque come stenogramma degli “immortali principi”: libertà, eguaglianza, fratellanza. Valori che la sinistra deve assumere, più che mai, in questa sequenza logica. La libertà (le libertà), viene prima, benché trascini con sé eguaglianza e fratellanza. Il che vuol dire, certamente, che se dalla libertà non si traggono le conseguenze di eguaglianza e fratellanza, le stesse libertà vengono tradite e compromesse. Senza prospettiva egualitaria si perde anche la logica libertaria. Ma vuol dire anche, e soprattutto, che eguaglianza e fratellanza possono essere interpretate solo all’insegna delle libertà, dunque in accezione rigorosamente antiautoritaria (e a fortiori antitotalitaria)” (38).
Come si vede, l’autore si pone anche qui il problema di quale sia, dei tre, l'”immortale principio” cui vada conferito il “primato”, o di quale sia quello che – come dice – venga “prima” degli altri. Anche in questo caso, dunque, non gli riesce di cogliere, in tali principi, le manifestazioni, a tre livelli diversi, di un’unica realtà spirituale (ossia, dell’amore quale essere dello spirito). Omettendo inoltre di distinguere il piano dell’uguaglianza morale di fronte allo spirito da quello dell’uguaglianza formale di fronte alla legge (della “isonomia”), egli non si accorge che, se è la libertà spirituale dell’individuo a garantire, nel primo caso, l’uguaglianza morale, è l‘uguaglianza giuridica a garantire invece, nel secondo, la libertà civile del cittadino. Distinguere, d’altro canto, l’individuo dal cittadino e la moralità dalla legalità è cosa che, sulla scia dell’insegnamento veterotestamentario, non sembra pienamente riuscire né al cattolicesimo, né al liberalismo, né al socialismo (vano è stato infatti lo sforzo di Croce di distinguere il liberalismo etico d’impronta tedesca, da quello giuridico d’impronta francese e da quello economico d’impronta inglese. Così come vano, in fondo, è pure l’affannarsi a distinguere tra “obblighi giuridici” e “obblighi morali” quando non si sa vedere nulla al di là della sfera dell'”obbligo”).
Comunque sia, se non si vuole rimanere sul piano della mera speculazione, occorrerebbe cominciare allora a prevedere, al di là delle istituzioni deputate a governare autonomamente la vita economica (nel cui ambito, l’individuo si dà soprattutto come “lavoratore” e lo spirito quale “fratellanza”), e al di là di quelle deputate a governare autonomamente la vita politica (nel cui ambito, l’individuo si dà soprattutto come “cittadino” e lo spirito quale libertà “civile” o quale uguaglianza “giuridica”), delle ulteriori istituzioni deputate a governare autonomamente la vita spirituale (nel cui ambito, l’individuo si dà soprattutto come “Io” e lo spirito quale libertà “individuale” o quale uguaglianza “morale”).
“Proprio la coerenza della democrazia, – dice Flores d’Arcais – e l’ethos che deve sorreggerla, esigono il riconoscimento di sfere autonome dalla politica, dove devono valere regole e criteri diversi. Proprio questa versione esigente della democrazia esige che non ogni sfera sia regolata dal voto, dal consenso di maggioranza. Hannah Arendt, una delle rarissime voci della filosofia politica americana di questo secolo ad aver pensato radicalmente la democrazia – e contro gli establishment, non a caso – ha insistito instancabilmente su questo punto: perché la politica torni ad essere luogo di ascolto simmetrico fra cittadini eguali, la vita privata e quella culturale devono essere protette rispetto alla politica e obbedire ai criteri della loro autonomia” (39).
Ebbene, tali “sfere autonome dalla politica dove devono valere regole e criteri diversi”, non sono appunto, nella proposta di una “triarticolazione dell’organismo sociale”, quella “economica” e quella “spirituale”? E allorché Steiner dice che lo spirito del “liberalismo” dovrebbe animare la vita spirituale o culturale, quello della “democrazia” la vita politica o giuridica e quello del “socialismo” la vita economica, non viene appun-to soddisfatta l’esigenza di una vita sociale in cui “non ogni sfera sia regolata dal voto” o “dal consenso di maggioranza”?
“Non si può in alcun modo confondere – ribadisce infatti Flores d’Arcais – la passione democratica con l’estensione del principio di maggioranza a tutte le istituzioni pubbliche, per non parlare poi della vita privata, degli affetti, del sesso” (40).
“La sinistra – egli pertanto conclude – non ha nuovi obiettivi da scoprire. Libertà, eguaglianza, fratellanza suonano ancor oggi tutt’altro che scontati. Ad essi non c’è nulla da aggiungere, se vogliamo. Si tratta “solo” di prenderli sul serio, e di inventare una prassi adeguata per approssimarli” (41). D’accordo, ma perché la sinistra non prende allora “sul serio” la proposta di Steiner: quella, ossia, di chi ha dimostrato di aver preso tanto sul serio la “triarticolazione” degli “immortali principi” da essere riuscito addirittura a tradurla in un concreto progetto di “triarticolazione” dell’organismo sociale?
Del resto, qualora si fosse davvero intenzionati ad abbandonare l’idea di uno “Stato etico” (e anche quella, perciò, di una surrettizia “etica della legalità”) e ci si decidesse finalmente a distinguere, anche nei fatti, la dimensione interiore o “privata” della morale da quella esteriore o “pubblica” del diritto, presto ci si accorgerebbe che molte delle migliori speranze tanto dei liberali (ad esempio, quella dello “Stato di diritto”) quanto dei socialisti (ad esempio, quella della “solidarietà”), potrebbero realizzarsi (o “approssimarsi”, come preferisce dire l’autore) solo nell’ambito di un organismo sociale “triarticolato”: nell’ambito di un organismo, cioè, i cui tre principali apparati dovrebbero unicamente obbedire – come sostiene Steiner e come pure auspica Flores d’Arcais – “ai criteri dello loro autonomia”.
Ludwig von Mises (celebre caposcuola del liberismo) è ad esempio convinto che “coloro che dirigono la produzione non sono in realtà gli imprenditori bensì i consumatori”. Essendo i desideri e le necessità di questi ultimi, infatti, “a determinare ciò che dovrebbe essere prodotto”, ne conseguirebbe – a suo dire – che chi produce “deve obbedire incondizionatamente agli ordini dei consumatori” (42). Qui Mises però, senza forse volerlo, ci presenta un quadro che illustra quanto dovrebbe avvenire, o quanto sarebbe bene che avvenisse, ma non illustra affatto quanto realmente avviene. Difatti, quando la “formazione” o l”educazione” del consumatore viene lasciata, in modo diretto o indiretto, nelle mani di coloro che detengono il potere economico, quali garanzie si hanno che venga prodotto ciò che necessita (anche sotto il profilo della “qualità” e della “quantità”) e che non si finisca invece col sentire necessario (quale effetto, magari, di una ossessionante pressione pubblicitaria) ciò che viene prodotto?
Non ha insegnato nulla il caso del “cacao Meravigliao”: ovverosia, quello di un prodotto inesistente che, per il solo fatto di essere stato scherzosamente pubblicizzato nel corso di una trasmissione televisiva, ha immediatamente spinto un gran numero di consumatori a richiederlo agli allibiti commercianti?
Flores d’Arcais, in polemica con i liberisti, s’impegna a distinguere l’uomo “giuridico” (il cittadino) da quello “economico” (dal lavoratore), ma non s’impegna affatto a distinguere il primo da quello “spirituale” (dall’individuo). Anzi, avendo ripudiato la “lotta di classe” e il “paneconomicismo” marxista, egli si fa addirittura paladino di una neoilluministica rivoluzione giuridica, poiché si dice convinto che tanto l'”ethos democratico” quanto gli “individui, moralmente, culturalmente e socialmente autonomi” possano divenire tali soltanto in virtù del diritto o della legge (in totale dispregio, perciò, dell’esperienza riassunta nel noto detto: “fatta la legge, trovato l’inganno”). “Una politica di legalità – dice infatti – è oggi la più radicale delle rivoluzioni possibili, oltre che la prima delle rivoluzioni auspicabili” (43). È bensì vero – specifica – che per realizzare un “ethos diffuso della legalità” s’impone “una rivoluzione delle coscienze”, ma è altrettanto vero – conclude – che “il mutamento delle coscienze, della cultura diffusa, dei comportamenti medi, non potrà che seguire la trasformazione politica e istituzionale” (44).
Al riguardo, sarebbe bene però domandarsi: in qual modo “il mutamento delle coscienze, della cultura diffusa e dei comportamenti medi” seguirà la trasformazione politica e istituzionale? La seguirà liberamente o coattivamente? Mediante, cioè, l’educazione e il convincimento o mediante l’imposizione e la repressione? E se si desidera (come pare il caso di Flores d’Arcais) che ciò avvenga soprattutto mediante l’educazione e il convincimento, non sarà allora opportuno (e soprattutto prudente) che tale compito venga riservato alle libere istituzioni “culturali” anziché a quelle “politiche” o “giuridiche”?
In ogni caso (e per concludere), l’autore, nel tentativo di ridurre la libertà “morale” dell’individuo (individuo che – a suo dire – “è unico, oppure non è”, “è autonomia, oppure dilegua”) (45) a quella “legale” del “cittadino”, si vede costretto a ridurre i diritti “umani” a diritti “civili” (46) e a negare l’esistenza di una “libera volontà”.
Scrive infatti: “Proprio perché dobbiamo riconoscere la libera volontà come un quasi nulla, tanto più questo fragile e frammentario territorio di autonomia andrà protetto e coltivato dalle istituzioni che si vogliono liberali, e da una società che si dichiara aperta. Perché questo quasi nulla è poi l’unico preziosissimo e irrinunciabile tutto per il quale, contro natura, ha deciso di impegnarsi la democrazia” (47).
Egli parla dunque della “libera volontà” come di un “quasi nulla” che è anche, però, un “preziosissimo e irrinunciabile tutto”, ed evoca (seppure in modo velatamente polemico), tanto il moderno liberalismo di Karl Popper (quello della “società aperta”), quanto quello classico di John Stuart-Mill che, nel suo Per una filosofia della libertà (48), si pone il problema della libertà del singolo, ma non si pone affatto quello della libertà nel singolo. Vale a dire, si pone tale problema sul piano del rapporto esteriore dell’individuo con gli altri e con il “potere” (laddove lo stesso può essere effettivamente risolto da istituzioni giuridiche che “difendano” o “proteggano”, democraticamente, la libertà dei cittadini), ma non se lo pone affatto sul piano del rapporto interiore dell’individuo con sé stesso (vale a dire, con le proprie passioni o inclinazioni naturali). Sia Mill che Flores d’Arcais non sembrano tener conto, perciò, che è proprio dalla natura di questo rapporto interiore che dipende quella della relazione esteriore dell’individuo con gli altri e col mondo.
Quel che più c’interessa, comunque, è capire cosa voglia dire che la “libera volontà” è un “quasi nulla”. A rigor di logica, infatti, ciò dovrebbe significare che la stessa in parte minima è e in parte massima non è. Ove così fosse, ci sarebbe però da domandarsi: se la notizia che la libera volontà non è gli è stata fornita dalla scienza materialistica (non si dimentichi che Flores d’Arcais ci ha parlato, all’inizio, di una “chimica della volontà”), da quale altra scienza gli sono state invece fornite, e quella che la libertà è, e quella che il suo essere e il suo non-essere stanno tra loro nella proporzione indicata?
A queste domande, purtroppo, è vano cercare, nel libro, una qualche risposta (fatto invero strano, ove si ricordi che – secondo l’autore – sappiamo ormai “tutto” o quantomeno l'”essenziale”). Anche in questa occasione, comunque, egli non viene affatto sfiorato dal sospetto che il suo “quasi nulla” riguardi, non la natura della libera volontà, ma la natura della coscienza materialistica della stessa. Mentre la libera volontà, infatti, quale volontà spirituale dell’Io, è un “tutto” invero “preziosissimo e irrinunciabile”, la coscienza (o l’incoscienza) materialistica della stessa non è in effetti che un “nulla”: poiché così dicendo l’individuo, anche se “libertario” e non “libero”, cesserebbe però di esistere, è comprensibile che si preferisca allora sostituire il “nulla” con un eufemistico (ma anche farisaico) “quasi nulla”.
NOTE
(1) R.Steiner: Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, p136. Sarà bene precisare che con l’espressione “scienza materialistica” non ci si riferisce qui, ovviamente, a quell’indagine della realtà inorganica per la quale ci si serve, legittimamente, dei sensi fisici e dell’intelletto a essi collegato, bensì a quell’orientamento cosiddetto “scientifico” che ritiene, arbitrariamente, di poter estendere questo modo di procedere all’esame di tutta la restante realtà. Si tenga altresì presente, al riguardo, che se è vero che al realismo “ingenuo” o della “materia” dell’Ottocento si è venuto sostituitendo, nel Novecento, quello “metafisico” o dell'”energia”, è altrettanto vero, però, che siffatto realismo altro non è, in sostanza, che la versione “dinamica” o, in qualche caso, perfino “mistica” del materialismo.
(2) P.Flores d’Arcais: L’individuo libertario – Einaudi, Torino 1999.
(3) Ibid., p.4.
(4) Ibid., p.10.
(5) Ibid., p.7.
(6) Ibid., p.6.
(7) J.Eccles: Come l’io controlla il suo cervello – Rizzoli, Milano 1994, p.28.
(8) Ibid., p.51.
(9) R.Steiner: La scienza occulta nelle sue linee generali – Antroposofica, Milano 1969, p.31.
(10 )P.Flores d’Arcais: Op. cit., p.14.
(11 )Ibid., p.15.
(12) Ibid., p.17.
(13 )Cit. in B.Croce: La religione della libertà – Sugarco, Milano 1986, p.73.
(14) Cfr. R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposfica, Milano 1966.
(15) P.Flores d’Arcais: Op. cit., p.25.
(16) Ibid., p.26
(17) J.Eccles: Op. cit., p.74.
(18) R.Steiner: Le basi occulte della Bhagavad Gita – Miriadi, Mestre 1999, p.92.
(19) P.Flores d’Arcais: Op. cit., p.22.
(20) Ibid., p.23.
(21) Benché risulti chiaro dal contesto, vogliamo lo stesso precisare che, con il termine “dover-essere”, indichiamo qui lo stato di necessità che caratterizza la natura: non, perciò, un dover-essere quel che non si è, bensì un non poter-essere che quel che si è. È senz’altro vero che, per i più (e anzitutto per Kant), la sede propria del “dover-essere” si trova nel mondo umano e non in quello della natura, ma tale convinzione non deriva, a ben vedere, che da una inadeguata rappresentazione della realtà dell’Essere originario. In altri termini, se non ci si rappresenta in modo vivente la primigenia unità dell’Essere (cioè, quale sintesi di “Essere” e “Divenire”), è allora inevitabile il non riuscire poi a rappresentarsi adeguatamente quanto origina, nell’uomo, dalla sua scissione: vale a dire, la spenta forma dell'”Essere” (il non-essere), la viva forza del “Dover-essere”, e i loro reciproci e dinamici rapporti.
(22) L.Fonnesu: Dovere – La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1998, p.8.
(23) Ibid., p.23.
(24) D.Hume: Trattato sulla natura umana in Opere (vol.1°) – Laterza, Roma-Bari 1998, pp.483-484.
(25) L.Fonnesu: Op. cit., p.23.
(26) J.Benda: Discorso alla nazione europea – Marsilio, Venezia 1999, p.22.
(27) P.Flores d’Arcais: Op. cit., p.105.
(28) Ibid., p.104.
(29) Ibid., p.86.
(30) Ibid., p.93.
(31) Ibid., p.19.
(32) Ibid., p.73.
(33) Cfr. R.Steiner: I punti essenziali della questione sociale – Bocca, Milano 1950.
(34) P.Flores d’Arcais: Op. cit., pp.45-46.
(35) Perché non si creda che questa sia una mera “battuta”, si consulti: I.Watt: Miti dell’individualismo moderno – Donzelli, Roma 1998.
(36) R.Steiner: La filosofia della libertà, p.51.
(37) R.Steiner: Le basi occulte della Bhagavad Gita, pp.64-65.
(38) P.Flores d’Arcais: Op. cit., p.112.
(39) Ibid., pp.127-128.
(40) Ibid., p.128.
(41) Ibid., pp.118-119.
(42) A.Oliverio: Ludwig von Mises: la democrazia è figlia del mercato in Destra e sinistra – Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1999, p.73.
(43) P.Flores d’Arcais: Op. cit., p.137.
(44) Ibid., p.138.
(45) Ibid., p.106.
(46) Ibid., p.170.
(47) Ibid., p.112.
(48) Cfr. J.Stuart Mill: Per una filosofia della libertà – Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1999.